di Giuseppe Scandurra
“Non ci vado a votare”, gli ho detto quando mi ha chiesto se avevo intenzione di esprimermi circa il segretario del Partito Democratico. “Almeno da questo punto di vista mi sento un essere umano risolto. Non è mai stato il mio partito, non lo è e non lo sarà”, ho concluso. “Ma non hai votato Bersani alle scorse primarie?”, mi ha ricordato. “Adesso devo tornare a casa”, l’ho salutato.
Non ho votato, ce l’ho fatta alla fine. Di conseguenza, per una volta, in questi venti anni di diritto al voto, non ho perso. Eppure, la sera dell’elezione del segretario del Pd, quel senso di irresolutezza rimaneva.
Negli ultimi anni mi sono spesso depresso guardando i programmi televisivi di stato. Snobisticamente, mi è capitato di ritrovare alcuni compagni e compagne guardando assieme il Festival di Sanremo. Tutti con occhi etnologici, gli occhiali di velluto come quando gli antropologi andavano in missione con i pantaloncini bianchi a studiare le differenze culturali. Sinceramente, debbo ammettere che mi intristisco pensando a queste rimpatriate snobistiche; ciò che però mi deprimeva di più anche in quelle serate era (una persecuzione allora!) proprio il momento del voto.
Ci sono due cantanti in gara. Fino a quando vota una giuria di tecnici o di musicisti vince il più bravo. Poi, però, arriva sempre il momento in cui è chiamato ad esprimersi il pubblico, la “gente” manzoniana. Che succede? Succede sempre che vince un Renzi. Quel momento in cui il conduttore si appella al voto della “gente” l’ho tenuto sempre in mente in questi ultimi anni: esattamente in quel momento si realizzava la fine delle competenze, l’irruzione nel mondo reale dell’imbecillità umana, la scomparsa dell’utopia comunista dell’autonomia.
Negli ultimi tempi ho pensato anche che l’abito snob che io e altri compagni e compagne abbiamo costruito su noi stessi costituisca una maschera difensiva. Abbiamo lottato in tutti i modi per impedire che la “gente” votasse, che si arrivasse a Renzi. Abbiamo monopolizzato la produzione culturale dell’intero Paese per impedirlo; ma non si trattava di sola strategia difensiva. Il nostro snobismo è stato un tempo anche pedagogico. Mentre costruivamo la barricata, penso al mondo dell’università per esempio, pensavamo anche a istruire quella “gente”, a formarla. Un giorno, questo era l’obiettivo, avrebbe dovuto essere autonoma da noi. La difesa di alcune forme di cooptazione fu anche la difesa di alcune scuole, di un processo di trasmissione del pensiero critico e mai eterodiretto. Bisognava impedire a essere umani come Monti o Brunetta di diventare docenti. Bisognava impedire che Einaudi pubblicasse Susanna Tamaro; che Povia andasse su Rai Tre al posto di Fabrizio de Andrè.
L’apologia dello snobismo non ci ha salvati, questo è evidente. Anzi, dentro la barricata siamo diventati autoreferenziali, una comunità chiusa, dunque conservativa, costretta alla miopia come tutti quelli che lottano senza tregua non avendo tempo per elaborare alcuna strategia. La lucidità è venuta a mancare quando, a mio parere, non ci si è ricordati più che non stavamo lottando contro la “gente”, ma a suo favore; il conflitto doveva essere agito contro coloro i quali stavano convincendo la “gente”, all’opposto, a votare incompetenti dentro le Università pubbliche, incompetenti dentro il Parlamento, incompetenti nei ruoli di Dirigenza della macchina produttiva. Uomini e donne la cui unica intelligenza (vedi Monti) era quella di essere efficaci e affidabili nel servire un Padrone. La lucidità forse è venuta meno quando ci siamo scordati che tra i nostri nemici c’erano anche che quelli che erano usciti di nascosto dalla barricata, o i loro figli, i quali un futuro in trincea proprio non lo volevano.
Mi è capitato in passato di essere anche più ottimista. Come studioso di processi sociali e culturali mi dicevo che il voto della “gente” al Festival di Sanremo è pilotato; e allora non bisognava impedirlo, semmai capire come funziona, come fanno alcuni attori sociali a coalizzarsi per far vincer il cantante più funzionalmente incompetente. La sera dell’incoronazione del probabilissimo futuro Re d’Italia mi sono detto che il voto a Cuperlo non era il voto a quella sinistra che aveva rinunciato a lottare, la sinistra della conservazione; bensì era un voto strategico per impedire che vincesse il più incompetente. Mi sono detto che il voto a Civati non era il voto al terzo più grillino dei tre; ma piuttosto era un voto contro la sinistra conservativa. Questo dirmi è durato poco.
