Serve ancora il sindacato, nel secondo decennio del terzo millennio dopo Cristo? Seconda domanda: chi rappresenta il sindacato nella stagione della globalizzazione neoliberista, quali figure sociali tutela e quali sono invece abbandonate allo strapotere del turbocapitalismo? Terza domanda: cosa è diventato il sindacato? Sono tre domande difficili, le risposte non possono essere semplici né individuali. Quel che posso tentare di fare è di inquadrarle nel contesto dato, qui e ora ma con un occhio al futuro analizzando le linee di tendenza.
La miseria della politica
La prima cosa che mi viene da dire è che non è mai stato così difficile come oggi fare sindacato e, al tempo stesso, non è mai stato così necessario. Indispensabile, aggiungerei. La ragione prima della difficoltà rimanda alla politica, alla sua mutazione nella chiave dell’autoreferenzialità, allo sfilacciamento e allo snaturamento della democrazia e allo svuotamento della partecipazione. Non solo in Italia, certo, ma sulle dinamiche in atto nostro paese val la pena soffermarsi. Bastava dare un’occhiata alla grande manifestazione di Firenze organizzata dal collettivo e dalle Rsu Fiom della Gkn per rendersi conto dell’abisso che separa la lotta operaia, le condizioni materiali dei lavoratori, dalla Grande Politica. Nelle interviste realizzate per un libro-inchiesta – Ma come fanno gli operai – mi aveva colpito il racconto di un giovane delegato di una fabbrica aerospaziale del Varesotto: “Vedi, lì dai tempi dei tempi è appesa una gigantografia di Enrico Berlinguer. Per i vecchi operai la sinistra incarnata dal segretario del Pci rappresentava un riferimento forte, identitario. Per i giovani operai, invece, gli eredi principali del Pci sono quelli che più scientificamente hanno abbattuto i diritti dei lavoratori, a partire dall’attacco allo Statuto dei lavoratori”. La rabbia può addirittura spingere gli operai convintamente di sinistra a votare per dispetto un partito con cui non si ha nulla a che fare pur di punire chi è accusato di essere passato dall’altra parte, dalla parte dei padroni. Un operaio della Fiat diceva parole condivise da tanti suoi compagni in tuta blu: “Ho votato per Appendino sindaca di Torino anche se non mi aspetto nulla dai grillini, perché il Pd ripresentava Piero Fassino, quello che nello scontro tra la Fiom e Marchionne si era schierato con Marchionne. Non ho votato come sarebbe stato normale per Giorgio Airaudo, ottimo compagno, perché il modo più sicuro per far perdere Fassino era votare per il M5S”. I lavoratori sono ormai privi di una rappresentanza politica forte, per essere più precisi non hanno sponde nella politica (so bene che a sinistra del Pd ci sono forze come il Prc che si battono al fianco dei lavoratori, ma se vuoi trovarle devi andare nelle manifestazioni di lotta, non in Parlamento e nelle istituzioni. Ma ciò richiederebbe una riflessione a parte che esula da questo articolo). E’ stupido e ipocrita meravigliarsi a ogni elezione per la fuga fuori dalla sinistra del voto operaio. I lavoratori sono soli, il centrosinistra cerca consensi e voti nei ceti alti, nei centri storici e nei quartieri bene delle città, nei cda delle banche più che tra i bancari, in quella che una volta si chiamava borghesia. Fare sindacato senza avere sponde nella politica e nelle istituzioni, con il Pd che è il più convinto sostenitore della dittatura del mercato, è davvero dura.
C’era una volta l’internazionalismo
Di un altro elemento di difficoltà a fare sindacato scrivo solo il titolo, è il passaggio dall’internazionalismo proletario all’individualismo proprietario: la fine del bipolarismo con l’inevitabile e tardiva implosione del socialismo reale ha “semplificato” lo scenario mondiale e abbattuto icone e riferimenti. Ciò ha contribuito, in assenza di un progetto politico alternativo, cioè di un’altra idea di sinistra e del mondo, ad accelerare lo scatenarsi della guerra tra poveri, tra lavoratori del nord e quelli del sud e dell’est, tra uno stabilimento e l’altro. Insomma, la crisi della solidarietà è cresciuta di pari passo con le diseguaglianze. Consiglio a tutti una gita a Monfalcone, davanti ai cancelli della Fincantieri, per farsene un’idea. Il sindacato, nato con l’idea che i proletari di tutto il mondo dovessero unirsi, oggi più che in passato avrebbe bisogno come il pane di un’ottica internazionale, globale se preferite, che invece manca da tempo. Senza una strategia e un coordinamento globali si può far poco per ridimensionare la prepotenza delle multinazionali, si può salvare per un po’ una fabbrica magari a discapito di un’altra collocata in un’altra città o in un altro continente. Ma così non si fa molta strada.
