Contro la subalternità etnica e di classe: je ne suis pas Charlie

13 Gennaio 2015 /

Condividi su

Je ne suis pas Charlie
Je ne suis pas Charlie
di Marina Nebbiolo e Fabio Mengali
Venti morti, un attentato, sei attacchi compresi quelli militari, tre giornate di guerra. I nemici? Terroristi pronti ad immolarsi insieme alle loro vittime. L’ “11 settembre della Francia”? Come titola Le Monde all’indomani della sanguinaria incursione nella sede del giornale Charlie Hebdo. Parigi come le Twin Towers e la spietata battaglia contro il feroce esercito islamico interno, alle frontiere del Paese e dell’Europa. No, in Francia non siamo in guerra, almeno non è quella guerra che vogliono farci combattere con le armi repubblicane dell'”unità nazionale” e del rivoltante umanesimo di facciata ignorato quando si tratta di immigrati, di oggi o di prima, seconda e terza generazione. Choc , certo per chi si era abituato ai Sarkozy e ai Valls, più realisticamente assistiamo ad un traumatico risveglio.
Il “nemico” in ogni caso oltre che di kala e di slogan raccapriccianti è armato anche di immaginario e parla in rete di futuro. Una visione non identificabile, o inesistente, nella vita dei giovani francesi, donne e uomini, che vivono nelle cités oppure nelle zone rurali, in uno dei Paesi occidentali più ricchi, dotati di ottimi servizi e di un eccellente sistema educativo. Per capire che non siamo in quella guerra lì ma in tutt’altro terreno minato bisognerebbe prima curare l’amnesia politica che colpisce i governi francesi dopo ogni febbre dagli anni Novanta, sintomo sociale ed economico che esplode nelle aree periferiche metropolitane ma anche nei quartieri popolari di sempre più numerose città francesi; poi ricordare la sindrome postcoloniale e la successione di leggi per difendere la laicité républicaine.
E infine osservare come si esercita il controllo sociale e la punizione istituzionalizzata sui poveri e impoveriti in alternativa all’ esercito di occupazione se il rapporto di forza si gioca in quei territori ormai disseminati ovunque e non solo nelle periferie urbane che si profilano come banlieues. E l’islam in tutto questo? L’islam è un veicolo, ci si salta sopra ad un certo momento, musulmani o convertiti, dai 15, 16 anni, poi si tenta il viaggio iniziatico nelle zone di guerra, Iraq, Afghanistan, Pakistan o Siria dove ci si arruola contro un regime sanguinario che ha ucciso duecentomila persone e ne ha costretti alla fuga altri milioni, tuttora impunito per le barbarie contro la popolazione.