Renzi ha vinto esattamente come uomini come Profumo sono arrivati ai vertici dell’Università. La “gente” li ha votati, li ha stravotati perché li voleva. Non c’è dietrologia che tenga, non c’è alcun futuro strategico in quel voto. Cuperlo era conservativo e Civati solo un Renzi riuscito uomo. Tra la conservazione e un germe di umanità la “gente” ha preferito l’incompetenza funzionale.
Una volta ci dicevamo che stavamo attorno al 10% e occupavamo liberamente e felicemente Genova con idee diverse e abbastanza chiare. Poi siamo scomparsi grazie ai genitori di Renzi, quelli che facevano discorsi al Lingotto sulla gentilezza mentre bombardavano le nostre trincee. Successivamente, su “Il Manifesto” (quando ci scrivevano persone a noi vicine) comparivano articoli che ci ricordavano che mettendoci tutti insieme (per fortuna non pensavamo mica tutti nello stesso modo dentro la barricata) arrivavamo al 15%. Poi un uomo è diventato proprietario di un partito e lo abbiamo in parte seguito (su La7 qualcuno diceva che Sel aveva uno zoccolo duro sul 7 o 8%). Alla fine ci siamo raccontati anche l’ultima storia, quella per cui potevamo salvarci solo grazie al nemico apparentemente meno agguerrito; perché, ci raccontavamo, la base del Pd è sempre stata più a sinistra della sua rappresentanza (ecco il mio voto a Bersani). Erano tutte storielle di una trincea oramai assaltata. Appena si apriva il voto ritornava la “gente” e perdevano solo i nostri.
Oramai quei monopoli sono finiti. Non c’è fortino che tenga. Il pensiero dell’incompetenza funzionale domina tra i presidi delle scuole, tra i rettori dell’università pubblica, tra i direttori dei giornali. Abbiamo abbandonato tutto, siamo tornati nelle nostre case, e c’è rimasto solo un velleitario snobismo che ci fa ritrovare, ancora oggi, durante il Festival di Sanremo per ridere durante il voto della “gente”; ma è un ridere che, come dicono i cantanti incompetenti funzionali che vincono, è anche “un piangere un po’”.
L’unica novità di questi giorni è che la “gente” è scesa in piazza (e proprio nelle piazze dove costruivamo le nostre trincee); ed è scesa per tante e diverse ragioni che non conosciamo.
In un libro molto bello uscito negli anni ’90 un antropologo americano racconta come un gruppo di portoricani emigrati forzatamente a New York e vittime delle politiche neoliberiste statunitensi è solito, durante tristi pomeriggi pieni di smog, stuprare le proprie compagne. Ci dice, l’antropologo, che non c’è nessun motivo per cui dovremmo aspettarci la nostra “resistenza” da parte di queste persone. Loro la resistenza la esercitano violentando le loro compagne, anche loro vittime di quelle politiche, non lottando contro gli essere umani che quelle politiche le pensano e le realizzano.
Perché la “gente” è scesa in piazza? Ecco subito le risposte tautologiche di Revelli, lo scetticismo lucido di Bifo etc. Io non lo so. Faccio l’antropologo e se dovessi studiare questi processi mi servirebbero anni, finanziamenti che un’università statale non può darmi più, tempo che non ho più dovendo compilare quotidianamente moduli per autovalutarmi, come tante volte ha ricordato Matteuzzi su questo giornale on line. Dovrei partire forse da quello che è successo nelle curve, tra gli ultras, vedere l’onda lunga che ha portato alle attuali forche. Dovrei ritornare ad abitare in quelle periferie sempre più abbandonate, una volte “rosse”, operaie e oggi misteriosamente mondi del terziario (ma che cosa significa “terziario” vorrei chiedere al sindaco di Bologna Merola quando pensa alla Bolognina?).
Un po’ di lucidità per capire quando e perché abbiamo perso lucidità mi è rimasta però. Ciò è successo quando abbiamo considerato la “gente” un nemico, quando abbiamo ecceduto paternalisticamente nel proteggerla diventando autoreferenziali non ricordandoci più che i veri nemici erano altri, che l’esercito delle Larghe Intese si era ormai costruito anche se non ancora realizzato convincendo molti che uno specializzando semianalfabeta come Monti fosse il migliore dei professori.
Credo che sia il caso di riuscire da casa. Che brutte le nostre piazze in mani non nostre, certamente; e come occupano malamente quello spazio, e come parlano male i loro nuovi occupanti. Non abbiamo più tempo, più soldi, più autonomia per studiare questi nuovi territori e attori sociali, questo è vero. Però intanto scendiamo, vediamo, schifiamoci. A forza di perdere ci si stanca, ci si compiace anche un po’, si aspetta la pioggia per non piangere da soli. Il nemico non sono mai stati questi attori (i fascisti, gli ultras etc.). Tutt’altro, fascisti, ultras sono i forconi più politicizzati nel senso migliore di questo ritorno al Medioevo. Il nemico è quello che si appresta a diventare Re dopo un lunghissimo lavoro affinché questo potesse succedere.
Io scendo.
Poi vi dico.