di Noi Restiamo
(Prima, seconda e terza parte). DOMANDA: Dal vostro punto di vista, dove vedete in questo momento sia in Italia che in generale nel resto del mondo movimenti e/o contraddizioni più interessanti, con un potenziale di rottura? Pensiamo ad esempio al ruolo della logistica in Italia.
GV: La domanda: “dove li vedo?” dovrebbe essere accompagnata da: “dove vorrei vederli?”. In questo momento li vedo (poco), frantumati e sparpagliati per il discorso che facevo precedentemente di una debole rappresentazione politica e sindacale della classe lavoratrice . Li vorrei vedere in tutti i luoghi di produzione e di lavoro che sta sopportando l’attacco a salari, diritti e condizioni di lavoro. Ma li vorrei anche vedere nella sfera della riproduzione sociale che subisce la distruzione del welfare. Vorrei essere molto chiara a proposito. Quando si parla di attacco al welfare, in genere da parte di economisti maschi, si parla sempre di attacco ai diritti (diritto alla salute, all’istruzione, etc.). Si esplicita molto meno il fatto che il welfare, e quindi le politiche fiscali, non rappresentano solo dei diritti per i lavoratori e le lavoratrici, ma anche un’infrastruttura sociale necessaria per permettere a quelle persone che svolgono il lavoro domestico e il lavoro di cura di poter conciliare questi lavori con il lavoro pagato. Siccome in Italia più che in altri paesi tutto questo lavoro è ancora sulle spalle delle donne, il welfare deve esser considerato anche come l’infrastruttura necessaria, anche se non sufficiente, per permettere alle donne di entrare nel mondo del lavoro.
C’è una contraddizione nel fatto che, nel capitalismo, la strada dell’emancipazione femminile passa necessariamente attraverso l’indipendenza economica. È una condizione necessaria ma non sufficiente: necessaria affinché la donna possa riappropriarsi del proprio corpo, della propria vita, della propria mente. La contraddizione sta nel fatto che l’emancipazione delle lavoratrici passa attraverso la valorizzazione del capitale. Me lo sono, purtroppo, sentita dire da maschi. È strano, però, che questa contraddizione non viene mai evidenziata quando si parla di lavoratori.
Comunque, poiché resto convinta che la liberazione delle lavoratrici passi attraverso il lavoro pagato e salariato, per entrare nel mercato del lavoro la lavoratrice ha la necessità di un welfare che funzioni (magari anche insieme alla distruzione di questo modello patriarcale tutto italiano che ritiene che il lavoro domestico e di cura spetti “naturalmente” alle donne). Il welfare non può essere sempre e solo visto come una questione di diritti ma anche come l’infrastruttura sociale necessaria per le donne. Le contraddizioni stanno quindi all’interno di questo concetto di necessità. Quello di cui ho parlato precedentemente – il neo-liberismo, il tipo di integrazione europea, l’apertura di settori del welfare alla valorizzazione capitalistica, etc. – ha fatto sì che i servizi sociali pubblici siano sempre più privatizzati e mercificati. Qui c’è una contraddizione pesante. Così pesante che, in situazioni devastanti e disastrose come quella greca, le donne stanno ricominciando a morire di parto, perché non esiste più la sanità pubblica; stanno smettendo la prevenzione e le cure.
Anche qui vorrei vedere le contraddizioni. E le vorrei vedere non solo nella politica istituzionale, che è tutta concentrata sulla questione delle quote rosa. Non solo nei sindacati, che quando parlano di lavoro dimenticano costantemente la questione di genere, e mi riferisco a sindacati conflittuali, tipo la FIOM (come se il lavoratore e la lavoratrice alla catena di montaggio si trovino nelle stesse condizioni lavorative). E le vorrei vedere anche nei movimenti, dove sembra, invece, che il femminismo sia morto. Quindi, le lotte contro il capitalismo si dovrebbero sempre accompagnare alle lotte contro il patriarcato.
Altre contraddizioni le vorrei vedere in tutti i luoghi di lavoro, non solo nel manifatturiero dove prevale il lavoro manuale (chissà perché appena si parla di movimento operaio si pensa a Cipputi di Altan). La carenza di analisi, sia a livello teorico che a livello politico-sindacale del mondo dei servizi, impedisce, o rende più complicato, capire il cambiamento che è avvenuto nel processo di lavoro nel settore dei servizi . L’unica tradizione italiana che si sforza di analizzare queste novità è quella post-operaista, di derivazione negriana. Ora, io non ne condivido le analisi, però le va riconosciuto il fatto che quegli studiosi si sono preoccupati di analizzare cosa sta succedendo nei luoghi di lavoro di questo nuovo modello capitalistico.
