di Noemi Pulvirenti
Ci sono degli uomini e delle donne che nascono con qualcosa in più, con la volontà di cambiare il mondo e di ricercare la verità. Parlare di mafia in Sicilia negli anni ’70 non era semplice e d’altronde non lo è tuttora, perché la mafia è come la colla vinilica, una melma che si attacca e che vuole diventare invisibile. Invece la traccia la lascia ed è visibile per chi la vuole vedere.
Tutti noi conosciamo la vicenda di Peppino. Nel documentario La voce di Impastato, il regista friulano Ivan Vadori ha ripercorso quei fatti ma, soprattutto, ha voluto perpetuare il ricordo di chi in Sicilia aveva una voce e non aveva paura di farla sentire a tutta Cinisi. E che per questo ha pagato con la vita.
Attraverso le parole del fratello di Peppino, di magistrati, di giornalisti e di sociologi, si discute non solo della vicenda di quel tragico 9 maggio del 1978 ma si parla anche di attualità, della trattativa stato-mafia, delle logiche che sussistono nell’organizzazione. Ogni intervistato aggiunge un tassello per costruire un quadro completo e ben costruito.
Colpiscono le parole di Giovanni, il fratello, quando racconta di quanto sia stato doloroso per la loro famiglia associare alla figura di Peppino quella del terrorista. Passano sei anni dalla sua morte prima che venga riconosciuta la matrice mafiosa del delitto, questo grazie alla figura di Rocco Chinnici. Soltanto nel 2001 Vito Palazzolo e il mandante “Tano seduto” – come veniva chiamato da Peppino – e conosciuto come Gaetano Badalamenti vengono condannati rispettivamente a trent’anni di reclusione e all’ergastolo.
Il documentario è un ulteriore approfondimento del regista sul tema, che già l’anno scorso aveva affrontato l’argomento con “Radio Aut. Grido di legalità nell’era web 2.0”. La realizzazione di “La voce di Peppino Impastato” è stata possibile grazie al metodo americano del crowdfunding, che permette ai registi indipendenti di ottenere delle donazioni e di poter sopperire alle spese di produzione.
La mafia oggi è presente al sud quanto al nord. E non è soltanto colpa dei boss, dei padrini, o dei boss dei boss. Il problema siamo anche noi e tutti quelli che cadono in questa ragnatela gettando fango sull’impegno delle persone che continuano a lottare per farci vivere in un paese senza mafie.