Dove abito io (Emilia Romagna, ndr), in questo momento (18 ottobre) piove a dirotto, e ieri sera, nella nebbia e nella pioggia, ho avuto paura di percorrere in auto la stradina che mi porta dal medico dove avevo un appuntamento per mio figlio, perché la strada è già mezza franata, e le frane sono la maledizione della montagna, e le bombe d’acqua non aiutano. Le alluvioni sono sempre più frequenti nella pianura sottostante. Colpa del capitalismo certamente e del suo estrattivismo infinito, non c’è dubbio su questo, una volta che riusciamo a collegare i nessi. Ma è comunque importante sottolineare che il capitalismo solo perturba i sistemi del bios. È dai processi interni ai sistemi del bios però che nasce la contro-perturbazione che ci aspetta (l’innalzamento della temperatura media, l’accrescersi della frequenza e dell’intensità degli eventi estremi, questa pioggia che non finisce mai, e le alluvioni in pianura e via dicendo), e sarà a sua volta il capitalismo ad esserne a sua volta perturbato. E così via in un ciclo continuo destinato a peggiorare le condizioni di vita e ambientali.
Capitalismo, una vecchia parola che in ultima analisi significa, nell’ambito della cooperazione sociale, il dominio della misura delle cose del capitale su quelle confacenti alla riproduzione sociale, alla vita. Dire che viviamo e operiamo dentro il capitalismo (con tutte le sue specificità contemporanee) significa dire che i nostri corpi sono quotidianamente coinvolti, spesso per necessità, e a dispetto delle nostre migliori intenzioni e valori, dentro un processo collettivo di azione che produce, riproduce e porta avanti un mondo lungo un sentiero che porta all’abisso. Siamo dentro una specifica praxis sociale, cioè un nesso tra una pratica teleologica che ha per scopo l’accumulazione, e le forme di relazionalità, potere e dominio corrispondenti. E dato il senso di impotenza generalizzato, sarà il capitalismo, con in mezzo le nostre vite vissute, a dovere assimilare e ad adattarsi (per dirla alla Piaget) a questa continua contro-perturbazione proveniente dal bios. Se si riflette su ciò, non ci vuole molto a capire che da questo punto di vista le prospettive sono grame. Non c’è né geo-ingegneria miracolosa alla Ellon Musk, né transizione ecologica che, dentro il capitalismo, possa offrire speranza. Se a questo aggiungiamo il regime di guerra in cui siamo entrati, la de-sensibilizzazione alle atrocità e al cinismo del governo “amico” che ordina bombardamenti perfino su tendopoli di rifugiati dentro il cortile di un’ospedale, e la faccia tosta dei nostri governanti che gridano contro crimini di guerra quando sparano su un’installazione dell’Onu, ma stanno zitti di fronte alle decine di migliaia di civili morti, a bambini mutilati, bruciati e trucidati in maniera sistematica e continua, c’è da chiedersi allora, come si chiede giustamente e ripetutamente Bifo, come vivremo?
Ci sono due modi di porsi questa domanda.
Un primo modo è proiettare le tendenze nel futuro, a partire dalla costellazione di fatti, di impressioni e narrative che riusciamo a processare cognitivamente ed emotivamente dalla nostra esperienza del mondo. Da questo punto di vista, il “come vivremo?”, da solo, è la dimensione della preoccupazione, dell’ansietà di soggetti nei confronti del futuro come si configurano dentro le tendenze del capitalismo in atto. Ma, direbbe Cyril Lionel Robert James, quel futuro è nel presente, già si vivono nel mondo quelle criticità sociali e ambientali che ci vengono prospettate come destinate ad amplificarsi. E queste tendenze non sono che la proiezione, cioè l’anticipazione del frutto di una praxis della cooperazione sociale che viviamo e in cui operiamo ogni giorno e che quindi collettivamente riproduciamo.
C’è dunque un altro modo di dar senso alla domanda del “come vivremo?” Si, ed è quella di affiancarla alla domanda del “come viviamo?” Quali forme relazionali e quali teleologie noi vogliamo incarnare nella nostra praxis collettiva quotidiana con la quale articoliamo i nostri corpi e le nostre vite? Quali modelli relazionali vogliamo diano forma alla nostra cooperazione sociale? Attraverso quale praxis noi vogliamo operare nel mondo? (e che questo mondo sia la strada, la fabbrica, l’ufficio, lo stato, la famiglia, il movimento, il supermercato, il confine, il mare, la scuola, il quartiere o quant’altro contesto dell’operare non importa). E quindi, come sovvertirne la teleologia dominante, la finalità, in quali modi trasformarla in una prassi consapevole non più costretta dentro la teleologia capitalista dell’esplosione catastrofica? A partire da qui e ora.
La risposta a questa domanda ce l’abbiamo sotto gli occhi mentre osserviamo noi stessi quando siamo collegati alla macchina sistemica, ne percepiamo i molteplici e complessi nessi, ne intuiamo le strutture, ne viviamo quotidianamente le norme che incidono sulle nostre pratiche e relazioni e che muovono affettività ed emozioni, quando viviamo e ragioniamo sugli effetti psichici, sociali edambientali, ed empatizziamo, solidarizziamo e lottiamo insieme alle molteplici vittime della misura delle cose del capitale.
È solo partendo dall’articolazione di queste domande, dal come vivremo al come viviamo e poi al contrario, dal come viviamo al come vivremo (perché è nelle forme collettive del come viviamo il principio generatore del come vivremo), che si può sperare di accedere alla lucidità e affettività necessaria per gettare il seme che produce un altro tipo di praxis della cooperazione sociale. È solo così che si può dare un’altra risposta alle perturbazioni provenienti dal bios. È questa la doppia domanda che può e deve porsi ognuno di noi certo. Ma non basta. Occorre più che mai trovare il modo di dar vita e promuovere un soggetto collettivo, sistemico e trasversale, proiettato su una dinamica espansiva e inclusiva, che cammini su un sentiero che si traccia camminando, e che cammini ponendosi ripetutamente la doppia domanda nei vari contesti. Un soggetto collettivo che si muova sul terreno della riproduzione sociale, che contrasti cercando di scardinare il dominio della riproduzione del capitale, che sovverti l’ordine teleologico e della praxis ad esse corrispondenti, che articoli sempre più le nostre vite dentro forme di cooperazione sociale interconnesse e interdipendenti in forme nuove, che cerchi di essere consapevole in primo luogo delle forme della nostra interdipendenza e di quello con la natura non-umana, che forgi e articoli nuove interdipendenze non sottomesse alla dipendenza materiale e ideologica dal capitalismo, e che mobiliti anche, attraverso l’amicizia, l’amore e la cura, le tante energie depresse che già disertano, in forme individualizzate e alienate, l’ordine delle cose presente.
Questo articolo è stato pubblicato su Comune il 20 ottobre 2024