Purtroppo, spesso, nel dibattito odierno, quando si parla di conflitto di classe, si ha in mente la produzione manifatturiera e industriale, e si parla meno del settore dei servizi. Oppure si propongono analisi, che ritengo alquanto fantasiose, secondo le quali i servizi e la terziarizzazione creano solo lavori cognitivi. Invece, come ho detto prima, i servizi contengono una grande quantità di lavori poco qualificati (penso ai lavoratori nelle catene di fast food o alle addette alle pulizie del mio Ateneo). In assenza di analisi serie sui cambiamenti nel processo di lavoro si rischia di non cogliere dove possano stare le contraddizioni. Anche da qui nascono le difficoltà a creare movimenti e lotta di classe che unifichino una classe lavoratrice oggi assolutamente frammentata e spezzettata. Cercare di mettere in campo delle contraddizioni nei servizi potrebbe, forse, essere più facile perché parte dei servizi non è sottoposta al ricatto della delocalizzazione. La logistica, le grandi catene di distribuzione commerciale (penso ad Auchan, Esselunga, etc.) possono essere dei luoghi privilegiati per far scoppiare le contraddizioni.
RB: Sono molto d’accordo con quello che ha detto Giovanna Vertova. Confesso di avere difficoltà a rispondere a questa domanda, e cercherò di chiarire il perché. Addirittura, quando me l’avete mandata, vi ho chiesto se fosse incompleta, una considerazione su cui credo che Giovanna fosse d’accordo. A questa domanda si può rispondere in molti modi: ed è questa pluralità che da un lato mi crea dei problemi, ma dall’altro mi intriga.
Si può rispondere, per esempio, ponendosi sul terreno del capitalismo globale e domandandosi quali siano le aree dove maturano le contraddizioni più significative, quelle in grado di mettere in crisi il capitalismo. Questo è stato il punto di vista di Joseph Halevi, che ha concentrato tutto il suo discorso, in maniera da me molto condivisa, sulle contraddizioni della Cina nel contesto del capitalismo asiatico. Se ci spostiamo da un’ottica del qui ed ora ad un’ottica dinamica, sarei tentato di dire che l’America Latina, che fino a poco tempo fa è stata dal punto di vista della riflessione il luogo più interessante, potrebbe tornare ad essere anche dal punto di vista delle dinamiche economiche un’area “esplosiva”.
Si sono in qualche modo attenuate le contraddizioni sull’America Latina perché, in forza della dinamica stessa della crisi, i tassi di interessi sono stati bassi, ed in forza di altre dinamiche i prezzi delle materie prime sono cresciuti. Ora, lo sviluppo dell’America Latina, che per qualche anno qualcuno ha sognato potesse divenire l’area di sbocco dell’attuale capitalismo, è molto legato all’andamento dei tassi di interesse (che io non mi aspetto rimangano permanentemente bassi) ed è molto sensibile alle variazioni dei prezzi delle materie prime. Poi bisogna considerare la stessa Europa, che non credo apparisse sulla mappa concettuale e politica degli Stati Uniti fino a poco tempo fa. Una degradazione della situazione europea può avere degli effetti significativi, quindi potremmo esplorare anche questa strada.
Da un lato, c’è l’approccio metodologico che ci ha proposto Giovanna Vertova, nella seconda parte del suo intervento: quello di guardare ai caratteri del nuovo capitalismo. Come ho detto, sono molto d’accordo con lei. Non sono interessato alla contrapposizione tra chi dice che il capitalismo post-1980 è lo stesso capitalismo di sempre e chi dice all’opposto che sarebbe una nuova creatura del tutto diversa che, chissà, forse non sarebbe neanche più capitalismo. Mi riferisco a tutte le discussioni che vanno avanti da tempo sul cosiddetto ‘capitalismo della conoscenza’, un capitalismo che talora viene definito ‘immateriale’, e così via. In realtà il problema non è accettare l’idea che vi siano delle novità importanti nel capitalismo, è semmai capire quali sono, e dove stanno, le autentiche novità. Sul terreno del lavoro le novità ci sono e sono significative – ora non ho il tempo di ripercorrerle nei dettagli.
Aggiungerò solo, anzi ripeterò in altro modo rispetto a Giovanna, questo: il capitalismo c.d. immateriale e il capitalismo c.d. cognitivo sono capitalismi in cui senz’altro pesa sempre di più la produzione di beni e servizi non ‘attaccati’ ad una merce ‘fisica’ e che nascondono un più elevato contenuto linguistico e cognitivo. Questo capitalismo immateriale è però, checché se ne dica, estremamente ‘materiale’. Sia per le condizioni che vivono i lavoratori dentro di esso, sia perché sovente a valle si traduce nella produzione di valori d’uso materiali che vanno distribuiti. E qui interviene la questione della logistica, ma più in generale la centralità delle condizioni della riproduzione della forza lavoro intellettuale. La questione della scuola e quella dell’università sono potenzialmente esplosive. Vorrei far notare un’altra cosa. Se pensiamo al luogo della produzione materiale, per prima cosa ci viene in mente la Cina. Non è sicuramente il nostro primo pensiero se parliamo di capitalismo cognitivo. Invece, se non la prima certo la seconda potenza manifatturiera mondiale è la Germania; e la Cina sta diventando, insieme all’India, luogo primario del lavoro cognitivo e ‘immateriale’.
