Acqua, energia e beni comuni: che ne è del referendum del 2011?

19 Maggio 2014 /

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di Mario Agostinelli
1. Referendum 2011: la sovranità popolare disattesa
Per capire cosa pensi del voto referendario del 2011 il governo di Matteo Renzi, più che scorrere un programma avulso da qualsiasi impegno nella realizzazione di quella svolta, basterebbe leggere la biografia di quelli che, tra i suoi ministri, dovrebbero impegnarsi a convertire l’acqua da risorsa economica a bene comune e a strutturare una rete elettrica che favorisca la diffusione territoriale delle fonti rinnovabili e l’autosufficienza energetica senza il deterioramento dei cicli naturali.
Ma manca la volontà politica per sottrarre alla logica del profitto un accesso indispensabile alla vita e per chiudere irreversibilmente col ritorno all’atomo, garantendo altresì la necessaria sicurezza alla dismissione degli impianti e al trattamento delle scorie. La svolta più importante degli ultimi anni anche dal punto di vista concettuale, richiesta con un atto democratico tanto più esigibile quanto in contrasto con la crescente tendenza astensionista, sta annegando nell’indifferenza di gran parte dei cittadini e nella povertà progettuale dei governi tecnici e del renzismo “del fare”.
Tutti intrisi di smania di privatizzazione, alienazione del patrimonio comune, incapacità di pensare a sistemi energetici non centrati su grandi impianti, attraverso cui progettare invece una occupazione più stabile e dignitosa e offrire un ragionevole contributo al governo del suolo, al cambiamento climatico e fino, indirettamente, all’eliminazione delle armi nucleari stoccate nelle basi Nato.

Passiamo in rassegna la lista dei ministri attuali: oltre alla riconferma di Lupi, pro-grandi opere e pro-TAV ma che cade dal pero quando gli si dimostra che il mantenimento della rete idrica avrebbe effetti salutari anche sulla spesa pubblica, le “new entries” Galletti e Guidi, che muoveranno le risorse economiche più importanti per la politica industriale, nonché per l’energia, l’ambiente, e il clima, si sono da sempre contraddistinte a favore della privatizzazione dell’acqua e del ritorno del nucleare, né hanno dato segni di ripensamento.
Pinotti, a sua volta, è ben nota nell’ambiente militare e industriale – in particolare in Finmeccanica e Fincantieri – per essere pro-industria bellica e convinta della bontà dei depositi Nato di armi nucleari ad Aviano e Ghedi, trasportabili con gli F35. Gianluca Galletti, neo ministro dell’ambiente, è un commercialista che non ha mai masticato ecologia in vita sua. Proseguirà la tendenza della Prestigiacomo e di Clini in direzione di una industrializzazione dell’ambiente, a favore delle energie fossili, per la privatizzazione dell’acqua, a sostegno della fusione finanziaria delle utility pubbliche rimaste.
Memorabili due sue dichiarazioni: “I partiti che hanno sostenuto il referendum sull’acqua e le regioni che hanno proposto ricorso alla Corte Costituzionale si devono ora assumere la responsabilità di aver causato un danno enorme al Paese nel suo momento più difficile.” E “Se mi dimostrano che in tutta Italia il sito più sicuro e più economico è in Emilia-Romagna io non avrei timore a mettere un reattore nucleare proprio qui.” Federica Guidi, invece, non ha timore a ritenere che si debba “rilanciare il nucleare” e che “vanno superate le municipalizzate ancora a prevalenza di capitale pubblico, mentre è necessario il passaggio in mano privata delle fasi più remunerative del ciclo integrato dell’acqua”. Il suggello per loro l’ha dato Delrio: “sui ministri tecnici non abbiamo chiesto a nessuno per chi votavano e non ci interessava saperlo, ma sapere cosa avrebbero fatto nel settore in cui si sarebbero impegnati”.