A parità di prestazione parità di trattamento
Privati di ogni rappresentanza (e sponda) politica, i lavoratori rischiano di trovarsi soli di fronte all’arroganza del potere. Là dove non esiste neppure una rappresentanza sindacale, il passo è breve per arrivare alla cancellazione dell’insegnamento di Giuseppe Di Vittorio: mai più con il cappello in mano davanti al padrone. Allo svaporarsi della centralità del lavoro in sede politica e, ahimè, nell’immaginario collettivo, si accompagna la massiccia rivoluzione portata dal capitalismo nell’organizzazione del lavoro, nelle relazioni sociali, nella composizione della classe lavoratrice. La crescita esponenziale della logistica agevolata dalla pandemia, inoltre, sta scardinando il bagaglio dei diritti conquistati nel secolo breve, personalizzando il rapporto padrone-dipendente, e a occuparsi della mediazione non è certo il sindacato bensì il caporale. E non solo nella logistica ma anche nell’agricoltura, nell’edilizia, fino al cuore della produzione industriale dove le scelte politiche e dunque la legislazione hanno accompagnato e favorito la frammentazione del ciclo moltiplicando le diseguaglianze e scatenando il dumping sociale. Il vecchio adagio ‘a parità di prestazione parità di salario, orario, diritti’ è stato travolto dal sistema di appalti e subappalti e dalla possibilità concessa alle imprese di scegliere la forma contrattuale più conveniente grazie a un menù disponibile di decine di forme diverse. Spesso il sindacato è in grado di rappresentare e tutelare solo la parte alta del lavoro nella piramide in cui esso è stratificato. Ma fino a quando riuscirà a rappresentare, facciamo un esempio, i dipendenti diretti della Fincantieri? Cioè, fino a quando i lavoratori della Fincantieri riusciranno a difendere i propri diritti, sotto la grandine del dumping prodotto dal sistema degli appalti? Credo che non ci sia futuro, persino per un sindacato di classe come è ancora la Fiom, senza la capacità di andare a mettere mani e cuore nelle fasce più deboli del mondo lavoro, riconquistando proprio quell’idea che a parità di prestazione deve corrispondere parità di trattamento.
La solitudine del nuovo proletariato
La pandemia ha ulteriormente spinto verso un superamento dei corpi intermedi, detto in parole povere sta ulteriormente indebolendo il sindacato. Essendo mutato nel profondo l’impianto della produzione, della distribuzione e dei consumi anche il sistema legislativo andrebbe riscritto, e persino lo Statuto dei lavoratori – quel che ne resta dopo i colpi d’accetta degli ultimi anni – andrebbe aggiornato per includere e tutelare le nuove figure sociali, il nuovo proletariato. I sindacati confederali sono in grave ritardo nella conoscenza dei nuovi lavori; soltanto negli ultimi mesi la Cgil, che ha impiegato un paio d’anni per capire che quello dei rider è un lavoro a tutti gli effetti dipendente, ha messo a fuoco i ciclofattorini che solo grazie alla loro soggettività e le loro battaglie in bicicletta condotte in solitaria sono riusciti a imporsi all’attenzione di tutti. Nella logistica le prime lotte sono state portate avanti con il fragile appoggio dei sindacati di base e i confederali a fatica stanno cercando di mettere qualche radice tra i lavoratori. Quando un camionista travolse un facchino ai cancelli durante uno sciopero si scoprì che i camionisti sono (debolmente) rappresentati dalla Cgil e i facchini (debolmente) dai sindacati di base. Se si perde di vista il nemico vero si finisce in una guerra dei penultimi contro gli ultimi.
Il covid al lavoro
Tra le conseguenze più pesanti del covid sul lavoro c’è il suo uso ricattatorio da parte del sistema delle imprese: con la perdita di centinaia di migliaia di posti, tentano di imporre il peggioramento delle condizioni lavorative con annessa riduzione di salario, diritti, sicurezza e dunque dignità. Se vuoi lavorare, è la parola d’ordine, accetta le mie condizioni perché la ripresa in una competizione internazionale senza esclusione di colpi impone i suoi diktat e c’è la fila di persone disposte a prendere il tuo posto. Del milione e duecentomila posti cancellati nel primo anno di pandemia se ne sono recuperati cinquecentomila nel primo semestre del 2021, ma per la quasi totalità si tratta di lavori variamente precari, a termine e in somministrazione cioè in affitto. E parlano con altrettanta chiarezza i numeri dei morti sul lavoro che continuano a crescere paurosamente (più di mille nei primi 8 mesi dell’anno a cui si aggiungono quasi 200 tra medici e infermieri vittime del covid).
