di Mauro De Vincentiis
Dal 1932 al 1945, a Forte Bravetta, una delle fortificazioni militari, su un terrapieno all’interno di Roma, furono eseguite le condanne a morte. I casi presi in esame dall’autore, Augusto Pompeo (titolare della cattedra di Archivistica Contemporanea presso la Scuola dell’Archivio di Stato di Roma), nel suo libro Forte Bravetta. Una fabbrica di morte dal fascismo al primo dopoguerra sono 130: cinquanta fino all’8 settembre 1943, su sentenze del “Tribunale speciale per la Difesa dello Stato”; settanta durante i nove mesi di occupazione di Roma, su ordine delle autorità tedesche; dieci dopo la Liberazione.
L’autore ha ricostruito le vicende sulla base di documenti (fotografie, resoconti della polizia, relazioni dei questori, lettere dei condannati e dei loro congiunti) e di interviste a testimoni di quei tragici eventi, relativi a un arco di tempo di rilievo per la storia d’Italia del ventesimo secolo: l’ascesa e l’affermazione del fascismo, la seconda guerra mondiale, la Resistenza e la Liberazione.
Compongono questa narrazione corale le storie individuali di oppositori e resistenti al fascismo e al nazismo, di agenti segreti al servizio di potenze in guerra con l’Italia, di collaboratori dei tedeschi e dei fascisti della Repubblica Sociale Italiana e anche di persone accusate di avere commesso delitti comuni. Tra tutte, ricordiamo quella relativa a don Giuseppe Morosini, nato a Ferentino, esattamente 100 anni fa, il 19 marzo 1913.
Entrò giovane nella Congregazione della Missione e fu ordinato sacerdote a San Giovanni in Laterano nel 1937. Nel 1941 fu cappellano militare del 4° reggimento d’artiglieria di stanza a Laurana, all’epoca in provincia di Fiume, ora in Croazia. Nel 1943 fu trasferito a Roma. Qui assisteva i ragazzi sfollati dalle zone colpite dal conflitto che erano alloggiati in una scuola elementare del quartiere Della Vittoria.
Dopo l’8 settembre entrò nella Resistenza romana, principalmente come assistente spirituale. Era in contatto con il gruppo comandato dal tenente Fulvio Moscati, attivo a Monte Mario, in diretto collegamento con il Fronte militare clandestino della Resistenza, guidato dal colonnello Cordero Lanza di Montezemolo.
Don Morosini riuscì ad avere da un ufficiale della Wehrmacht il piano delle forze tedesche sul fronte di Cassino, ma segnalato da un delatore, infiltrato tra i partigiani di Monte Mario, fu arrestato dalla Gestapo il 4 gennaio 1944, mentre raggiungeva il Collegio Leoniano in via Pompeo Magno (quartiere Prati), insieme all’amico Marcello Bucchi. Fu detenuto a Regina Coeli nella cella n.382, insieme a Epimenio Liberi, un commerciante ventitreenne di Popoli che aveva partecipato ai combattimenti di Porta San Paolo e che era entrato nella resistenza nelle file del Partito d’Azione.
La moglie di Liberi era in attesa del terzo figlio. E don Morosini scrisse in carcere, per il bambino che doveva nascere, una “Ninna Nanna per soprano e pianoforte”. Liberi fu fucilato alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944.
Torturato perché rivelasse i nomi dei suoi complici, don Morosini non solo non parlò ma cercò di addossarsi ogni responsabilità. Il 22 febbraio 1944 il tribunale tedesco lo condannò a morte. Nonostante gli interventi del Vaticano, fu fucilato il 3 aprile 1944 (aveva da pochi giorni compiuto 31 anni). Nel plotone di esecuzione composto da 12 militari della PAI (Polizia dell’Africa Italiana), all’ordine di “fuoco!”, 10 componenti spararono in aria. Rimasto ferito dai colpi degli altri due, don Morosini fu finito dall’ufficiale che comandava l’esecuzione, con due colpi di pistola alla nuca.
A Forte Bravetta don Morosini fu accompagnato dal mons. Luigi Traglia, che l’aveva ordinato sacerdote sette anni prima.
Sandro Pertini, allora detenuto nel carcere di Regina Coeli (lo incrociò dopo un interrogatorio) ha dato questa testimonianza: “Incontrai un mattino don Giuseppe Morosini: usciva da un interrogatorio delle SS, il volto tumefatto grondava sangue, come Cristo dopo la flagellazione. Con le lacrime agli occhi gli espressi la mia solidarietà: egli si sforzò di sorridermi e le labbra gli sanguinarono. Nei suoi occhi brillava una luce viva. La luce della sua fede”.
Il 15 febbraio 1945 a don Giuseppe Morosini è stata conferita la Medaglia d’oro al valor militare, con questa motivazione: “Sacerdote di alti sensi patriottici, svolgeva, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, opera di ardente apostolato fra i militari sbandati, attraendoli nella banda di cui era cappellano. Assolveva delicate missioni segrete, provvedendo altresì all’acquisto e alla custodia di armi. Denunciato e arrestato, nel corso di lunghi estenuanti interrogatori respingeva con fierezza le lusinghe e le minacce dirette a fargli rivelare i segreti della resistenza. Celebrato con calma sublime il divino sacrificio, offriva il giovane petto alla morte. Luminosa figura di soldato di Cristo e della Patria”.
Questa recensione è stata pubblicata sul sito dell’Anpi Nazionale