Basterebbero queste considerazioni per giudicare la continuità di rappresentanza da parte del governo Renzi degli interessi che hanno, con il consenso di Napolitano e Draghi, escluso dall’orizzonte del cambiamento i beni comuni e ignorato la domanda di arrestare una crescente privatizzazione della vita. Ma non basterebbero a capire come due milioni di voti alle primarie di un partito in crisi possano aver cancellato – dopo solo meno di tre anni – una ben più cosciente partecipazione di 27 milioni di cittadini ad una regolare prova elettorale. La questione che si pone non è quindi l’imprevidenza e l’inconsistenza strategica di Renzi, ma le ragioni del riflusso impressionante di un movimento forte, che viene spiazzato da un tentativo autoritario di superare la crisi della politica attraverso la negazione e la limitazione del diritto di rappresentanza.
2. Un bilancio dopo l’esito referendario
Continuerò per tutto l’articolo a considerare in parallelo i percorsi e gli esiti dei due referendum – acqua e nucleare – convinto come sono che il successo sia dipeso dalla concomitanza e dalla convergenza dei due temi e non, come a mio giudizio continua a considerare una parte maggioritaria del movimento dell’acqua, solo dalla maturità raggiunta tra i cittadini riguardo alla necessità di ripubblicizzare il bene pubblico per eccellenza.
2.1 Acqua dopo giugno 2011 (il bilancio è tratto dai documenti diffusi dal comitato)
Il 13 Agosto 2011 il governo ha approvato il decreto legge 138/2011 che riproponeva la disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica abrogata con i referendum del 12-13 giugno, pur escludendo il servizio idrico. Diverse Regioni hanno promosso ricorsi di fronte alla Corte costituzionale chiedendo di definirne l’illegittimità. In conclusione, per il servizio idrico integrato, la gestione dei rifiuti e il trasporto pubblico locale si è confermata la legislazione comunitaria, che prevede il carattere pubblico dei tre servizi. Di conseguenza, sarebbero escluse dal patto di stabilità interno le società in house nonché le aziende speciali affidatarie dirette della gestione di servizi pubblici locali. Tuttavia il governo ha intralciato e inficiato con successivi provvedimenti questo chiarimento.
È evidente che sottoporre le Aziende speciali al Patto di stabilità significa, in primo luogo, estendere anche ad esse ciò che si è verificato per gli Enti Locali, e cioè costruire una condizione per cui esse non saranno più in grado di effettuare investimenti. Non ci vuole molto per vedere che questa diventerà la strada per favorire i processi di privatizzazione.
Quando il governo ha trasferito all’Autorità per l’Energia e il Gas le funzioni di regolazione e di controllo dei servizi idrici con “la finalità di garantire la promozione della concorrenza e dell’efficienza”, ha manifestato le sue intenzioni. Ne è derivato un non rispetto dell’esito del II° referendum, con la mancata eliminazione dalla tariffa di qualsiasi voce riconducibile alla remunerazione del capitale investito. Sono seguiti ricorsi e mobilitazioni locali contro la determinazione del nuovo metodo tariffario, promossi dai comitati e sostenuti da gruppi di Comuni e Province. In Toscana, in particolare, il TAR ha risposto alle richieste molto decise della base con una sentenza esemplare, che afferma che “il criterio della remunerazione del capitale, essendo strettamente connesso all’oggetto del quesito referendario, viene inevitabilmente TRAVOLTO dalla volontà popolare abrogatrice”.
Lo scontro è tutt’ora in corso, ma in una cornice di relativo isolamento a livello nazionale delle rivendicazioni del movimento per l’acqua, che oscura la vivacità che sopravvive al livello territoriale. La partita è di enorme peso ed è chiaro come la politica governativa si dislochi a favore della privatizzazione e produca effetti nefasti, a meno che si reagisca uscendo dalla specializzazione monotematica delle rivendicazioni e ci si dia una strategia vincente più generale riguardo ai nodi che esulano dal contesto locale e dall’erogazione dell’acqua potabile.