L’inadeguatezza del sindacato
Questo è il contesto, reso più aspro dalla debacle del sistema dei partiti che hanno commissariato a un banchiere un’Italia già cloroformizzata dal coronavirus. I sindacati sono usciti indeboliti dalla pandemia, dopo più di un anno di riunioni e assemblee da remoto: il distanziamento è un ostacolo al rapporto tra organizzazioni sindacali e lavoratori, cioè alla pratica dei valori fondanti dell’azione collettiva e della stessa democrazia. Sic stantibus rebus, non basta dire che il sindacato è fondamentale, che è uno dei pochi strumenti di autodifesa dei lavoratori. Bisogna chiedersi se il sindacato dato è all’altezza della sfida che ha di fronte. Detto che più che di sindacato bisogna parlare di sindacati, è difficile negare l’inadeguatezza delle organizzazioni dei lavoratori. Per tutte le ragioni oggettive sin qui enunciate o solo accennate (per prima la mancanza di una dimensione internazionale), ma anche per cause soggettive. Nel tempo i sindacati sono diventati una costola dello stato e, nei casi peggiori, dei governi. L’autonomia sindacale si è indebolita ed è cresciuta la burocratizzazione, quasi un’abitudine a vivere di rendita, trasformandosi da organizzazioni di lotta in strutture di servizio, caf e via dicendo. Era proprio obbligatorio tenere chiuse per un anno e mezzo le Camere del lavoro? Anche dentro la Cgil – taccio su Cisl e Uil, ma anche sul cosiddetto sindacato europeo, la Ces, per evitare querele – il corpaccione dei funzionari vede ogni cambiamento come un attentato allo status – e allo stipendio – acquisito. Anche così si spiegano le difficoltà incontrate da Maurizio Landini nel suo tentativo di rigenerazione o rifondazione che dir si voglia dell’organizzazione, riportandola in strada (il sindacato di strada è un buon esempio laddove viene sperimentato) e dentro i luoghi di lavoro. Ha sostanzialmente retto, invece, la struttura dei delegati, le Rsu che hanno, spesso in solitudine, tenuto vivo e costante il rapporto con i lavoratori.
La resistenza e il cambiamento
Che il sindacato serva lo dimostra l’esempio della Gkn: la Fiom ha lasciato liberi i suoi quadri di costituire un collettivo che insieme alle Rsu sta gestendo una difficile vertenza e ha intentato causa all’azienda per antisindacalità, vincendola. Certo, per vizi di forma, il modo (del licenziamento via mail) ancor m’offende. Ha consentito ai lavoratori di tirare una boccata d’ossigeno ma nella sostanza il problema resta immutato per l’acquiescenza della politica alle imprese e alla pratica delle multinazionali di chiudere stabilimenti per delocalizzare la produzione là dove di diritti ce ne sono ancora meno. Almeno, la Fiom si conferma un sindacato di resistenza, ne fa fede l’esperienza straordinaria degli operai napoletani della Whirlpool; non che non abbia un progetto sociale in testa, ma questo si impantana nelle stanze della politica e fatica ad avviare un percorso unitario con le altre categorie della sua stessa confederazione. Il nobile tentativo di costruire una coalizione con movimenti e forze sociali avviato qualche anno fa dall’unico sindacato che già a inizio secolo aveva scelto di stare con il movimento cosiddetto no-global, si è presto arenato, un po’ per la debolezza e la frammentazione degli interlocutori, un po’ per la diffidenza della Cgil e un po’ perché non basta mettere insieme le teste pensanti, i leader, per trascinare con sé tutto il resto. Le alleanze non possono che costruirsi dal basso. Come ai tempi della Flm e dei delegati di gruppo omogeneo, verrebbe da dire.
E forse proprio dal basso bisognerà ripartire per costruire un sindacato adeguato alle nuove sfide.
Loris Campetti è nato a Macerata nel 1948. Laureato in chimica, già nella seconda metà degli anni Settanta è passato al giornalismo. Al “manifesto” fino al 2012 ha ricoperto tutti i ruoli e si è occupato prevalentemente di lavoro e lotte operaie. Ha scritto molti libri di inchiesta e nel 2020 è stato pubblicato da Manni il suo primo romanzo, “L’arsenale di Svolte di Fiungo”.