In vista della presentazione del prossimo 6 febbraio organizzata a Bologna dall’Associazione In Manifesto in rete, pubblichiamo questa recensione di Loris Campetti al libro di Sergio Sinigaglia Il diario ritrovato
Per il diritto romano la “damnatio memoriae” comportava la cancellazione definitiva di ogni atto, addirittura di ogni traccia, della persona condannata, e ogni riferimento a essa era interdetto. Prima la vittima – cioè il colpevole per l’accusa – veniva condannato a pene pesanti, a cui seguiva l’abolitio nominis in modo che il suo pronomen non venisse tramandato alla famiglia e, infine, si imponeva la rescissio actorum, nient’altro che la distruzione di tutte le opere del condannato. Insomma, damnatio memoriae come morte civile. Il revisionismo iconografico, cioè lo sbianchettamento dalle foto ufficiali dei dirigenti messi sotto accusa dal regime stalinista, pratica poi mantenuta dopo la destalinizzazione, non ha inventato nulla di nuovo.
Nella stagione che ci tocca vivere la damnatio memoriae è stata decisamente facilitata dai sensi di colpa delle vittime spinti fino all’autocancellazione delle proprie storie e identità, nel tentativo di presentarsi rinnovati al futuro dopo un’accurata quanto ridicola ricostruzione della verginità. Prima che Matteo Renzi portasse a termine la cancellazione dalla storia nazionale e dalla sua componente democratica di ogni traccia di passato comunista – geniale, a questo proposito, l’operazione Sergio Mattarella – ci aveva pensato Valter Veltroni a giurare che lui non era mai stato comunista.
Se tra gli ex comunisti e gli ex gruppettari di sinistra la rimozione di sé è ahinoi la cifra dominante, al contrario esiste un drappello di irriducibili pronti a rivendicare le proprie scelte passate a ogni piè sospinto, rifiutando di sciogliersi nell’acido del revisionismo dominante di pentiti e imbroglioni. A questo secondo partito appartiene certamente Sergio Sinigaglia, orgogliosamente (e settariamente, se posso essere provocatorio in stile vetero manifestino) militante di Lotta continua, ossessionato dalla mission di salvare dal dileggio e dal revisionismo dei vincitori e degli ex combattenti da essi arruolati non tanto l’identità comunista, quanto piuttosto il ’68 e le lotte degli anni Settanta.
La battaglia finalizzata a rendere giustizia a un decennio non solo e non soprattutto tragico ma per molti aspetti esaltante, dunque a negare la narrazione prevalente degli anni Settanta come anni di piombo, attraversa senza soluzione di continuità tutta la produzione libraria di Sergio Sinigaglia, che dopo “Di lunga durata” (Affinità elettive editore) e “La piuma e la montagna (Manifestolibri) si cimenta con il suo primo romanzo: “Il diario ritrovato”, Italic Pequod, 16 euro.
Il protagonista del libro è un ragazzino d’oggi, curioso, cresciuto in una famiglia borghese e litigiosa, madre berlusconiana e padre incapace di elaborare il lutto per la morte tragica di suo fratello e al tempo stesso impegnato nel tentativo di nasconderne le idee, i sogni e le battaglie. Un ragazzino che non deve sapere. Senonché una traccia, la verità, vien fuori da un diario nascosto in una polverosa cantina. Ed ecco riemergere lo zio militante, naturalmente di Lotta continua, lo zio cancellato dal passato della famiglia per evitare appunto che ne resti traccia nel futuro, un tabù di cui in casa non si è mai voluto parlare per proteggere l’adolescente dal rischio di raccogliere il testimone di una Weltanschauug finita fuoricorso come la lira e la dracma. Dal diario prorompe una storia dimenticata perché raccontata dai vincitori nel silenzio degli sconfitti.
La lotta contro le ingiustizie e l’autoritarismo, persino nei luoghi più oscuri delle istituzioni totali come le caserme, gli scioperi del rancio dei soldati, il loro incontro, o sogno di incontro, con gli operai in lotta contro altre ingiustizie, o forse le stesse. Oggi un adolescente non è certo in grado di declinare l’acronimo Pid (Proletari in divisa, vedi alla voce Lotta continua) o peggio ancora Cmcm (Collettivo militari comunisti Manifesto), come non lo era il ragazzo del libro di Sinigaglia che pure si appassiona a quella storia, e viola l’ordine insensato a non sapere, a non conoscere li idee di chi, con Nanni Balestrini, gridava “Vogliamo tutto”. Ma il libro è un romanzo, non un saggio politico-sociale, che incrocia sentimenti, passioni al tempo in cui per fare l’amore in un’automobile senza i ribaltabili bisognava aggiustarsi nei sedili posteriori evitando così il malefico cambio.
Un romanzo, se è lecito semplificare, a lieto fine, in cui l’adolescente ritrova il padre, matura attraverso la conoscenza, si emancipa attraverso la ricostruzione della storia dello zio che i suoi genitori non sono riusciti a sbianchettare, grazie a quel diario segreto scoperto in cantina. Per l’analisi del testo si rimanda alla sapiente introduzione del critico letterario Massimo Raffaeli, autore dell’introduzione. Io volevo soltanto approfittare dell’occasione della presentazione del libro di Sergio Sinigaglia per dare un pestone a chi, colpevolmente, riduce il ’68 e le lotte del decennio successivo alla loro deriva minoritaria: il terrorismo, complice della sconfitta di chi cercava di costruire un’altra storia e un altro mondo. Che sono ancora possibili.