Terzo punto. Quella attuale può essere definita, da molti punti di vista, una crisi della riproduzione. Innanzi tutto investe la riproduzione economica, e all’interno di essa il rapporto capitale-lavoro. Ma investe la dimensione di genere, e più in genere la riproduzione sociale. Non ripeterò su questo quanto vi ha detto Giovanna Vertova. Nella riproduzione capitalistica il capitale deve incorporare un altro da sé ‘interno’, ovvero la forza lavoro vivente, e ha bisogno anche di un altro da sé ‘esterno’, ovvero la natura. La dinamica capitalistica lasciata a se stessa distrugge gli esseri umani e la natura. Sono distante dalle visioni catastrofiste secondo le quali questi processi definiscono un tetto alla crescita capitalistica che si traduce, un po’ meccanicamente nel crollo del sistema. È certo comunque che qui è un altro nodo di contraddizioni sempre più gravi, potenzialmente esplosive.
Ancora un’altra contraddizione: il capitalismo si fonda oggi su catene transnazionali della produzione e sulla conseguente centralità degli investimenti diretti all’estero. Si tratta di investimenti a cui corrispondono flussi di lavoro migrante in direzione opposta: se è vero che è il capitale stesso che va a cercare lavoro nelle aree di nuova industrializzazione, la sua penetrazione in quelle aree fa in modo a sua volta che il lavoro migri nelle aree di precedente industrializzazione. Il lavoro migrante è uno dei nodi forse meno trattati nell’analisi della crisi odierna, ma è secondo me uno dei punti più significativi di una analisi della composizione di classe. Alzare le barriere all’immigrazione spesso e volentieri si traduce, paradossalmente, nel creare le condizioni di un maggior flusso di migrazioni legate al basso costo del lavoro. La questione del lavoro migrante penetra all’interno della questione di genere, come anche all’interno della questione del welfare. È forte l’intreccio tra tutte queste questioni.
Cos’è che ai miei occhi rende difficile trattare questo insieme di temi? C’è una mitologia (e non intendo questo in senso puramente negativo) di una certa sinistra, della mia sinistra – comunista, marxiana – dei punti fermi, che non vanno del tutto rigettati integralmente, ma che penso vadano fortemente qualificati.
In primo luogo, il mito che le contraddizioni vadano trovate nel ‘punto alto’ dello sviluppo capitalistico. A questa tesi ci credo ancora, si tratta di intendersi su cosa debba intendersi per punto alto in un contesto molto interconnesso. Il punto alto potrebbe essere dove meno te lo aspetti, perché ormai non hai più un Nord, da una parte, e un Sud, dall’altra, quasi impermeabilmente separati. Il Nord è nel Sud, e viceversa. La grandezza di Lenin, nel 1917, fu di essere stato in grado di individuare nel capitalismo di allora una centralità di certe condizioni supposte ‘arretrate’ della Russia. Certamente fece la rivoluzione in Russia, ma non la pensò come separata da un’estensione in Occidente. Il socialismo in un solo paese non era la prospettiva di Lenin, fu la prospettiva di Stalin. L’altra idea – più tipica, forse, di una sinistra successiva; ma di cui io sono figlio, la sinistra dei ‘nuovi movimenti’ all’interno delle lotte nel lavoro nel corso degli anni ’60 – è quella secondo cui la trasformazione sociale non può che nascere da una interruzione del ciclo di valorizzazione. Secondo questo modo di vedere le cose, si deve essere in grado di individuare il punto del ciclo della valorizzazione che è più fragile, più debole. Secondo questa narrazione, c’era una volta l’ ‘operaio di mestiere’, c’è stato poi l’ ‘operaio massa’, e questo era il lavoratore significativo, ci sarà poi il ‘lavoratore cognitario’, per Sergio Bologna è il ‘lavoratore di seconda generazione’, magari qualcuno può pensare che siano le donne in quanto tali. Capisco l’importanza di questa riflessione, ma credo che il cambio di sistema nasca da una crisi, e da una crisi gestita attivamente dai soggetti sociali, ma che contino altrettanto le contraddizioni oggettive.
Non vorrei scandalizzare nessuno dicendo che secondo me il ‘post-moderno’ ha una sua verità. L’idea che non sia più valida una narrazione ‘centrata’, che non si dia più un soggetto scolpito nella materia o nel conflitto sociale primario, per come è presentata dal post-moderno è sicuramente inaccettabile. È innegabile però che registra una caratteristica tipica del nuovo capitalismo: quella, per così dire, di ‘sventagliare’ le figure del lavoro, le condizioni in cui vivono gli esseri umani, la riproduzione.
