Nell’ambito della petizione a sostegno alla candidatura di Stefano Rodotà alla presidenza della Repubblica, proponiamo questa intervista uscita su Pubblico il 12 novembre 2011.
Entri a casa di Stefano Rodotà e lo trovi con la copia staffetta del libro che in questi mesi ha accudito come un figlio: Il diritto di avere diritti. Rodotà racconta che si è chiuso in casa per quattro mesi e ha intrecciato nella scrittura tutti i percorsi della sua battaglia culturale di questi ultimi anni. «Sono tornato a parlare dei problemi che mi tormentano da una vita. Ho letto l’intervista della Rossanda, capisco quando dice: “Io non farò in tempo a vedere la nuova sinistra”. Io sono più ottimista, vado nelle scuole, frequento i movimenti, ho incontrato diecimila ragazzi, e penso che c’è anche in questi tempi un po’ incerti, un grande fatto planetario che si sostanzia nella lotta per i diritti».
Facciamo degli esempi.
Il primo che mi viene in mente sono le donne indiane che si escono dall’isolamento della famiglia patriarcale grazie ai cellulari. Perché parlano e discutono con altre donne grazie al telefonino. Un altro esempio. Dai lavoratori di Pomigliano di cui ho parlato, ai cinesi di Foxconn alle donne del Kenya che si fanno frustare per difendere la loro scelta di vestirsi come vogliono, il minimo comune denominatore è uno solo: il diritto, come dimensione della consapevolezza e come obiettivo di una battaglia di liberazione. Altro che questioni formali.
A Pomigliano ci sono le cause contro la Fiat.
Certo. E c’è anche la richiesta di una legge per la rappresentanza sindacale. La Fiom fa questa battaglia anche a costo di mettere in gioco il suo potere di organizzazione strutturata. Ma capisce che questa battaglia sui diritti è la frontiera che le permette di mantenere una rappresentanza forte anche in un momento di scontro durissimo. In un momento di crisi di legittimità di tutte le rappresentanze.
Ma i diritti non dovrebbero essere anche la bandiera di chi è semplicemente liberale?
In linea di principio, certo. Ma io con il passare degli anni non sono diventato più radicale su questo punto. Senza l’uguaglianza, senza quel capolavoro che nella Costituzione è rappresentato dall’articolo 3, i diritti non ci sono. Mentre oggi rischiamo di tornare ad una forma di cittadinanza censitaria, come nell’Ottocento. Si racconta in giro che sono morte tutte le ideologie, è rimasta in piedi solo quella del mercato.
Anche gli studenti che scendono in piazza in questi giorni, lo fanno perché vogliono difendere il loro diritto al futuro.
I movimenti in questi anni sono stati per molti importanti settori di società, l’unico spazio possibile. I partiti si sono rinchiusi nelle loro fortezze. Hanno cessato i contatti. I sindacati hanno mantenuto, in alcuni casi bene, come la Fiom, in altri meno bene, un contatto con queste realtà. I partiti, invece, spesso sono diventati del tutto autoreferenziali.
Gli scontri di via Arenula, sono avvenuti ad un passo da casa tua.
Fra il 1979 e il 1983 siamo usciti dal Parlamento decine di volte chiamati di qua e di là. Anche questa è una funzione fondamentale di chi è nelle istituzioni. Andare in un corteo, mediare con le forze dell’ordine, impedire che la situazione precipiti.
Perché i rappresentanti del centrosinistra in parlamento, questo non riescono a farlo più?
Io ho provato a chiederlo ad alcuni che conosco, perché non vanno a mediare. Mi hanno risposto: perché noi non riusciamo a farlo. Noi questi con gli scudi non sappiamo chi siano. Come si fa, a mediare se non sai chi sono?
Insomma i partiti non sono più quelli di una volta?
Infatti. Quando dopo l’esperienza dell’Authority sono tornato all’attività politica nel 2005 ho scelto di impegnarmi in quella che io chiamo l’altra politica. Nella società, fuori dai partiti. Fino alle battaglie sui referendum per i beni comuni.
Che cos’erano per te i partiti, visto che sei stato un compagno di strada del Pci senza mai iscriverti?
Te lo devo raccontare con un aneddoto sul decreto di San Valentino…
Certo.
Nel 1984 decidemmo di batterci con l’ostruzionismo contro quel decreto, che per noi cancellava un diritto. E farlo comportò un sforzo enorme per tutti noi. Dopo anni in cui talvolta ci eravamo divisi, su molte scelte e molti voti, tornavamo a combattere con i compagni del Pci – il capogruppo era Giorgio Napolitano – e con l’arma dell’ostruzionismo parlamentare contro il decreto di Craxi.
