di Emanuele Macaluso
Questo libro di Emiliano Sbaraglia – Ideario Berlinguer. Passioni e parole di un leader scomodo (Nova Delphi) che contiene un’intervista a Luciana Castellina – ha una “premessa” in cui si racconta il rapporto dell’autore con il padre, comunista per convinzione profonda e militanza, berlingueriano per amore verso una persona che comunica pensieri e comportamenti tali da rimotivare i suoi convincimenti e la sua militanza. Un padre che vive una vita “separata” dal figlio adolescente, il quale lo ritrova, con sentimenti teneri e passioni politiche forti, in un momento difficile per un uomo solo e malato.
Pagine belle, queste del giovane Sbaraglia, che proprio attraverso il rapporto con il padre incontra Berlinguer nelle immagini, nelle pagine di giornale, nelle tv che trasmettono l’ultimo suo comizio a Padova e i funerali: quei funerali che coinvolsero non solo i militanti di un grande partito, ma un popolo.
Il ragazzo cresce, con queste immagini che si confondono con quelle del padre che morirà, e il libro che ha scritto ci offre una ricerca appassionata e attenta sul pensiero politico di Berlinguer, filtrata e a volte appannata da un rapporto che definirei “filiale”: c’è infatti, nello scritto di Sbaraglia, ragionamento e amore, identificazione.
Io ho conosciuto bene Berlinguer, con lui ho lavorato per anni, sino al momento della sua scomparsa: ero direttore de “l’Unità”, soprattutto per sua decisione, e nei giorni della malattia e della morte l’accompagnai con scritti e titoli del giornale che espressero sentimenti collettivi, ma anche personali.
Voglio dire che ho voluto bene ad Enrico e lui ricambiava stima e affetto per me. Ma questo non ci impedì mai di manifestare con lealtà i nostri dissensi anche in momenti difficili per la vita del partito. Ne parlo nel mio libro, Cinquant’anni nel Pci, nel capitolo dedicato a Berlinguer, “Il segretario più amato”, e nello scambio di opinioni con Paolo Franchi che conclude il mio racconto e le mie riflessioni sui comunisti italiani.
Quando Emiliano Sbaraglia mi chiese di scrivere una prefazione ad un suo libro su Berlinguer, gli dissi subito di sì, perché ero interessato al fatto che un giovane scrivesse sul segretario del Pci nell’anno del ventesimo anniversario della sua morte, dopo che tanti “vecchi” avevano detto, da sponde diverse, molte cose, vere e meno vere, interessanti e banali.
In questo libro non c’è nostalgia perché è scritto da un giovane. C’è invece una totale identificazione, non con la storia del Pci, ma con la vicenda umana e politica di Berlinguer, quasi scorporato da quella storia. È un segnale significativo perché mette in evidenza l’impronta non soltanto politica, ma morale che ha lasciato, anche nelle nuove generazioni – forse più in queste – lo scomparso leader comunista. E non è un caso che questa impronta abbia come riferimento centrale la stagione breve, quella che si identifica con la “seconda svolta di Salerno”, considerata il punto più alto dell’impegno politico e civile della sinistra; come un momento però in cui quella sinistra non capì in pieno il messaggio di un grande leader “isolato”.
Voglio discutere questo punto cruciale della politica di Berlinguer (la svolta con la parola d’ordine: il Pci asse di un’alternativa democratica), non solo perché le mie idee su quel momento non collimano con quelle espresse da Sbaraglia, ma anche perché proprio su questo nodo, in occasione della scomparsa del segretario comunista, si è sviluppato un dibattito nella sinistra e fra tanti che, su questo terreno, si sono cimentati scrivendo su giornali, riviste o in pagine di libri.
Prima di argomentare quel che penso su questa fase, voglio dire che sulla ricostruzione politica del Pci, negli anni di Togliatti, Longo e Berlinguer (sino alla svolta del 1980), avrei osservazioni da fare su vari punti. Non solo sui fatti, ma anche sulle interpretazioni di quei fatti. Non lo faccio perché complessivamente la ricostruzione è lacunosa ma onesta, e intendo rispettare una diversa lettura e valutazione fatte dall’autore.
Il centro del libro è il pensiero e la personalità di Berlinguer, che emergono attraverso la rilettura, per argomenti, dalla A alla Z, dei suoi scritti. Non è una scelta burocratica ma ragionata, seguendo un filo in cui si ricostruisce l’opera di Berlinguer attraverso le parole di Berlinguer. L’autore non è fra coloro che hanno esplicitamente diviso in due il leader comunista, prima di Salerno e dopo Salerno, come hanno fatto altri; anzi cerca un filo che leghi tutta l’opera e l’impegno del segretario del Pci.
