di Redattore Sociale
Oltre 12 mila cooperative sociali, 774 imprese sociali in base alla legge 118 del 2005 e 574 altre imprese che riportano la dicitura ‘sociale’ nel loro nome. Oltre 540 mila addetti, più di 45 mila volontari, 5 milioni di beneficiari e un valore della produzione che supera i 10 miliardi di euro. È il quadro dell’impresa sociale in Italia che emerge dal Rapporto realizzato da Iris Network, giunto alla sua terza edizione (fonti Iris Network, Istat, Unioncamere) e appena pubblicato.
Un rapporto che, come afferma il presidente di Iris Network, Carlo Borzaga, nella prefazione, “vede la luce in un momento particolarmente delicato, per una pluralità di ragioni”. Ragioni che vanno ricondotte alla riduzione delle risorse pubbliche destinate alle politiche sociali, alla riforma della legge sull’impresa sociale contenuta nella proposta di riforma del terzo settore avviata dal governo e all’indagine “Mafia Capitale” che vede coinvolte anche alcune cooperative sociali. Il rapporto mette in evidenza che, se non ci si focailzza su un unico istituto giuridico (cooperative sociali, imprese sociali ex legge 118/05 che finora raccoglie appunto 774 realtà), ma si prende come riferimento la definizione di impresa sociale condivisa in Europa, “il fenomeno ha raggiunto in Italia dimensioni rilevanti da tutti i punti di vista: impatto economico e occupazionale, servizi erogati, utenti raggiunti”.
Inoltre, a parte il dato sul fatto che l’impresa sociale è a tutti gli effetti un fenomeno imprenditoriale con un elevato grado di dinamicità sia prima che dopo la crisi, ciò che emerge dall’indagine è che “il settore ha bisogno di una riforma”, come spiega Flaviano Zandonai di Iris Network. “In primo luogo perché le imprese sociali ex lege non rappresentano uno scatto in più rispetto alla cooperazione sociale e se l’intento del legislatore con la legge 118/2005 era quello di innovare rispetto alle cooperative sociali possiamo dire che non ce l’ha fatta – spiega Zandonai -. Inoltre, la cooperazione sociale è un settore che è cresciuto molto ma in cui si iniziano a intravedere gli effetti di una crisi sistemica legata soprattutto ai settori in cui tradizionalmente opera e che si manifestano in particolare nella debolezza delle nuove cooperative sociali ad affermarsi”. Da qui la necessità di un cambiamento di normativa e policy.
Oltre a definire lo “stato dell’arte” dell’impresa sociale in Italia, obiettivo del Rapporto di Iris Network è quello di “sfidare il legislatore”, individuando alcuni esempi di imprenditoria sociale potenziale ovvero di organizzazioni diverse dalle cooperative sociali e altre imprese sociali ex lege che presentano caratteristiche tali da poterle candidare ad assumere una veste simile e che potrebbero essere intercettate dalla riforma che si propone “di qualificare l’impresa sociale quale impresa privata a finalità di interesse generale avente come proprio obiettivo primario il raggiungimento di impatti sociali positivi misurabili”.
Il rapporto evidenzia come, oltre alle cooperative sociali, esista un significativo numero di organizzazioni non lucrative che sono “market oriented” ovvero ricavano la maggior parte delle loro risorse economiche da transazioni di mercato. Si tratta delle oltre 82 mila organizzazioni non profit individuate dal censimento Istat che, per gli autori del rapporto, sono “potenziale di impresa sociale”. E che con i loro 440 mila addetti porterebbero gli occupati complessivi del settore a oltre un milione. Anche se non si sa quante di queste organizzazioni siano definibili come imprese sociali ex lege, visto che la norma richiederebbe un’attività market nei settori indicati pari ad almeno il 70 per cento del giro di affari, “è comunque probabile che molte di queste abbiano raggiunto questa soglia e che altre siano sulla strada per raggiungerla – continua Zandonai – Il rapporto evidenzia quindi che esiste un bacino non profit che può fare impresa sociale, ma è un settore che va accompagnato. E questa potrebbe essere una sfida per il governo”.
A questi dati si aggiungono poi quelli relativi alle 61 mila imprese di capitali che operano in settori a vocazione sociale previsti dalla legge 118/2005 e che danno lavoro a 446 mila addetti. Si tratta di imprese attive in ambito sanitario (31 per cento), ricreativo (25 per cento) e culturale (14 per cento). “Ovviamente non è detto che tutte sarebbero interessate a diventare imprese sociali ma il dato ci dice che cosa accadrebbe se anche solo una piccola parte di queste lo diventasse”, conclude Zandonai. (lp)
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Questo articolo è stato pubblicato su Redattore Sociale il 12 gennaio 2015