Dal 1990 al 2000, decennio in cui si attua la “grande trasformazione” dalle gestioni delle Aziende municipalizzate al nuovo assetto fondato sulla gestione da parte delle società di capitali – periodo in cui tramonta il ruolo della finanza e dell’intervento pubblico – gli investimenti nel settore idrico sono caduti di oltre il 70% flettendo da circa 2 mld di euro a circa 600 milioni annui. In effetti, gestire l’acqua è un business molto appetibile, il giro di affari annuo è calcolato in circa 8 miliardi di euro. Gestire l’acqua vuol dire non avere rischio d’impresa poiché i profitti erano garantiti per legge per una quota pari al 7% del capitale investito caricata direttamente sulla bolletta (la cosiddetta “adeguatezza della remunerazione del capitale investito” abrogata dal secondo quesito referendario). La gestione dell’acqua quindi, alle condizioni per cui si impegna il governo a favore del privato, non conosce crisi economica: il servizio idrico è per definizione un servizio a domanda rigida, nel senso che la sua essenzialità per la vita lo rende praticamente immune dall’andamento generale dei consumi. Qui l’applicazione dei risultati del referendum è rimasta senza una risposta soddisfacente.
A livello decentrato invece, i successi del movimento stanno erodendo la rigidità delle controparti nazionali. Se un anno fa il movimento per l’acqua poteva vantare, come unico risultato concreto, l’avvenuta trasformazione a Napoli della società a totale capitale pubblico (ARIN S.p.A.) in azienda speciale (Acqua Bene Comune Napoli), oggi innumerevoli processi stanno attraversando la penisola. Nella provincia di Imperia viene bloccata la proposta di privatizzazione e si intraprende un percorso per una gestione pubblica da studiare assieme ai comitati; venti sindaci “ribelli” della provincia di Varese si schierano per l’azienda speciale e ottengono un compromesso onorevole sulla gestione in house, mentre in provincia di Brescia è stato avviato un analogo processo. È così che il progetto di una grande multiutility del nord (A2A, Iren, Hera) viene smontato pezzo per pezzo e, mentre tra Forlì e Rimini si ragiona in direzione di uno scorporo di “Romagna Acque” dalla multiutility Hera, a Reggio Emilia e Piacenza si imbocca la medesima strada per aprire alla ripubblicizzazione del servizio idrico.
Analogo percorso si sta avviando a Pistoia e a Pescara, mentre a Vicenza il cambiamento dello statuto comunale inserisce nella “carta costituzionale” cittadina la gestione del servizio idrico attraverso enti di diritto pubblico.
A tutto ciò vanno aggiunte la proposta di ripubblicizzazione del ramo idrico di Acea e le proposte di legge regionale d’iniziativa popolare in Lazio, Sicilia e Calabria, oltre a quella depositata in Abruzzo. Proprio in questi giorni la Giunta comunale di Palermo ha approvato la delibera di trasformazione di AMAP S.p.A. in azienda speciale e in Lazio è stata approvata la prima legge in Italia per la gestione pubblica e partecipata dell’acqua, presentata da cittadini e comuni. Una legge che recepisce i risultati referendari, a partire dalla definizione di servizio idrico come servizio di interesse generale da gestire senza finalità di lucro, fino al fondo stanziato per incoraggiare la ripubblicizzazione delle gestioni in essere.
Infine, la campagna di “obbedienza civile” per cui il singolo cittadino autoriduce la bolletta per la parte di remunerazione del 7%, ha avuto diffusione limitata, ma è un segno di una capacità notevole di organizzazione e fidelizzazione che porterebbe risorse indispensabili addirittura nella battaglia fondamentale per riformulare il Patto di stabilità. Patto da ripristinare nella funzione di fissazione di un saldo generale di natura finanziaria, per lasciare così maggiore libertà di scelta agli Enti locali nella fissazione delle politiche di entrate e di spesa.
Per segnalare la presa anche culturale di questo movimento, ricordo come il Comitato Milanese sia stato decisivo nel far abbandonare il progetto della “via d’acqua” prevista nel piano EXPO-2015, dato che si configurava come una grande opera “che priva di senso e snatura il naturale valore dell’acqua quale bene universale, patrimonio per la Vita”.