Cosa voglio dire? Credo che, all’epoca, fosse sensato concentrarsi sull’importanza del lavoratore di mestiere, e poi sulla centralità, non sulla esclusività, dell’operaio massa. Credo pure che il neoliberismo sia davvero una configurazione sociale che sul terreno del lavoro ha bisogno di nuove ‘qualità’ del lavoro, diverse, in alcuni momenti del ciclo produttivo. Semplicemente, questo lavoro più qualificato, più ‘autonomo’, e così via, doveva in qualche misura essere controllato, ed era un lavoratore di un certo tipo, più collettivo, in certe realtà realmente più cognitivo e di un lavoro non più irrigidito in una mansione. Questo ci impone una integrazione del conflitto tra le forme diverse, e ormai plurali, del lavoro, che non lo inchiodino a sue figure storicamente contingenti, e che però abbia la capacità di cogliere la novità di questa fase. Quindi, come dire, vedo l’esistenza di un limite, che a un certo punto è diventato grave, nel voler ricercare un luogo specifico, e uno solo, della contraddizione. È un leninismo, qui in senso negativo, che si trova ovunque, persino in Negri, come una sorta di tic.
Tutto ciò ha a che vedere con un punto che sollevai in uno scritto del 1987, pubblicato l’anno seguente sui Quaderni del CRIC, che si intitolava “Il rosso, il rosa e il verde”. Il sottotitolo recitava: “Considerazioni inattuali sulla centralità operaia e i nuovi movimenti”. Avrei dovuto scrivere ‘sulla centralità del lavoro’, ma allora storicamente ancora un po’ funzionava la centralità operaia. Lì la questione che affrontavo era la critica verde, la critica femminista alla vecchia e nuova sinistra. Il vecchio marxismo, quello dell’epoca della Seconda e della Terza internazionale, ritenevano, con pochissime eccezioni, che la coscienza di classe venisse ai lavoratori dall’esterno, da una politica separata. Parte significativa del nuovo marxismo degli anni ’60 e ’70 vedeva l’operaio massa come il soggetto trainante che doveva essere ‘seguito’, quasi nella sequenza dei vagoni di un treno, dalle donne, dai meridionali, dai giovani, e così via, in un ordine che magari non era questo, ma questa era la logica. In quell’articolo sostenni che esiste una centralità reale del momento del lavoro nella valorizzazione capitalistica, e perciò non è pensabile una crisi del capitalismo e quindi anche una crisi sociale che non passi attraverso quella dimensione.
Affermare la centralità della produzione non è un mito, non è produttivismo o industrialismo. Perché i lavoratori combattono dentro la sfera della produzione una situazione che tende a rendere i valori e le esigenze della produzione un primato totalitario, il lavoro una dimensione assillante. Al contrario, affermare un lavoro autentico, il lavoro come ‘primo bisogno’ secondo la formulazione di Marx, la possibilità di una produzione su scala umana, comporta rompere con il produttivismo e con l’industrialismo. Su questo si concentravano le lotte concrete dei lavoratori: da Mirafiori a Mestre. Questa che rivendicavo, e cioè una centralità sociale del momento antagonista del lavoro dentro la valorizzazione – di questo lavoro che stava diventando sventagliato, articolato, non riducibile a una figura sola – questa centralità sociale non può e non deve essere tradotta in una rigida formula come quelle del passato. Lì io ci vedevo un errore del marxismo, ma in fondo dello stesso Marx, e del Marx migliore. Il movimento alternativo si deve contemporaneamente giocare – e lì citavo un grande pezzo di Marco Revelli su un numero precedente dei Quaderni del CRIC – come ‘pari dignità’ delle differenze.
Il movimento femminista mi appariva molto interessante, nella misura in cui sottolineava la centralità del lavoro non solo pagato ma anche non pagato, della riproduzione sociale della forza lavoro. Mi pareva però interessante anche quando, al di là del lavoro domestico, insisteva sulla dimensione del lavoro di cura: due aspetti non rigidamente separabili. Una femminista statunitense, morta da pochi anni, Joan Tronto, non identifica la cura con il lavoro, ma mostra pure come dentro la dimensione della cura ci sia un lavoro, pagato e non pagato. Ciò a cui si deve resistere è far diventare le cristallizzazioni storiche un fatto di natura, così come si deve evitare di ridurre la differenza di genere alla differenza sessuale. Come ci si deve opporre a chi mette le differenze contro l’eguaglianza. L’eguaglianza stessa non è un ideale astratto: è sempre un processo storico, immanente, che si ridefinisce nel tempo, una universalità che è un risultato fragile e mutevole, ma necessario.