Le piazze della Liberazione sono state più grandi e combattive del solito per due elementi: la questione palestinese e gli atteggiamenti del governo Meloni. Ma segnalano la distanza tra questa voglia di resistenza e l’attuale sinistra politica
Un 25 aprile più grande del solito, più forte del solito e anche più a sinistra del solito. Questo è il quadro che si ricava raccogliendo informazioni dalle varie città, soprattutto Roma e Milano, partecipando agli eventi, giudicando anche le tante reazioni scomposte contro le piazze. Un 25 aprile più combattivo in virtù di due elementi: la questione palestinese e gli atteggiamenti del governo Meloni.
La questione palestinese ha dominato la giornata. Sull’onda di quanto accade a Gaza, sui numeri, le immagini e l’inesorabilità del massacro dei palestinesi che si sta compiendo nella Striscia, il grido di sostegno non tanto alla lotta di liberazione palestinese, ma a quella per la vita qui e ora, si potrebbe dire, ha pervaso la giornata. Ed è incredibile la cecità, la malafede e la strumentalità con cui si continua a commentare, sui quotidiani più importanti e soprattutto nei talk show televisivi, quanto accade nelle piazze. L’assonanza tra il 25 aprile italiano e le manifestazioni delle università statunitensi dovrebbe essere sufficiente per far capire che c’è un’immedesimazione «morale» tra buona parte della gioventù occidentale e la sofferenza dei palestinesi. Che non ha pari rispetto ad altre sofferenze e altri conflitti anche perché assurta a simbolo.
È un simbolo perché dura da troppi decenni, perché la sproporzione delle forze è indescrivibile, la portata dell’ingiustizia troppo profonda, così come è profonda la frustrazione che provoca. Qualcuno rimprovera la fascia di giovani e studenti che si mobilitano appassionatamente per la causa palestinese di non fare altrettanto, ad esempio, per l’Ucraina. Ma il conflitto israelo-palestinese è un simbolo scelto sull’onda di una rivolta morale. Quest’immedesimazione è la stessa che induce ad accogliere la parola «genocidio» per descrivere il massacro in corso. Si può certamente discutere se il termine – ritenuto plausibile anche dalla Corte internazionale di giustizia – sia adeguato sul piano storico e giuridico, ma questa è materia di concorsi. Oggi, nelle piazze, nelle aule universitarie o nelle scuole, genocidio è l’unico termine che riesce a rendere quella sproporzione e descrivere quella frustrazione.
Se la Palestina diventa un simbolo di lotta giusta, contro un’occupazione profondamente ingiusta, e violenta, di matrice coloniale, è ovvio che Israele sia sul banco degli imputati. Paragonare Israele ai nazisti è certamente sbagliato, così come andrebbero tenuti chiaramente distinti il sionismo e il fascismo, due fenomeni che non occorre mescolare. Ma Israele è chiaramente il responsabile di una situazione di cui Hamas è il prodotto non la causa. L’occupazione dura dal 1967, le cause del conflitto sono anche precedenti, la colonizzazione dei Territori occupati è inesorabile, gli omicidi, le bombe, la sottomissione di un altro popolo è troppo evidente per scagliarsi contro i manifestanti del 25 aprile. E il modo in cui, ancora una volta, la comunità ebraica, ha importato il conflitto che si sta svolgendo a Gaza, nella piazza romana – lo aveva fatto già all’inizio degli anni 2000 quando si scontrò con il movimento dei Social forum riunito in uno stabile del quartiere ebraico di Roma – è chiaramente il figlio di questa irriducibilità. Altro che antisemitismo, mai apparso, se non in forme episodiche e folkloriche, nelle tante manifestazioni internazionali.
Il filo di congiunzione con la Liberazione, allora, è del tutto comprensibile: anche qui, oltre a un giudizio politico, a un’adeguata ricostruzione storica, c’è un dato morale: la Resistenza è parte del nostro essere al mondo, del nostro modo di giudicare le ragioni e i torti, prescinde dalla stessa politica, costituisce non solo un pavimento costituzionale su cui è eretta la Repubblica, ma anche una base etica e morale per concepire la dialettica politica. Fuori da quei valori c’è solo l’estrema inimicizia, l’avversario politico è giustamente il «nemico», per usare Carl Schmitt, e la contrapposizione non può quindi essere convenzionale.
Un 25 aprile quindi dalla parte dei palestinesi per ragioni strutturali, assurdo indignarsi, come fanno tanti sedicenti liberali che si inalberano perché la più grande festa laica d’Italia «è stata consegnata alla resistenza palestinese». L’accusa di essere in piazza «al fianco di Hamas» è tanto stupida quanto criminale sul piano politico e strumentale su quello ideologico e della propaganda. Certo, ci sono state in piazza strumentalità contrarie, spesso di qualche gruppo organizzato in cerca di visibilità. Ma questo è facilmente documentabile e denunciabile, non si può estendere l’impatto negativo a chiunque.