Tuttavia, Sbaraglia, a proposito della svolta del 1980, scrive che Berlinguer “abbandonando ogni residuo tattico mutuato dalla precedente proposta di solidarietà nazionale […] sarà l’artefice di una profonda trasformazione delle politiche del partito espresse sino a quel momento […] una vera e propria ‘seconda svolta di Salerno’…”
C’è quindi l’esplicito intento di mettere in relazione il taglio di quelle tesi con le iniziative togliattiane del lontano 1944. E qui ci sono, anche per Sbaraglia, due Berlinguer: quello del governo di solidarietà nazionale, presieduto da Andreotti, e quello della “svolta” del 1980. Il primo esprime una politica che è solo un “residuo tattico” del passato, il secondo invece esprime la sua identità, l’identità comunista.
Non sono d’accordo. La scelta di Berlinguer nel 1976 ha motivazioni forti che sono nella storia del Pci, nella tattica, nella strategia, nella visione della politica di Berlinguer. Semmai io considero una posizione “tattica”, senza una strategia esplicita, ma sottesa, quella della “svolta”. Nel 1976 si era definitivamente esaurita la politica del centrosinistra, inaugurata nei primi anni sessanta da Moro, Fanfani, Nenni, De Martino, La Malfa. Infatti l’ultimo governo Moro-La Malfa, senza i socialisti che lo appoggiavano dall’esterno, cadde, il primo dell’anno 1976, proprio per iniziativa del segretario socialista Francesco De Martino. E tutti i protagonisti di quell’esperienza erano convinti che si sarebbe aperta una fase nuova. Il risultato elettorale confermò tale convinzione: Dc e Pci avevano, insieme, quasi il 75% dei voti; era impensabile un governo senza il consenso dell’uno o dell’altro partito. Erano gli anni dell’inflazione a due cifre, della crisi della grande industria, dei prodromi del terrorismo.
Berlinguer e il Pci si trovarono di fronte a una alternativa: o contribuire a fare un governo con la Dc, o sciogliere il Parlamento appena eletto e aprire una crisi di dimensioni imprevedibili. Non solo. In quel 1976, al Pci, dopo l’uscita dal governo del 1947, la situazione politica offriva la possibilità di entrare nell’area di governo e aprire così un varco nello sbarramento che durava da circa trent’anni. In definitiva, erano maturate le condizioni per cui il Pci, con Togliatti, si era battuto da quel lontano 1947: cambiare guida nella Dc e costringerla a riaprire un rapporto col Pci. Una politica che stava tutta dentro la strategia del compromesso storico, indicata da Berlinguer, senza identificarla con il governo Andreotti. La politica della solidarietà nazionale non fu quindi una pausa tattica.
L’uccisione di Moro cambia certamente il quadro, per i democristiani e i comunisti ma anche per il Psi che, con la direzione di Craxi, lavora per una nuova politica volta a farsi largo, con tutti i mezzi, tra la Dc e il Pci. Tuttavia è bene ricordare che, dopo la rottura della maggioranza di governo (1978) e le elezioni politiche del 1979 (il Pci è al 30% dei voti), Berlinguer non cambia politica, anzi la conferma al quindicesimo congresso dello stesso anno. Infatti, come ricorda lo stesso autore, la “svolta” si verifica nell’autunno del 1980.
Sulle ragioni per cui adotta quella linea si è molto discusso. Certo, si manifesta già allora una crisi di rapporto tra politica e paese, tra partiti e opinione pubblica, soprattutto sulla questione morale, ma pure sulla questione sociale. La radicalizzazione su queste due questioni è netta. Ma c’è un dato che non va sottovalutato: il Psi di Craxi, e il giudizio di Berlinguer drasticamente negativo su quella politica e su quel leader. E quindi, nel momento in cui si riallaccia il rapporto tra Dc e Psi, l’obiettivo centrale di Berlinguer è spezzare quel legame per battere soprattutto il Psi di Craxi.
Se si legge il libro di Tonino Tatò, dove sono raccolti gli appunti che scriveva per il segretario del Pci dopo gli incontri avuti con i leader della Dc e repubblicani, si individua con chiarezza quell’obiettivo. Del resto, che significato aveva la formula berlingueriana dell'”alternativa democratica”, senza indicare le forze con cui attuarla, se non quello di uno sbarramento all’alleanza Dc-Psi? Non era certo pensabile una prospettiva di governo senza un’intesa con la Dc, o con il Psi, o con entrambi. Che significato aveva la richiesta berlingueriana del “governo degli onesti?”
Ecco perché ho sempre pensato che proprio la “svolta” fu un’operazione politica tattica, rispetto a una strategia che restava sempre quella del compromesso storico. Di conseguenza si prospettano soluzioni di governo, politicamente non visibili, però compatibili con quella strategia: con una Dc senza la guida conservatrice del 1980, e con il Psi senza Craxi e la sua politica.
Ho fatto queste osservazioni su un momento essenziale della vicenda politica di Berlinguer su cui si è molto discusso. È chiaro che sono solo mie opinioni, condivise da alcuni e contrastate da altri. Ma discutere serve a capire e a far maturare opinioni, anche se non condivise. Il libro del giovane Sbaraglia è utile anche per questo.
Spero lo leggano in molti.
Questo testo è la prefazione al libro Ideario Berlinguer. Passioni e parole di un leader scomodo di Emiliano Sbaraglia