La filosofia e i pungoli della letteratura: il caso Bartleby

14 Marzo 2013 /

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Bartleby lo scrivanoIl 13 marzo si è svolta, presso l’aula Pascoli del Dipartimento di italianistica, una giornata di studio sulla celebre figura di “Bartleby lo scrivano”, romanzo breve di Herman Melville, organizzata dal gruppo dei così detti Docenti preoccupati. Hanno partecipato vari scrittori, critici, saggisti e italianisti, oltre che i rappresentanti del collettivo Bartleby, al centro della cronaca per le note vicende, di cui ci siamo più volte occupati. Sono intervenuti Ermanno Cavazzoni, Maurizio Matteuzzi, Daniele Giglioli, il collettivo Wu Ming, Christian Raimo, Bruno Giorgini, Donata Meneghelli e Federico Bertoni. Pubblichiamo di seguito l’intervento di Maurizio Matteuzzi, filosofo del linguaggio.
di Maurizio Matteuzzi, Università di Bologna
Il pensiero filosofico moderno, e per moderno intendo da Cartesio in poi, si manifesta attraverso grandi sistemi onnicomprensivi e monolitici, a forte coerenza interna, e incentrati sulle risposte ai così detti “massimi problemi”, ancorché il punto di partenza fondativo sia l’analisi degli strumenti, dei modi e dei limiti della conoscenza umana. Questa tendenza, che si può riscontrare facilmente in tutto il razionalismo seicentesco, si pensi ai sistemi di Spinoza o di Leibniz, tanto per esemplificare, si accentua fortemente con Kant e con tutto l’idealismo romantico, e trova la sua massima espressione nella forma enciclopedica hegeliana. Il positivismo (comtiano prima e spenceriano poi), pur in contrapposizione antitetica sulle fondamenta, costruisce a sua volta un grande sistema monolitico; si pensi alla gerarchia delle scienze di Comte.

Dalla metà dell’ottocento si affaccia con sempre maggiore decisione un punto di vista alternativo, un modo di procedere, o forse di sentire, di vivere i termini della questione, dapprima timidamente, ma poi sempre più drasticamente opposto. Si comincia a fare strada quella visione che sarà poi la principale caratteristica di quello che oggi chiamiamo esistenzialismo. Recuperando la terminologia tomistico/medievale potremmo dire che si ha uno spostamento da una filosofia dell’essenza a una filosofia dell’esistenza. E il punto diventa allora lo scarto, vissuto nella propria Erlebnis, del singolo, che aspira all’una ma vive nell’altra delle due dimensioni citate; e che vive la sofferenza che è indotta dalla presa d’atto, o anche solo dalla percezione affettiva, di tale scarto.
Dai tratti anticipatori che si ritrovano in Schopenhauer, si passa alla tematizzazione esplicita di Kierkegaard, al tema del mascheramento sociale, alla codifica dei ruoli prestabiliti, come il don Giovanni, il padre di famiglia, fino alla catarsi dell’angoscia come promozione verso un uomo religioso, che vive un ascetismo privo della dimensione dell’eudaimonia. Si pensi a quanto propone Schopenhauer come meccanismo di difesa dal dramma del Wille zu leben: la noluntas, come non volonta, come negazione del volere, che trasforma il mondo del nulla nel mondo del tutto, proprio attraverso la negazione, il rifiuto di quest’ultimo. Non è forse Bartleby la prosopopea della noluntas, il non-volente per antonomasia?
Ecco, questa è una chiave per intendere la figura del nostro scrivano, quello che di ogni cosa “Would prefer not to”. Aspirazione alla purificazione del Nirvana, cioè desiderio del nulla, in termini schopehaueriani; o, meglio, la prigione della “malattia mortale” di Kierkegaard: la disperazione. In termini di altri autori, al di là della necessità del “mascheramento” sociale, il vivere per la morte, unico senso possibile, la filosofia del naufragio.
In fondo il germe del problema si trova proprio già nella sinistra hegeliana, in Feuerbach: l’uomo, misero tubo digerente, che altro non è se non ciò che mangia, proietta la sua debolezza su un infinito ottativo del cuore, in un essere perfetto. E questo ne sazia l’ansia. Ma ecco che a chi se ne disvela la in-esistenza, altro non rimane che proiettare gli attributi voluti sulla specie. Sono gli anni della diffusione del darwinismo. Ma se questa via non viene accettata, non appare percorribile, ecco che quel che rimane è il fallimento, il naufragio, il mascheramento essendo un puro palliativo che scherma il vero problema all’uomo volgare.
Più modernamente: l’uomo che è Dasein e non Sein, che comprende l’accidentalità del proprio “esserci” come capitare, dell’angoscia di vivere la distanza incolmabile tra finito e infinito, l’ansia metafisica del proprio essere vano, e dell’inutilità di ogni propria azione rispetto al salto verso il dominio del tempo e della vera ragione delle cose. In definitiva, la presa d’atto dell’enorme vacuità del tutto. Come spiegare Sein und Zeit meglio che con l’atteggiamento del nostro scrivano?
Certo, se ci poniamo entro uno dei mascheramenti possibili, l’uomo etico, o padre di famiglia per dire, il nostro personaggio risulta del tutto incomprensibile. Egli, l’uomo etico, direbbe: “ma cosa vuole in fondo costui?”. Ecco il punto: per quella via non si può capire. Se invece il punto di vista si apre al naufragio e all’angoscia, il tutto diventa non solo comprensibile, ma addirittura necessario, inevitabile, da mistero si fa ananke. Così come anankastico diventa l’epilogo, il vivere fino a e per la morte. Non essendo sensato altro sbocco possibile.

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