2.2 Nucleare ed energia dopo il 2011
L’esito del referendum nucleare è parso più cogente: sospesi gli accordi per gli EPR francesi, licenziata l’Agenzia per il Nucleare, sospesa la localizzazione del deposito nazionale delle scorie. Tutto a posto? Per niente. Continuano a viaggiare trasportati su strada e ferrovia prodotti radioattivi senza adeguata sicurezza; i depositi come quello di Saluggia sfuggono a controlli trasparenti; la Sogin si rivela sempre meno affidabile per i compiti di decomissioning dei reattori; ENEL continua una politica di consolidamento nel nucleare in Europa. Per di più, gli arsenali militari con le bombe B1di Aviano e Ghedi – certo non direttamente interessati dall’esito referendario – costituiscono tuttavia un elemento di rischio che, in caso di incidente anche solo per errore umano, non sarebbe minimamente contemplato da procedure di emergenza e contenimento. (si veda a proposito di questi aspetti il Quaderno sul nucleare scaricabile dal sito www.energiafelice.it e il libro di Hessel, la cui recensione appare in questo numero della rivista).
Quindi sono molte le questioni ancora aperte, ma, in compenso, la campagna antinucleare ha suggerito in alternativa un modello dell’offerta elettrica e del consumo energetico in generale in netta discontinuità con quello che domina dalla rivoluzione industriale. Il carattere territoriale di questo modello, il ricorso a fonti naturali, l’aspetto cooperativo che esso suggerisce e conforta, l’integrazione nei cicli ambientali, avvicinano l’energia ai beni comuni, la rendono contigua all’acqua, ne sottolineano l’aspetto qualitativo anziché quantitativo, il suo rapporto con la vita e la morte, la sua complementarietà agli altri elementi empedoclei.
In Italia dal 2011 ad oggi ben 3145 Comuni – piccole e grandi città – hanno aderito al “Patto dei Sindaci” presentando Piani energetici territoriali in funzione della riduzione delle emissioni di CO2 (i PAES) che costituiscono il contributo dal basso al Piano energetico Nazionale ed Europeo. Nella totale mancanza di ascolto da parte della politica, tutta presa ancora dalla geopolitica del gas e ammaliata dalla opportunità di costruire fuori d’Italia reattori di non so più quale generazione.
L’elaborazione dei PAES significa un ribollire di ricerche sul proprio territorio, di bilanci di consumo degli edifici e di razionalizzazione dei trasporti, di regolamenti comunali che modificano i piani regolatori, di committenze agli istituti i ricerca, di rapporti con le industrie locali da riconvertire o efficientare, di intreccio con le associazioni e, spesso, con il sindacato locale.
Ci sarebbe tutto lo spazio perché su questi tratti – in fondo convergenti – si componga il futuro dei movimenti per i beni comuni, rimasti per ora troppo autoreferenziali e monotematici, incapaci di cogliere tutte le implicazioni del credito che la natura esige dalla nostra specie. È questo un contesto più favorevole in cui io credo che il soggetto lavoro, così negletto in questi anni di centralità dell’impresa, riconquisterebbe uno spazio di cittadinanza che gli è precluso nell’arena della pura competizione liberista.
3. Movimenti in trasformazione ma non convergenti
La crisi dei movimenti che hanno ispirato i referendum del 2011 non riguarda solo la loro perdita di rilevanza, ma è dovuta anche – e lo dico con una dose di giustificato ottimismo – alla trasformazione che subiscono alla ricerca di un loro consolidamento e che li rende, almeno per ora, meno visibili nel contesto imposto dalla insistente riduzione dei diritti di rappresentanza. I movimenti che si estendono in tutti i continenti costituiscono ormai sempre più forme di ribellioni senza leader, in una società che si percepisce e rappresenta in ogni momento dentro un tempo scandito e strutturato, dentro “una catena di montaggio mobile”, dalla quale non puoi staccarti e in cui le tue priorità vengono cancellate o sacrificate ad una scala di “valori” decisa altrove.