Partono, un migliaio, per solidarietà, mobilitati dalla catastrofe umanitaria, tornano, indottrinati, da quella che poi diventa “guerra santa”. Anche la speranza collettiva delle rivoluzioni arabe ha giocato un ruolo nella disillusione drammatica della guerra in Siria. Guerra a cui i politici pronti a difendere la nostra libertà hanno assistito senza sostenere l’opposizione civile siriana. Non sono le teste decapitate, le esecuzioni di ostaggi o le città martirizzate che attirano giovani europei decisi a rischiare la vita, o a voler morire, non c’è una popolazione musulmana che si radicalizza (la maggior parte di chi parte oggi è convertita) e le comunità musulmane sono le prime a soffrirne e a pagare le conseguenze della deriva verso il settarismo religioso “spettacolare”.
La sfida politica esiste da tempo, molto prima di quest’ultimo ignobile attentato, l’ossessione populista contro gli immigrati, il laicismo integralista che si reclama di sinistra, il cristianesimo-identitario e le farneticanti fobie conservatrici sulla famiglia delle destre civilizzatrici passano tutti nell’imbuto dell’islam e della presenza musulmana. Il Front National non è solo. Il buon musulmano in Francia è il musulmano “sottomesso”, possibilmente femminista e gay-friendly. O deve almeno dichiararsi apertamente Not in my name, l’islam dei terroristi non è “il mio”. Nelle cités, i giovani che si radicalizzano sedotti dall’immaginario politico islamico hanno rotto i legami con la religione e la cultura musulmana della loro famiglia. E non frequentano neanche più la moschea del quartiere.
Il loro islam si oppone all’Occidente perché vivono in Occidente. Proporzionalmente alla presenza musulmana i Paesi europei forniscono più seguaci a Daech che i Paesi nordafricani. Dalla “crisi” del 2005 e del 2007 nelle banlieues, la République è un concetto ancora più lontano mentre l’islam quotidiano, familiare, banalizzato è un riferimento collettivo, individuale moralmente, un legame sociale al posto dello Stato che da sempre moltiplica promesse senza mantenerle. Disoccupazione al 40% e reddito al di sotto della soglia di povertà 4 volte più importante della media territoriale (50% sono giovani), isolamento culturale, addirittura epidemie di tubercolosi.
L’abbandono scolastico è sintomo di una società fragile. “Liberté, égalité, fraternité” in classe, fuori c’è il vuoto, allora il risentimento contro la scuola che tradisce le speranze diventa fortissimo, la prima persona detestata è la conseillère d’orientation, quella che decide quasi sempre che si finisce in un liceo professionale, Al secondo posto, i poliziotti. Centinaia di milioni di euro investiti per demolire immensi caseggiati popolari costruiti per alloggiare ondate successive di immigrati (manodopera chiamata a costruire la Francia degli anni 50) e ricostruire i quartieri del “rinnovo urbano”. Cantieri ovunque e commissariati moderni, “di prossimità”, per rendere i quartieri sicuri.
Solo che il cemento nuovo non basta se i servizi e le strutture sociali restano cronicamente insufficienti. La politica securitaria ha infine sancito una frattura definitiva tra la popolazione e le istituzioni, forze dell’ordine, giustizia, prigione, servizi sociali e servizi sanitari psichiatrici. Tre decenni di abbandono e di discriminazione, in cui lo Stato è presente con la forza, la violenza della repressione e la provocazione quotidiana di sistematici controlli d’identità, l’apparenza fisica, l’età e l’indirizzo diventano sospetti. Atti illegali e inutili, compiuti per umiliare, insultare, minacciare, aggredire impunemente, arrestare e punire.
L’accanimento contro una parte della popolazione delle cités è norma, serve a imporre un ordine sociale che nega l’égalité. I primi a rinunciare ai valori della République non sono i cittadini ma chi dovrebbe rappresentarli attraverso le istituzioni. L’ostilità e le violenze della BAC, Brigade Anti-Criminalité, contro gli abitanti e i giovani delle banlieues, narrata dai media con la retorica della guerra, vengono costantemente negate o banalizzate nelle aule dei tribunali che assolvono l’intero apparato di Stato. I responsabili restano impuniti, possono continuare ad uccidere.
Nel 2013 a Trappes, il controllo d’identità di una donna che indossava il velo degenera in sommossa permanente per quattro giorni e si trasforma in arma da guerra per la difesa della “neutralità religiosa dello Stato e dei suoi agenti”. Dal 2004 la Legge vieta di ostentare segni religiosi nelle scuole, nel 2011 l’attuale ministro degli interni Valls pone il divieto di dissimulare il viso anche negli spazi pubblici e nel 2012 Marine Le Pen esige di vietare il velo religioso e la kippa in strada. Sempre nel 2013 la Corte di Cassazione annulla il licenziamento di un’impiegata che porta il velo in un nido privato, il giorno dopo l’UMP, partito di Sarkozy, deposita una proposta di legge per il divieto di segni religiosi nelle imprese pubbliche e private.
Questa serie di leggi non hanno fatto altro che creare tensioni con conseguenze devastanti in particolare per le ragazze che frequentano la scuola pubblica fino al liceo e per le loro madri, sorelle, o altre donne velate della famiglia che non possono partecipare alla vita scolastica. La rottura del legame umano e della relazione sociale è l’elemento principale, lo scopo del discorso radicale che vuole separare i giovani dal resto del mondo e da tutto quello che costruisce la socializzazione (compagni di classe, professori, genitori, amici, cinema, teatro, musica, storia, letteratura….). Significa proporre l’esclusione, oltre alla discriminazione.
Senza soffermarsi qui sulla legge che vieta i segni religiosi e designa come colpevoli le donne ma ignora i segni religiosi maschili, barbe e calzini, viene da chiedersi come sia possibile pensarne l’efficacia, cioè pretendere di lottare contro la trasgressione religiosa. La legislazione aggressiva per affermare il principio repubblicano della laicità a cui segue l’introduzione della Charte de la Laïcité, che insegna la “morale laica” dalla scuola materna al liceo prevista nel 2015, hanno reso più intollerante la République.
