di Riccardo Lenzi
Domenica scorsa, con la complicità di una bellissima giornata di sole, l’associazione Piantiamolamemoria ha accompagnato una quarantina di persone in un particolare percorso di trekking urbano, nel centro di Bologna, che ha toccato alcuni alcuni dei luoghi più significativi per la memoria degli eventi violenti che hanno segnato il corso della storia contemporanea del capoluogo emiliano: dal sacrario di piazza Nettuno, dedicato ai caduti nella Resistenza, alla stazione centrale, teatro della più tremenda delle stragi di matrice terroristica avvenute in Italia. Nell’anno in cui si commemora il centenario di quel “tradimento”, per dirla con il regista Olmi, che è stata la Grande Guerra, abbiamo preferito concentrare l’attenzione dei partecipanti sugli eventi tragici che hanno preceduto e seguito la Seconda guerra mondiale, fino a quella “guerra non ortodossa” che tante vittime ha provocato in tempo di pace.
Tra i vari luoghi visitati, voglio soffermarmi sull’unico di essi in cui non sono visibili segni di memoria: la serranda dell’armeria di via Volturno, una laterale della centralissima via dell’Indipendenza, a pochi passi dal più famoso ristorante di Bologna. E’ lì che il 2 maggio 1991 la banda della Uno bianca uccide due cittadini imolesi: Licia Ansaloni, titolare dell’armeria, e il carabiniere in pensione Pietro Capolungo, suo aiutante. Lo scorso 13 ottobre, giorno della memoria delle vittime della Uno bianca, Giorgio Napolitano ha inviato a Bologna una corona d’alloro, deposta ai piedi del monumento di viale Lenin dedicato al ricordo comune delle 24 vittime di questa “strage diluita”. Un gesto, quello del Presidente della Repubblica, che riparando a passate disattenzioni istituzionali, meritava forse maggiore attenzione da parte dei media bolognesi. Tornando a via Volturno, va detto che l’assenza di targhe commemorative in quel luogo non è invece dovuta ad una mancanza di sensibilità, bensì alla scelta consapevole dell’associazione dei familiari delle vittime di concentrare il ricordo pubblico dei loro cari in un’unica occasione.
Prima di descrivere il duplice delitto di via Volturno, facciamo un passo indietro. Un anno e mezzo prima si è dissolta la cortina di ferro. Il mondo assiste impotente all’escalation di due guerre tremende: gli Stati Uniti di George Bush senior attaccano, per la prima volta, l’Iraq di Saddam Hussein; nei Balcani inizia un bagno di sangue che a lungo l’Europa fingerà di non vedere. Francesco Cossiga è alla fine del suo mandato di Presidente della Repubblica e, da quando è scoppiato lo scandalo Gladio, ha iniziato a dare di matto. A capo del governo c’è Giulio Andreotti, che sta scaldando i motori per salire sul Colle più alto (non può sapere che, tra un anno, la strage di Capaci lo costringerà a rinunciare al coronamento della sua carriera politica). A Palazzo d’Accursio c’è invece il postcomunista Renzo Imbeni, ultimo grande sindaco di Bologna, amatissimo benché modenese.
In quel periodo la cittadinanza è scossa: politica e cronaca provocano inquietudini. Il 6 dicembre 1990 a Casalecchio di Reno, alle porte della città, un aereo militare era precipitato sulla scuola Salvemini, provocando la morte di 12 studenti. L’antivigilia di Natale quella che i giornali avevano iniziato a chiamare banda della Uno bianca aveva fatto il tiro al bersaglio nel campo nomadi della Bolognina, uccidendo Rodolfo Bellinati e Patrizia della Santina, e ferendo una decina di persone. Quattro giorni dopo, tra Castel Maggiore e Trebbo di Reno, la stessa sorte era toccata ad altri due inermi cittadini: Luigi Pasqui e Paride Pedini. Il tempo di festeggiare (si fa per dire) il Capodanno, e la sera del 4 gennaio 1991 il quartiere Pilastro diviene teatro di una vera e propria azione di guerra: una pioggia di piombo investe una pattuglia dei Carabinieri, con a bordo i giovanissimi militari Mauro Mitilini, Andrea Moneta e Otello Stefanini, che non hanno scampo.
E’ in questo clima che il 3 febbraio, al congresso di Rimini, muore il Pci e nasce il Pds: una svolta annunciata alla Bolognina poco più di un anno prima da Achille Occhetto, ultimo segretario del “Partito”. Un fatto politico di portata storica che calamitò l’attenzione di tutta Italia e che, in primis a Bologna, provocò drammi familiari e discussioni laceranti.
Con l’arrivo della primavera la cronaca nera rivendica nuovamente il suo spazio: il 20 aprile a Borgo Panigale, durante una rapina ad un distributore, “quelli della Uno bianca” uccidono il benzinaio Claudio Bonfiglioli e il suo cane. Ed eccoci giunti in via Volturno, ennesima tappa di una scia di sangue che da ormai quattro anni stava seminando il terrore tra l’Emilia-Romagna e le Marche. Per la prima volta i fratelli Savi entrano in azione nel pieno centro di Bologna. Sono circa le 11 del mattino del 2 maggio. Un’ora prima un cliente dell’armeria si fa cambiare un assegno dalla titolare, poi esce per recarsi in posta a pagare l’imposta di bollo per il porto d’armi. Quando ritorna per consegnare alla signora Ansaloni la ricevuta del pagamento, stranamente trova la saricensca mezza abbassata. Suona il campanello, nessuno apre. A quel punto, un po’ scocciato per l’inconveniente, decide di rivolgersi alla signora del negozio di stoffe che si trova lì accanto. Provano ad accedere al retro del negozio, passando da vicolo Quartirolo. Una volta entrati si trovano di fronte ad una scena agghiacciante: a terra ci sono i corpi senza vita di Licia Ansaloni e Pietro Capolungo. Entrambi sono stati freddati con due colpi di pistola, sparati a distanza ravvicinata. Gli assassini non hanno rubato i soldi che eranno in cassa. Mancano solo due pistole, per un valore complessivo di 700.000 lire. Perché? Una domanda ancora oggi senza risposta.
Il prossimo 21 novembre ricorreranno due anniversari significativi nella lunga storia di violenza che Bologna e l’Italia hanno dovuto subire nel corso dell’ultimo secolo: nel 1920, con l’eccidio di Palazzo d’Accursio, ebbe inizio la criminale scalata al potere di quel fascismo che Emilio Lussu (e pochi altri, all’inizio) videro «sorgere, progredire, affermarsi» intorno a sé. Settantaquattro anni dopo, alla Questura di Bologna, viene arrestato – e si lascia arrestare – Roberto Savi: il capo della banda della Uno bianca è un agente della squadra mobile di Bologna. A parte suo fratello Fabio, anche gli altri membri di quella “banda armata in divisa” sono poliziotti. Finisce un incubo, ma la città è sotto shock. Molto, finalmente, si capirà. Non tutto sarà chiarito. E le minacce, ai familiari delle vittime e alla democrazia, non finiranno.
A vent’anni da quegli arresti, di questa vicenda si parlerà giovedì 20 novembre, alle 18.00, in un’incontro pubblico organizzato dalle associazioni Piantiamolamemoria e PrendiParte insieme alla redazione de “I Siciliani giovani”. Ancora oggi c’è chi vorrebbe abbassare definitivamente la saracinesca sulla memoria e, con essa, sulla ricerca della verità. Non ci riusciranno. Mai.
Questo post è stato pubblicato sul blog di Riccardo Lenzi sul sito del Fatto Quotidiano