In qualsiasi movimento si prenda in considerazione, non ci sono più capi distinguibili, ma un’urgenza dei tempi entro cui agire collettivamente. Si rimane “connessi” virtualmente e ci si incontra fisicamente in luoghi e manifestazioni diverse, possibilmente concomitanti, che traducono nei linguaggi dei territori la lingua comune. Questo rende i movimenti più visibili a livello locale e più facilmente occultabili a livello centrale. Oltretutto, l’obiettivo dei media conservatori e liberali sta cercando di distogliere l’attenzione dalle vere cause delle proteste della maggioranza contro la minoranza per dare ad essa, appena possibile, un connotato etnico o religioso o affibbiargli un giudizio di marginalità. Invece la ribellione, pur articolata, si riconosce nella mancanza di democrazia ed unisce lungo la stessa faglia contenuti tra loro differenti. Il potere non sa immaginare cosa stia accadendo e la sinistra, purtroppo, ha perso prestigio politico nelle masse.
Il luogo del potere è vuoto e il processo elettorale che fornisce legittimità al potere viene impedito o svuotato nella sua accezione universale di “una testa un voto”. Perciò la tenuta dei movimenti si affida sempre più alla democrazia diretta; i loro obiettivi perdono visibilità, ma non senso, nei luoghi di governo e la loro voce si affievolisce e un poco si confonde ad ogni appuntamento elettorale.
Fa eccezione la lista Tsipras per un’altra Europa, la cui vera novità credo stia nell’attribuire al pluralismo di culture appartenenti ai movimenti di questi anni la chiave per indicare una alternativa anche nello spazio della democrazia delegata e nel rilancio di una politica dove si identificano e combattono ancora nemici e non solo “avversari” complici l’uno dell’altro. Purtroppo il processo innescato da questa novità politica è ancora immaturo, richiederà tempi ben oltre le scadenze del voto di Maggio e non solo opposizione, ma progetto alternativo e praticabile. Soprattutto obiettivi che aggreghino il campo delle lotte già aperte oltre la ritualità di slogan un po’ scontati. Come potrebbe dimostrare – ai fini del tema che sto trattando – la debolezza e la ritualità del programma della lista Tsipra su acqua, energia, terra e clima. In fondo non si tiene quasi conto che oltre due milioni di cittadini europei hanno firmato per l’acqua pubblica e che tutta la storia dell’UE, anche quando si definiva Comunità, passa da progetti comuni per l’energia, prima fossile, poi nucleare, ora rinnovabile. Spero che già la campagna elettorale in corso si occupi di rimediare a queste lacune.
L’esperienza del referendum per la difesa dell’acqua dalle privatizzazioni e la stessa diffusione delle tematiche dell’energia, del cibo, del non consumo di suolo, confermano come questa lotta sia possibile, cogliendo le ragioni di fondo e le condizioni cognitive che hanno permesso una così larga partecipazione. Quindi, non ignorando le contraddizioni ed il lavoro che va proseguito. Si deve lavorare per un progetto e non per “campagne” e la democrazia è parte essenziale del progetto. Questa sembra, o almeno dovrebbe essere a mio giudizio, la cifra dei movimenti per i beni comuni nella fase attuale.
4. Una strategia unitaria per la difesa dei beni comuni
Lo scontro per la difesa dei beni comuni e per i beni che garantiscono, o possono garantire a chi non può usufruirne, una esistenza degna (quindi anche un lavoro degno) è ormai in corso, ma avrà efficacia piena quando verranno superati i confini settoriali di cui soffre ogni parte che si confina in rivendicazioni slegate o poco comunicanti tra di loro. Lo sviluppo sostenibile e la “greeneconomy” sono un tentativo per mantenere in vita un modello capitalistico in crisi per deficit di realizzo a fronte di una offerta di merci che non trova una domanda adeguata per i limiti posti dalla natura e, quando si vogliono superare questi limiti, il rendimento delle attività economiche è decrescente. Allora, forse, è soprattutto una operazione ideologica che copre il sequestro di bacini e giacimenti idrici da parte di multinazionali, l’acquisto delle terre di alcuni continenti per destinare le nuove produzioni alle economie ricche, l’estrazione e impiego di risorse energetiche e non rinnovabili molto sporche e cancerogene (es. shale oils and gas), la riduzione dei salari, la riduzione delle prestazioni dello stato sociale, l’abbandono delle manutenzioni di quanto le comunità umane hanno realizzato.
