Tunisia, è giunto il momento della seconda rivoluzione?

27 Gennaio 2016 /

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Tunisia e la sua primavera araba
Tunisia e la sua primavera araba
di Giuliana Sgrena
A cinque anni dalla rivoluzione che aveva contagiato molti paesi arabi, la Tunisia torna a infiammarsi. Le immagini che arrivano da Sfax, dove un giovane commerciante mercoledì si è dato fuoco dopo che la sua merce era stata confiscata dalle autorità, ci ripropone l’immolazione di Bouazizi, avvenuta a Sidi Bouzid il 17 dicembre 2010.
La protesta è partita questa volta da Kasserine, nel centro della Tunisia poco lontano da Sidi Bouzid, dopo che un ragazzo di 24 anni, Ridha Yahyaoui, che minacciava di suicidarsi perché il suo nome era stato cancellato da una lista di assunzioni, salendo su un palo della luce era rimasto folgorato. Una protesta per l’ennesimo sopruso si trasforma in un’ondata di rivolte che si sta estendendo a tutto il paese: Gafsa, Jendouba, Touzeur, Gabes, Medenine, fino a Tunisi.
Ovunque la polizia reprime, ma anche un poliziotto è rimasto ucciso negli scontri dei giorni scorsi. Tornano con forza le parole d’ordine di cinque anni fa: lavoro, libertà, dignità. Perché sebbene la transizione sia ancora in corso è troppo lenta e non sembra andare nella giusta direzione. Dopo cinque anni la delusione è molto forte, soprattutto nei giovani. «È tempo di agire. O niente potrà impedire lo scoppio di una seconda rivoluzione», ha detto il presidente Beji Caid Essebsi, il 17 dicembre, quinto anniversario dell’inizio della rivoluzione.

Sta per scoppiare una seconda rivoluzione? Le manifestazioni a Tunisi sono tornate a occupare gli spazi di quelle del 2011, soprattutto la centrale avenue Bourghiba, davanti al ministero dell’interno, simbolo della repressione ai tempi di Ben Ali. Ora la situazione è diversa e le rivendicazioni esprimono il grande disagio sociale. La richiesta principale riguarda il lavoro – sono 800.000 i disoccupati, il 36% diplomati e laureati – e «noi ci rifiutiamo di emigrare o di finire nella rete dei terroristi o del contrabbando», sostiene un esponente dell’Unione dei diplomati disoccupati (Ucd), citato dal quotidiano tunisino La Presse.
Precisazione non superflua essendo i tunisini – 5.500, secondo l’Onu – il contingente più numeroso di combattenti stranieri in Siria. La manifestazione di mercoledì a Tunisi è stata organizzata dall’Ucd e dall’Unione generale degli studenti (Uget, di sinistra), che prende di mira il governo. «Il primo ministro Habib Essib ha due scelte possibili. O trova una soluzione urgente ed efficace al problema della disoccupazione o se ne va».
Finora le manifestazioni non sono state indette da partiti e i partecipanti preferiscono mantenerli alla larga, anche se si temono infiltrazioni di militanti islamisti.
Le rivendicazioni chiamano in causa direttamente il governo. Anche se il primo ministro Essib si trova a Davos, mercoledì sera i ministri si sono incontrati con i rappresentati di Kasserine per varare alcune misure urgenti che sono state annunciate ieri dal portavoce Khaled Chouket. «Per quanto riguarda la disoccupazione: abbiamo deciso l’impiego di 5 mila disoccupati attraverso nuovi meccanismi di assunzione. Altri 1.400 saranno assunti attraverso i meccanismi esistenti e 500 con piccoli progetti finanziati dalla Banca nazionale di solidarietà con 6 milioni di dinari (circa 3 milioni di euro)».
Chouket ha anche annunciato la formazione di un comitato nazionale che investigherà su casi di corruzione prendendo le misure necessarie per combatterla. Saranno privatizzate terre del demanio. Il portavoce del governo ha riconosciuto che molti progetti d’infrastrutture sono bloccati e ha annunciato altri nove progetti per la ricostruzione di ponti, strade etc. Saranno stanziati anche 135 milioni di dinari per la costruzione di case popolari nella regione di Kasserine.
Evidentemente le proteste hanno scosso il governo. Se queste promesse saranno mantenute e funzioneranno saranno un inizio, tuttavia non è solo Kasserine a soffrire del mancato sviluppo e della crisi. L’economia ristagna, la crescita nel 2015 è dello 0,5%. Il presidente aveva proposto una «riconciliazione economica» che avrebbe sospeso tutti i procedimenti contro esponenti del regime di Ben Ali per malversazioni, per favorire gli investimenti.
Ma per molti tunisini questa legge, non ancora votata, è una sorta di riciclaggio della corruzione, senza contare che le reti dell’ex partito unico Rcd non sono state smantellate e si sono ricostruite dentro il partito Nidaa Tounes, che ha vinto le elezioni (politiche e presidenziali) del 2014. Anche gli islamisti che occupavano posti nelle istituzioni sono rimasti al loro posto.
Nidaa Tounes attraversa una grave crisi, che il presidente Essebsi ha aggravato nel recente congresso del partito, che aveva fondato nel 2012, nominando nuovo leader suo figlio Hafed. I metodi autoritari evidentemente non sono cambiati. Nidaa Tounes, partito laico di centro, aveva vinto le elezioni proprio perché rappresentava un argine contro gli islamisti di Ennahda e invece ora governano insieme.
Non solo. Nidaa Tounes aveva ottenuto 86 seggi contro i 69 degli islamisti, ma dopo l’uscita dal partito di una ventina di deputati dissidenti – che ritengono l’accordo con gli islamisti un tradimento degli elettori – Ennahdha torna ad essere primo partito. Tuttavia mantenendo un basso profilo, cercando di accreditare un’immagine più moderata, mettendo la religione in secondo piano. L’impressione è che stia dissanguando Nidaa Tounes e preparando una vendetta, ma come si dice «la vendetta è un piatto che si serve freddo».
Questo articolo è stato pubblicato su Inchiesta online il 22 gennaio 2016 riprendendolo dal quotidiano Il manifesto dello stesso giorno

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