G8, Bolzaneto: un libro riapre il caso

18 Giugno 2014 /

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Gridavano e piangevano
Gridavano e piangevano
di Mauro Barberis
Fa discutere Gridavano e piangevano. La tortura in Italia: ciò che ci insegna Bolzaneto (Einaudi, 2014, € 18), il libro scritto da Roberto Settembre, il giudice estensore della sentenza di appello recentemente confermata in Cassazione. Il libro sarà oggetto di un dibattito a Genova, a Palazzo Ducale, il 12 giugno alle 17 e 30, con la partecipazione, fra gli altri, di Giuseppe Pericu, sindaco di Genova ai tempi del G8 e forse dell’attuale sindaco Doria. Ne parliamo con l’autore.
Hai lavorato mesi a stendere le 679 pagine della sentenza d’appello. Cosa ti ha spinto, appena andato in pensione, a riprendere in mano quelle pagine, rientrando in quell’incubo?
Il libro è nato dall’esigenza di dar voce alle vittime, facendole diventare, da oggetti passivi, soggetti attivi della narrazione. Gli eventi, che tanto facilmente si dimenticano, quando sono narrati penetrano nella coscienza e ne fanno scaturire emozioni e ragioni, che in qualche modo delimitano la strada della democrazia. Per questo non ho voluto selezionare pochi fatti esemplari, come se, ricordati quelli, si fossero ricordati tutti. Finito il processo, credevo che l’imponenza stessa della sentenza sarebbe stata sufficiente a ridare dignità alle vittime, producendo una riflessione collettiva sul senso di quegli eventi: ma evidentemente mi sbagliavo, e allora ho scritto questo libro.

“Gridavano e piangevano” dimostra inequivocabilmente che a Bolzaneto, per tre lunghi giorni, è stata praticata sistematicamente la tortura: violenze metodiche inferte a uomini e donne, vecchi e giovani, italiani e stranieri, sani, feriti e addirittura disabili. Avrebbe mai potuto accadere tutto ciò, o almeno non restare impunito, se in Italia fosse stato previsto il reato di tortura, come esigono la Costituzione (art. 13, c. 4: «È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà»), la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (1950), e la Convenzione dell’Onu contro la tortura (1984)?
La maggior parte dei reati contestati nel processo si è prescritta in 7 anni e mezzo, perché le pene erano lievi. Il reato di tortura, anche nella formulazione insoddisfacente recentemente approvata dal Senato, si sarebbe prescritto in dodici anni e mezzo nel caso del reato generico, commesso da chiunque, e in quindici in quello del reato aggravato, commesso da pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. Sì, se quei fatti fossero stati riconosciuti come casi di tortura, la prescrizione non sarebbe scattata.
Io, come tanti, credevo che a Bolzaneto gli abusi fossero stati occasionali, episodici; me li spiegavo con il fatto risaputo che nelle carceri, nei manicomi, negli ospizi, persino negli asili, chi ha un potere incontrollato spesso finisce per abusarne. Il tuo libro mi fa ricredere; ad esempio, gli agenti che cercavano di aiutare le vittime lo facevano di nascosto, come se facendolo violassero degli ordini. C’erano davvero ordini di trattare i fermati in modo tale da dissuaderli dal partecipare mai più a manifestazioni? C’era un piano per stroncare il movimento no-global?
Non l’ho detto e non lo penso, per ragioni di coerenza metodologica. Sono un ex magistrato, abituato a ragionare sulla base degli atti, dei fatti allegati e provati nei processi. Anche gli indizi e i sospetti che il libro evidenzia nascono solo dalla volontà di promuovere una discussione, non certo di pilotarla in un senso o nell’altro.
Sembra che il G8 non finisca mai; solo in questi ultimi mesi sono avvenuti tre fatti che lo evocano. Anzitutto, la nomina di Gianni De Gennaro, capo della Polizia all’epoca, a Presidente della Fondazione Ansaldo, istitutita per promuovere la memoria dei genovesi.
Si tratta di una scelta del tutto estranea al merito del mio libro; per quanto fosse stato inquisito, questo signore è stato assolto per le condotte tenute in margine a quegli eventi, e io non ho né titolo né strumenti per giudicare.
Poi, il caso Aldrovandi, il rifiuto da parte di alcuni sindacati di polizia di discutere dell’introduzione, non solo del reato di tortura, ma persino del numero identificativo sui caschi degli agenti durante le manifestazioni di piazza.
Ribadisco quanto ho già detto in altre interviste: la reazione di questi sindacati è la conferma dello smarrimento del senso del rapporto tra lo Stato e i cittadini. Il codice identificativo è decisivo per restituire l’immagine di uno Stato formato da persone che, come gli altri cittadini, non possono operare travisate.
Infine, la legge Manconi, già approvata quasi all’unanimità dal Senato, che introduce sì il reato di tortura, ma con gravi limitazioni.
L’inserimento nel codice penale dell’art. 613 bis (Tortura) come reato generico, commissibile da chiunque, punisce il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio solo con un’aggravante; così, nell’eventuale bilanciamento con le attenuanti, l’aggravante potrebbe scomparire, con effetti anche sui tempi della prescrizione. E questo finisce per vanificare lo spirito di tutta la normativa internazionale in materia, che scaturisce dalla primaria necessità di punire proprio i soprusi commessi dal potere costituito dello Stato.
Questo articolo è stato ripubblicato da Micromega online il 12 giugno 2014 e ripreso dal Secolo XIX

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