Per questo occorre sottolineare la forza di questo 25 aprile. Milano ha visto una delle manifestazioni più importanti, non grande come quella del 1994, la prima contro Silvio Berlusconi e il suo «sdoganamento» dei fascisti, ma certamente potente. L’indicazione data dal manifesto di convergere lì non ha avuto la forza di trent’anni fa, ma città e regione hanno certamente accolto l’invito. Con la sua composizione di sinistra diffusa, sicuramente con una presenza rilevante di organizzazioni come la Cgil, ma per il resto poco segnata da forze organizzate e invece da migliaia e migliaia di persone sparse, ma unite da quella forza morale e con la novità di una composizione studentesca che vede, in quel contesto sociale, anche la presenza delle seconde generazioni per cui la Palestina è un simbolo ancora più forte.
A spiegare il sussulto della giornata c’è anche la questione Meloni e «il contrario dell’antifascismo» come scrive magistralmente Luca Casarotti. Quest’anno lo scarto tra parole non dette e contesto politico si è sentito risuonare più forte e il «caso Scurati», il clamore che ha generato, lo ha nuovamente ratificato. Lo scrittore ha letto il suo monologo anche in piazza Duomo e, va detto, nonostante la santificazione eccessiva dell’uomo e del caso che lo rappresenta prodotta da alcuni giornali e da giornalisti progressisti onnipresenti in tv, il discorso di Scurati è asciutto ed efficace nel suo rigore logico. Sul palco di Milano è sembrato ancora più significativo, forse anche perché per la prima volta è stato letto dal proprio autore.
Sul fascismo e il rifiuto di aderire all’antifascismo il governo Meloni continua però a compattare il mondo di sinistra. Logico che sia così, proprio per la dimensione morale, oltre che politica, della vicenda. Sulle ragioni del gruppo dirigente di Fratelli d’Italia di ostinarsi a rimanere asserragliato nella propria identità storica hanno scritto in molti, ma vale la pena riprendere una recente riflessione di Miguel Gotor dalle pagine di Repubblica. Meloni e i suoi «fratelli» associano l’antifascismo più agli anni Settanta che al ventennio prima della Seconda guerra mondiale. Per loro evocare l’antifascismo significa evocare i propri «nemici» storici – non a caso in una trasmissione televisiva una giornalista del Secolo d’ITalia ha evocato Lotta Continua, che la maggior parte dei giovani che oggi scendono in piazza non conosce nemmeno – e approvare l’antifascismo significa quindi abiurare al proprio percorso. Ma se oggi un pericolo fascista come quello del 1922 non esiste e i rischi di autoritarismo assumono sembianze del tutto diverse e generano equilibri sociali e politici non catalogabili nel quadro di una determinata esperienza storica, è anche vero che finché ci saranno componenti importanti che rifiutano il valore dell’antifascismo la dialettica politica resterà inquinata e il pericolo di derive estreme e inaccettabili sarà sempre presente.
Questo è quello che ha dato maggior spinta al 25 aprile, insieme alla questione palestinese come sottolineato. Lo si vede in un corteo, poco raccontato dalla stampa, tutta, e ovviamente dai Tg, ma che ormai è una tradizione romana e che ieri, tra Centocelle e il Quarticciolo, ha visto sfilare circa 10 mila persone. Una composizione di sinistra sociale diffusa, senza appartenenze esibite, spezzoni organizzati, striscioni ripetuti. Una sinistra romana, non rassegnata, desiderosa di mostrarsi ancora, di esserci e soprattutto di ribadire la forza di questa giornata, con un corteo lungo, popolare, sfociato in una festa musicale nel parco di quartiere, sede di una delle esperienze sociali, Quarticciolo ribelle, più radicate e mutualistiche di Roma.
Un 25 aprile come giornata evocatrice di una voglia di valori forti, di sinistra coerente e di battaglie portate fino in fondo. Questo il messaggio. Che incontra, al contrario, una sinistra, o pseudo-tale, se ci riferiamo al Pd, che invece conduce battaglie deboli, incarna valori ambigui e non sa condurre le proprie battaglie. Questo scarto si è visto anche nelle piazze della Liberazione e non a caso le varie forze di sinistra non hanno occupato il centro della scena. Le preoccupazioni elettorali al momento rivestono un ruolo dirimente e quindi si riflettono anche sui comportamenti. Le scelte dei candidati e delle candidate non ha finora appassionato molto la sensibilità di questa sinistra non rassegnata, fatta eccezione forse per alcune scelte di Alleanza Verdi e Sinistra che, in particolare con Ilaria Salis, ma anche Mimmo Lucano o Christian Raimo, sembrano sintonizzarsi con gli umori prevalenti, pur tenendosi dentro uno schema elettoralista, senza ricadute reali nelle mobilitazioni. Quello che si staglia nel cielo del 25 aprile è, però, soprattutto la distanza o forse la giustapposizione tra una voglia di sinistra, di resistenza, di coerenza e determinazione, e la sinistra politica che c’è, ancora lontana da tutto questo.
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin il 26 aprile 2024