Era ancora il tempo delle sedute giorno e notte…
Si lavorava molto più di ora. Dormivamo in Transatlantico. Ricordo che si sorteggiavano gli interventi e l’ordine. E che capitò a Natalia Ginzburg di dover parlare alle due di notte.
E allora?
Natalia era già tutta acciaccata. Combatteva contro il cancro. Io ero il capogruppo, c’erano giorni in cui dovevamo sorreggerla io e Laura Balbo, per portarla dalla commmissione all’Aula, ma il suo rispetto per il Parlamento era tale che non si risparmiava nulla…
E quella sera parlò?
Se parlò? Lesse, nel cuore della notte, un intervento scritto, guarda caso sui diritti, che oggi sarebbe diventato un libro…
E…
E arrivò in conferenza dei capigruppo il ministro dei rapporti del Parlamento e disse: non ce la facciamo.
Gettavano la spugna.
Sì. Ma diceva anche: vogliamo che ci sia risparmiata l’aula, che il governo non sia umiliato.
Tu eri d’accordo.
Ma nemmeno per sogno. Napolitano accettò: “Si può fare”. Io invece gli dissi: “Capisco la tua preoccupazione. Ma in segno di rispetto, per i compagni, il governo deve venire in aula”.
E venne?
Certo. Ma qui arriva tuo padre. In questo clima mi telefonò e mi disse: è un successo troppo importante per non dirlo fuori.
Cioè fuori dal Parlamento?
Esatto. Fu convocato un comizio al Pantheon, chiamando le sezioni. Ma era pur sempre il Pci: con cinque, diecimila persone, mi trovai al fianco di Berlinguer a festeggiare questa vittoria parlamentare in mezzo al popolo. In quei giorni, in cui c’era il vincolo di presenza, Berlinguer venne anche a votare. Incontrò … che gli disse: Ma domani hai il comitato centrale, non dovevi venire a votare! E lui rispose, allargando le braccia: “Mi ha convocato Pochetti! Voleva dire che anche il segretario del partito era sottoposto alla disciplina del gruppo.
Perché mi dici tutto questo?
Per spiegarti che cosa era l’idea del Parlamento, che noi avevamo, e la religione della Costituzione che io ho trovato nelle sezioni del Pci. Nel 1979, quando io ero contro la legge Reale sull’ordine pubblico, che consideravo liberticida, il Pci era a favore. Ma mi invitavano a discutere. E molti militanti mi dicevano: “Ma se tu dici che è contro la Costituzione”.
Hai dovuto fare abiure per candidarti?
Nessuna. La telefonata che mi offriva di correre la ebbi da Luigi Berlinguer. Io, che volevo essere corretto gli dissi “Posso accettare solo a una condizione: parlare con Pecchioli che ha posizioni opposte alle mie”.
E ci parlasti?
Certo. Sai quando? Il 6 aprile del 1979. Sai perché me lo ricordo? Parlai con Pecchioli, che senza giri di parole mi disse: “Che tu sia in contrasto con noi sul tema dei diritti non è un problema. Se lo fossi stato sulla fermezza, sì.
E perché è importante la data?
Perché il giorno dopo ci furono gli arresti del 7 aprile, nell’area dell’autonomia e con Toni Negri, e io difesi in linea di principio quei diritti e contrastai in ogni sede il cosiddetto teorema Calogero.
In queste interviste, ricostruiamo sempre le biografie politiche per capire la storia: dove inizia la tua vicenda politica?
La prima immagine che dovrei tratteggiare è la mia casa. A Cosenza si svolse il congresso che segnò la fine del partito d’Azione. Mio padre era un umile insegnante di matematica, ma per casa nostra passavano uomini del calibro di Lombardi e Ugo La Malfa. E poi la città era segnata da due grandi personaggi: Mancini, socialista, e Sullo. Comizi in piazza, passione politica, polemiche. Cosenza era una capitale avanzata della sinistra.
Secondo fotogramma?
Roma, il lavoro nell’Ugi, l’Unione goliardica Italiana. Nel 1953 conosco Marco Pannella. E ci troviamo dalla stessa parte quando Togliatti scioglie la Cudi, per far confluire tra noi i giovani comunisti.
Molti temevano la colonizzazione?