Il limite delle risorse naturali e l’impossibilità di utilizzare a proprio piacimento le risorse umane ha determinato quel processo di crisi che oggi viene definito “decrescita”. Negli anni ’60 e ’70 è iniziato un processo rallentato con una permanente crisi fiscale dello Stato, poi con la crescita del debito privato, ed ora è decrescita per tutti, ad eccezione di chi possiede molto denaro.
Un processo di questo tipo può avanzare solo in condizioni di democrazia decrescente e la riduzione a merci delle risorse indispensabili agli esseri viventi, non solo umani, si inscrive in questo contesto.
Si è tentato in ogni modo di sequestrare l’informazione e di esorcizzare il dibattito sui referendum del 2011 nello scellerato tentativo di sottrarre ai cittadini la più cogente e costruttiva opzione sul futuro che l’agenda politico-sociale abbia riservato negli ultimi anni agli elettori. Purtroppo il tempo sottratto alla discussione nell’ansia – più che necessaria – di ottenere il quorum, ci ha impoveriti di una riflessione e di una maturazione collettiva sullo spostamento dell’attenzione dall’economia alla vita. Invece, partendo indipendentemente dal rifiuto della privatizzazione dell’acqua e dal rigetto definitivo del nucleare e utilizzando il confronto pubblico come un’esperienza civile insostituibile, sarebbe potuta crescere una lettura coerente sul saccheggio passato e futuro, che ha condotto alla rarefazione delle risorse necessarie e indispensabili a vivere, alla mercificazione e monetizzazione di ogni forma di vita e salute, alla privatizzazione delle decisioni pubbliche relative alla valorizzazione e uso dei beni e dei servizi comuni. Ma non ci è stata data la possibilità di una discussione limpida e il concetto ormai corrotto di riforme si è concentrato su una governabilità che disprezza il pluralismo sociale. Si è così volutamente indebolita quella funzione di spartiacque discriminante tra due concezioni opposte che l’istituto del referendum sa svolgere positivamente nelle fasi storiche, come è avvenuto ad esempio ai tempi del divorzio e dell’aborto. Perché di vera discriminante si tratta e i casi dell’energia e dell’acqua sono tra i più emblematici e di rilevanza strategica per il divenire delle società umane e della biosfera che caratterizza il pianeta.
I movimenti dopo il 2011supereranno la loro fase di impasse se perseguiranno insieme la necessità di una condivisione dello spazio e del tempo tra uomo e natura, la constatazione dell’incompatibilità tra giustizia sociale e spreco dei beni comuni, stringendo così nucleare e acqua dentro un’unica interpretazione.
Scegliere tra sole e atomo comporta un cambio nella scala dei tempi, una riconquista di una dimensione non distruttiva del nostro rapporto con la natura, che favorisce la ricerca di produzioni socialmente desiderabili, la creazione di occupazione e lavoro stabili, in riequilibrio finalmente con l’eccesso di schiavi meccanici forniti dai fossili e dal nucleare ad un carissimo prezzo. Come potremmo allora riconquistare l’acqua pubblica, senza tener conto della cogenza della crisi climatica, del consumo dell'”oro blu” per tradurre il calore della combustione dei fossili e della fissione dell’uranio in consumi innaturali, senza chiarire che, se la sosteniamo col consenso popolare, siamo alla più grande svolta di politica economica dopo lo sconquasso liberista, che prevede il ritorno nel campo dei beni comuni del sole e dell’acqua, due fonti di vita, accanto alla terra, di giustizia climatica e sociale, di lavoro qualificato e di occupazione dignitosa? E in quanto al lavoro e al sindacato occorre dire che in gioco con la questione climatica sono in gioco due modi di rapportarsi con la Terra e le sue risorse limitate e la possibilità di optare ancora per la piena occupazione.
