di Valeria Piasentà
A Bologna la Fondazione Mast – Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia – offre un esempio di relazione virtuosa fra impresa e città. La Fondazione no profit nasce da una idea dell’imprenditrice e presidente di Coesia SpA, Isabella Seràgnoli: «Mast come iniziativa privata, ma aperta alla collettività, nasce con l’obiettivo di poter diventare una realtà per il bene comune delle persone: la comunità aziendale assieme alla partecipazione dei cittadini. Con questo scopo Mast ha l’ambizione di mettere insieme energie che partono dal territorio e dall’azienda e sono destinate al territorio e all’azienda, in un continuo rapporto virtuoso e creativo».
L’edificio, inaugurato l’ottobre del 2013 nel quartiere Viola di Bologna, ha trasformato un’area industriale dismessa, schiacciata fra la città e il parco del Reno, in un centro polifunzionale dotato di: spazi espositivi; auditorium-sala proiezioni per 410 spettatori con attrezzature d’avanguardia per il sound tanto di spettacoli teatrali che del cinema in 3D – anticipato da un foyer che contiene una scultura di Kapoor – e che il 10 aprile ha ospitato una lectio magistralis di Umberto Eco; area didattico-esperenziale, dotata di attrezzature multimediali interattive; caffetteria e ristorante affacciato su uno specchio d’acqua, caratterizzati da sperimentazione culinaria e cultura della nutrizione; Accademy, con 1.000 mq di aule attrezzate; palestra; asilo nido e scuola materna, con operatori impegnati in corsi di aggiornamento permanente; un parco progettato dall’architetto paesaggista Paolo Pejrone. I servizi sono rivolti ai lavoratori dell’impresa come ai cittadini.
È il caso dell’Academy che «si propone come centro di elaborazione di una cultura tecnica rivolta al territorio (scuole, imprese, comunità) per realizzare progetti formativi in collaborazione con le istituzioni e altre organizzazioni». O del nido, aperto anche ai bambini del quartiere in convenzione col comune di Bologna, e progettato col contributo di Reggio Children, il centro fondato nel dopoguerra da Loris Malaguzzi a Reggio Emilia, a difesa dei diritti dei bambini e per promuovere un sistema educativo per l’infanzia considerato fra i migliori del mondo.
Per selezionare il progetto del complesso, nel 2005 è stato bandito un concorso internazionale (una buona prassi finalmente in uso anche nel nostro Paese). A vincerlo sono due giovani architetti romani dello studio Labics, Claudia Clemente e Francesco Isidori; la giuria era presieduta dall’architetto e direttore di Casabella, Francesco Dal Co. L’edificio – con le sue facciate lucide, leggere e trasparenti, rivestite con vetri serigrafati e strutture lamellari in alluminio – oggi contribuisce a riqualificare un’area periferica caratterizzata da un tessuto urbano disomogeneo, anche in virtù della presenza di alcune grandi sculture contemporanee, come il maestoso segno rosso Old Grey Beam di Mark di Suvero posto proprio di fronte all’ingresso principale e di fianco alla lunga rampa in beola che conduce all’ingresso, altro quasi quanto l’intera struttura che si articola in tre piani fuori terra e due di parcheggio sotterraneo.
Dal 23 aprile a tutto agosto, la Fondazione ospita la terza esposizione consecutiva dedicata al lavoro: Capitale Umano nell’Industria, una mostra fotografica con oltre duecento scatti documentari di grandi maestri del Novecento, da Salgado a Mulas, da Evzerikhin a Goldblatt, da Alpert a Tuggener, ecc.; mentre molte fotografie sono di anonimi, come quelle degli scioperi, altre prodotte dagli uffici aziendali. Il tutto compone un ritratto polimorfo di uomini e macchine, fabbriche e cantieri; una panoramica realistica e a tratti spietata sul mondo del lavoro e dei lavoratori.
Secondo il curatore Urs Stahel: «La mostra racconta il lavoro dell’uomo nelle miniere, nei grandi impianti delle industrie metallurgiche, meccaniche e nelle fabbriche tessili, ma anche nei cantieri stradali, ferroviari e navali e nelle centrali elettriche, mettendo a confronto strumenti, metodi e condizioni di lavoro dall’Ottocento ad oggi». Le fotografie sono patrimonio della Fondazione, la prima collezione al mondo sul tema dell’industria e della tecnologia.
L’operazione che la Fondazione Mast ha inaugurato a Bologna riattualizza una cultura imprenditoriale illuminata, storicamente influenzata dalle teorie dei Socialisti utopisti anglosassoni all’inizio dell’industrializzazione, che con i loro modelli di città ideali hanno fra l’altro contribuito alla formazione dell’urbanistica moderna. Riprende gli ideali di un imprenditore-intellettuale come Adriano Olivetti, che teorizzava il reinvestimento del profitto aziendale in opere utili alla collettività, e nelle sue fabbriche i dipendenti potevano fruire di asili e biblioteche, di concerti e dibattiti, in un ambiente che accoglieva scrittori, poeti e artisti producendo cultura.
Nel clima pesante e triste che caratterizza questo lungo periodo di crisi economica e sociale, la scoperta di realtà come la Fondazione Mast di Bologna apre un piccolo varco alla speranza. E fa pensare. Se l’Italia vuole salvarsi non ha bisogno nÈ di illusioni nÈ di catastrofismi ma di buone pratiche. Lo Stato dovrebbe (mala tempora currunt…) averne l’obbligo, ma sarebbe ora che anche il privato e le imprese si attivino regolarmente con iniziative concrete e di valore: in fondo si tratterebbe anche di una forma di restituzione, una sorta di obbligo morale verso un territorio e dei cittadini che con le loro risorse e le loro opere hanno consentito l’accumulo della ricchezza in mano a pochi.
Questo articolo è stato pubblicato sul Manifesto Sardo il 16 maggio 2014