E infatti l’accettazione o no di quella confluenza divenne una battaglia politica fra destra e sinistra in cui io e Marco scegliemmo la sinistra. Aneddotto: io ero presidente romano, e mi mandano a trattare due persone: Enzo Siciliano e Alberto Asor Rosa.
Ma il primo avvicinamento alla politica?
Anche questa è una storia da raccontare. Non so come dirlo: per tutti quelli che erano “democratici”come lo ero io allora – a sinistra ma non comunisti, intendo – il faro era il mondo di Pannunzio. Una volta scoperto che arrivava nelle edicole a mezzanotte era tale la febbre di leggere, che andavano a farcelo vendere di notte, per anticipare l’uscita della mattina.
E riesci ad avvicinarti a Il Mondo?
Oh sì, ma devo dirvi come. Eravamo dei ragazzi educati, forse timidi. Il mio migliore amico dell’epoca, insieme a Luigi Spaventa era Tullio De Mauro. Un giorno Elena Croce ci dice: “Andiamo al Mondo, vi presento Pannunzio”.
E lo fece?
Altroché! Ricordo che lui ci dava del lei, e ovviamente anche noi, parlò, e alla fine ci disse: “Se volete scrivere qualcosa fatelo”.
Da toccare i cielo con un dito?
Altroché. Scrissi il giorno stesso un articolo contro chi intendeva la mia facoltà, Giurisprudenza, come il luogo della mediocrità.
E lui cosa disse?
La leggenda voleva che il direttore de Il Mondo avesse cestinato e fatto riscrivere un articolo sui fratelli Cervi, che noi avevamo letto ed era meraviglioso, a Luigi Einaudi. Il dettaglio non irrilevante era che si trovava già al Colle.
E quindi?
Non ebbi il coraggio di chiamare. Mi chiedevo se sarebbe andato in pagina o no…. Puoi immaginare il mio stupore, quando, al solito acquisto notturno, scoprii che era in prima pagina! Mi iscrissi al primo partito radicale, quello che aveva come simbolo la minerva con il berretto frigio che aveva disegnato lo stesso Pannunzio.
Eravate un club elitario e illuminato.
Illuminato di sicuro. Erano gli anni in cui si facevano le nazionalizzazioni perché c’erano stati i grandi convegni degli amici de Il Mondo, gli articoli di ErnestoRossi… quanto al popolo, potrei farti sorridere.
Prego.
Ci mandarono a comiziare, a me e a Gianfranco Spadaccia, a Borgata Gordiani… E come andò? Benissimo. Non c’era nessuno. Stavamo in piedi su una sedia a chiederci se parlare o meno quando arrivò il colpo di grazia.
E cioè?
Un ragazzino romano, alto meno di un metro mi venne davanti, indicò il simbolo con il berretto frigio e mi disse balbettando: “E- e- e- ee.. c-c-c-chi sarebbe? C-c-cappuccetto rosso?”. Cose che per venti anni rinunci alla politica. E infatti così è stato.
Altra istantanea.
Una mattina del 1951 sono all’università. Ma prima devo dirti che siccome all’Ugi gestivano anche dei soldi per le attività ricreative, io avevo tagliato i fondi della squadra di rugby, perché praticamente era una scuola quadri del Msi…
E questo che c’entra?
Te lo spiego: siccome tutti temevano che mi trovassero e mi dessero una lezione, si convenne che una squadra composta da alcuni edili di San Lorenzo mi accompagnasse tutte le sere fino alla fermata. Poi, questi operai, capivano così bene le cose, che spesso finivo a cena a casa loro.
È questa l’immagine simbolo che ci vuoi raccontare?
No, questo è il clima che la spiega. C’era un professore, Umberto Calosso, che era stato esule sotto il regime, che tornava in cattedra dopo quello che era dovuto scappare a Parigi. Socialista, socialdemocratico. I fascisti dicevano che gli avrebbero impedito di entrare in Aula perché “Traditore della patria”.
Incredibile.
Ecco perché non mi dimentico questa immagine: c’è un signore, si trattava di Guido Calogero, che lo precede con un ombrello levato, per dire: “Badate, non ci facciamo intimidire!”. Vicino a quel signore c’era Lucio Lombardo Radice.
Che cosa era per te quella sinistra, essere di sinistra?
La stessa cosa per cui sono e mi considero di sinistra oggi. L’idea dei diritti e l’idea dell’uguaglianza. Sono cambiate molte cose, nel mondo, ma non questo punto di partenza, per me.