5. Boff e le riforme per entrare nell’era “ecozoica”
Un nuovo rapporto dell’IPCC, uscito in queste settimane, invita la comunità internazionale a sviluppare nuove strategie per far fronte ai cambiamenti climatici. Non si tratta più di prevenire il riscaldamento, dato il ritardo incolmabile al riguardo, ma addirittura di adattare comportamenti, produzioni, consumi e relazioni sociali a mutamenti irreversibili e diversi da regione a regione del pianeta. Se si vuole, potrebbe essere che perfino le risorse per prevenire catastrofi locali non siano accessibili ai singoli Paesi del mondo, ma debbano essere concordate in sedi internazionali per evitare tracolli di intere economie con ripercussioni inevitabili anche sulle più ricche, che hanno delocalizzato e speculato sul lavoro al costo più basso Si tratta di una novità almeno pari a quella introdotta dalle trasformazioni nel mondo dell’economia, dell’impresa e dello sfruttamento del lavoro, che hanno prodotto la crescita e grandi ingiustizie con effetti fuori di controllo. La giustizia climatica si allea ormai a quella sociale e rigetta in egual misura lo spreco sociale e quello naturale a cui è giunto il capitalismo globalizzato. Eppure, il messaggio dell’IPCC è passato inascoltato anche da parte di quei paesi e di quelle forze – come la sinistra nel nostro Paese e in Europa – che dovrebbero lottare perché si assumano le proprie responsabilità ambientali.
Leonardo Boff sostiene che l’era che “tecnozoica” ha obnubilato le menti di destra e di sinistra, distraendole dalla necessità di passare ad un’era nuova che lui definisce “ecozoica”.
Boff afferma che nella dimensione dell’era tecnozoica si utilizzano potenti strumenti, inventati negli ultimi secoli, la tecno-scienza, con la quale si sfruttano in forma sistematica e sempre più veloce tutte le risorse, specialmente a beneficio di una minoranza mondiale, lasciando ai margini gran parte dell’umanità. Così, tutta la Terra è stata occupata e sfruttata ed è diventata satura di elementi tossici, chimici e gas serra al punto di perdere la sua capacità di metabolizzarli. Perciò occorre transitare verso l’era “ecozoica”, per considerare la Terra nella sua evoluzione che dura da oltre 13 miliardi di anni oltre 13 miliardi di anni per arrivare all’autocoscienza umana per la quale ci sentiamo parte del Tutto e responsabili del Pianeta. Il futuro – secondo Boff – si gioca tra quelli che sono compromessi con l’era tecnozoica e con i rischi che comporta e quelli che hanno aderito all’era ecozoica e lottano per mantenere i ritmi della Terra, producono e consumano dentro i suoi limiti e pongono la persistenza e il benessere umano e della comunità terrestre come il loro principale interesse. Questo è il contesto entro cui si inserisce la lotta e la crescita degli stessi movimenti che hanno sostenuto con successo i referendum del 2011.
Ben altre sono quindi le riforme necessarie oggi, sul terreno della democrazia, dell’economia, della politica fiscale: e si capisce perché Renzi voglia imporre invece la versione beceramente riduttiva che sembrerebbe spopolare. Occorre che i singoli movimenti reclamino cambiamenti strategici e strutturali e che lo facciano con visioni tra loro sempre più complementari e all’altezza di una visione non marginale della società dei beni comuni. Solo così le loro attuali difficoltà saranno un segno di crisi di crescita e passeggera.
Questo articolo è stato pubblicato da Inchiesta Online il 12 maggio 2014 e da Alternative per il socialismo sul numero di aprile 2014

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