Ci si trova davanti ad uno stravolgimento completo del principio di laicità, un uso ideologico e offensivo attraverso una serie interminabile di divieti: legge anti-velo, anti-niquab, dibattito sull’identità nazionale, attacco contro le preghiere in strada, dei minareti e dei menù hallal nelle mense, sui metodi di macellazione e sull’incremento demografico dei musulmani, dibattito sull’islam ribattezzato dibattito sulla laicità, richiamo a generalizzare i divieti che riguardano il velo nei servizi, trasporti pubblici compresi. Una messa al bando, le donne pestiferate e invitate a “restare nelle loro cucine” ! L’editoriale del New York Times (27/1/2010) riguardo la legislazione francese sui velo, titolava: The Taliban Would Applaud.
SENZA DIRITTI NON C’È LIBERTÀ DI ESPRESSIONE
Laicità, illuminismo, tolleranza. Tre parole storicamente immerse nel senso comune francese che hanno fatto in modo che lo spazio pubblico diventasse una nuova religione. L’evacuazione dei simboli e delle pratiche religiose da questa sfera, con la pretesa della purezza della modernità, ha avuto da un lato un bersaglio etnico e culturale ben preciso, dall’altro ha generato un nuovo culto: il pubblico. Con l’esaltazione dell’universalità, oltre ogni appartenenza religiosa, del pubblico la Francia ha reso le confessioni un elemento privato da normare e come tale l’ha trattato.
Senza tuttavia che ci fosse un pensiero sulle conseguenze che reca con sé la sepoltura delle differenze, il fatto che il privato in sé non esiste perché quello che lo determina sono le relazioni sociali, le cui modalità sono influenzate anche da una matrice religiosa. Oltreché il relegare l’essere musulmano o cristiano all’individuo ha permesso di omettere la questione della comunità, dei rapporti virtuosi, della contaminazione. È stato ancor più facile dire che il problema sono le scelte personali dei costumi e delle consuetudini, piuttosto che le condizioni materiali e di possibilità per una certa forma di vita di esprimersi.
Avere in mente un quadro del genere può far capire perché l’attentato è stato possibile in Francia. Non è un semplice rigurgito delle ex politiche coloniali in Nord-Africa o del protagonismo militare occidentale in Medio Oriente: è piuttosto la compresenza di questo dato con le imposizioni e le discriminazioni di matrice etnica nel territorio. Qualche mese fa, scrivevamo a proposito delle mobilitazioni parigine contro l’ultimo intervento bellico di Israele su Gaza.
La grande presenza in piazza, la partecipazione di decine di migliaia di giovani banlieuesards soprattutto di origine araba è stata un grido di riscatto verso quei rapporti “franco-francesi” da sempre stabiliti all’interno della cittadinanza, intesa in senso lato. Un’inclusione differenziale o esplicita esclusione di milioni di persone ha detonato, nella contrapposizione all’ennesima guerra ingiusta, la “presa” del XVIII arrondissement. Un quartiere in cui tra le legittime e includenti rivendicazioni di molti si trovavano anche gruppuscoli e spezzoni islamisti, espressamente antisemiti e di carattere religioso-assolutista. Già da quei momenti si poteva capire l’assunzione dello stile di vita dei fondamentalismi avesse terreno fertile laddove è stata legittimata una marginalizzazione.
Chi ha paura degli arabi? Una domanda la cui risposta risuona, oggi più che mai, nelle popolazione francese – e non solo – ad un livello più cosciente. Le contraddizioni all’interno della composizione precaria e povera hanno agito perlopiù sul piano simbolico (non per questo irreale) dal punto di vista delle campagne di odio e della distribuzione della popolazione nello spazio urbano. Ma da un anno a questa parte, con appunto la fase di movimento estiva, queste fratture emergono, sono sfrontate e cieche. Quante volte abbiamo scritto di reciproci assalti a negozi, luoghi, centri di aggregazione ebraici e musulmani da parte della “fazione fondamentalista” opposta? E quante volte si è scatenato il timore, la fantasmagoria dell’incubo degli arabi dopo ciascuno di questi attacchi?
È inutile accettare di buon grado le pur giuste prese di distanze dagli attentati da parte delle comunità musulmane francesi, come se dovessero pronunciarsi in quanto in un modo o nell’altro sono implicate nella questione. Hollande e il suo governo hanno dichiarato che il problema non sono ovviamente i musulmani in generale. Eppure, le loro politiche sociali e civili li hanno resi un’appendice della cittadinanza, dissimulando la discriminazione. Poco conta che la partecipazione al corteo dell’11 gennaio del Front National sia giudicata un affronto, come scrive Libération, anche perché da sempre un obiettivo delle caricature di Charlie Hebdo. La verità è che da più di vent’anni la formalità dei diritti e dei fondamenti della République ha nascosto la segmentazione gerarchica e l’impossibilità dell’accesso reale alla previdenza sociale verso due soggetti, spesso sovrapposti tra loro: i poveri e gli immigrati.
Come è stato da più parti sottolineato, la rivista Charlie Hebdo ha spesso e volentieri rappresentato questo tipo di Francia nei tratti dei suoi disegni irriverenti, con qualsivoglia assenza di critica all’esistente. Condannare l’atto violento e terrorista è doveroso oltreché giusto. Ma, andando oltre, è ancora più puntuale vedere perché l’evento è stato possibile e agire per fare in modo che non si produca più. Molti militanti di sinistra francesi e musulmani hanno detto, in maniera straordinariamente efficace e semplice, che l’unica vera lotta al terrorismo è quella per la giustizia e l’uguaglianza sociale di tutti i suoi abitanti. Non possiamo che accodarci a loro per esprimere liberamente un dissenso nei confronti di un periodo che è e sarà sicuramente buio e ostile, immaginandoci un’alternativa più giusta per questa realtà.
Questo articolo è stato pubblicato su GlobalProject.info il 10 gennaio 2015

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati