di Gabriele Polo
Da diciannove mesi sono senza lavoro e dal luglio del 2011 presidiano la fabbrica per evitare che venga svuotata dai macchinari e ritrovarsi disoccupati. Sono i 322 dipendenti della Jabil di Cassina de Pecchi, un tempo Siemens, quando nel sito alle porte di Milano lavoravano in 3.000, prima di un serie di dismissioni ed esternalizzazioni. La fabbrica è nata nel 1964 da una filiazione della Marelli, quando Cassina era poco più di una cascina. Poi la cittadina è cresciuta attorno allo stabilimento – che ha “portato” pure la fermata della metropolitana – il cui fiore all’occhiello era il reparto di ponti radio.
Nel 2007 tutto passa alla Nokia che dopo pochi mesi vende proprio quel reparto di punta e i suoi lavoratori alla Jabil, multinazionale americana di circuiti elettrici “specializzata” in compravendite di rami d’azienda in crisi. Crisi che a Cassina è arrivata con la fuga degli investimenti pubblici nel settore delle telecomunicazioni. Perché i ponti radio che qui si producono – un tempo grandi come armadi e oggi piccoli come scatole, ma sempre pieni di tecnologia e professionalità – “trasferendo segnali” da un punto del mondo all’altro ci permettono di telefonare, guardare la televisione e sentire la radio, sono essenziali per la vita di oggi, ma hanno bisogno di investimenti per ricerca, innovazione, sviluppo; difficilmente si può fare a meno dell’intervento statale, politica che dalle nostre parti è andata in dismissione insieme a tanta parte dell’industria italiana.
Nello stabilimento di Cassina de Pecchi i ponti radio venivano progettati e costruiti; da qui partivano i tecnici per installarli e qui se ne curava la manutenzione: quasi un terzo del totale mondiale di questi apparati hanno il marchio Siemens Italia e molti brevetti sono nati a Cassina, in collaborazione con il Politecnico di Milano. Oggi tutta questa storia e queste professionalità rischiano di essere gettate via, insieme ai lavoratori, in mancanza di investimenti per le reti telematiche (quante volte sentiamo parlare, inutilmente di banda larga?) che dipendono dal ministero dello sviluppo e ora sono appesi alla mitica “agenda digitale” varata da Passera qualche mese fa. Vedremo che fine farà.
Nel frattempo i 322 dipendenti della Jabil di Cassina – e gli 800 dello stabilimento gemello di Marcianise – sono costretti a fare i conti con le speculazioni di un’azienda che dal 2007 ha dato vita a un gioco delle parti con la mandataria Nokia, che a sua volta a Cassina ha dichiarato 500 esuberi su 850 addetti. Perché la multinazionale finlandese, vendendo (regalando, sostengo in molti) a Jabil il reparto ponti radio e i suoi lavoratori, ha iniziato un’operazione di smantellamento industriale che, tramutando in commerciale la destinazione d’uso dell’area, farebbe lievitare di dieci volte il valore del terreno, da 2 a 20 milioni di euro.
Visto in questa prospettiva, il ruolo di Jabil non sarebbe altro che quello di apripista per una dismissione che poi coinvolgerebbe tutti i restanti reparti della Nokia di Cassina. Di questo si sono convinti i lavoratori, fin da quando Jabil a poche settimane dal suo arrivo in Lombardia ha chiuso lo stabilimento di Mapello (Bergamo), facendo presto ricorso alla cassa integrazione a Cassina e a Marcianise.
Sono seguiti mesi di continue dichiarazione di stati di crisi, voci di vendite e trattative più o meno nascoste con il fondo Mercatech (uno “spallone” finanziario americano specializzato in manovre azionarie e già protagonista della tentata chiusura dell’ex Electrolux di Scandicci), fino ad arrivare alla dichiarazione di chiusura dello stabilimento col licenziamento di tutti i dipendenti nel dicembre 2001. Quando la fabbrica era già presidiata da sei mesi per impedire quel che è stato poi tentato nel luglio del 2012, cioè lo smontaggio dei macchinari e il loro trasferimento o vendita chissà dove e a chi. Sembra di rivivere quel che è successo tra il 2008 e il 2009 a pochi chilometri di distanza, all’Innse di Lambrate – non a caso tra le comunità operaie di queste due realtà c’è più di un collegamento – in una lotta passata alla storia.
Oggi sotto la tettoia un tempo piena di motorini e biciclette e riadattata a base del presidio operaio, attorno a una stufa a legna, dopo mesi di manifestazioni, si contano i giorni che mancano alla fine della mobilità per i lavoratori più giovani che presto potrebbero non avere nemmeno più i 900 euro mensili dell’Inps, alla ricerca di una soluzione almeno momentanea che potrebbe venire da alcuni corsi di aggiornamento professionale. Ma si cerca di guardare anche più in là, perché la copertura della mobilità non è eterna per nessuno e, soprattutto, perché qui credono fortemente nella possibilità di riprendere la produzione; e con essa quel minimo di dignità rappresentato da un salario che già quand’è pieno non è un granché.
Così continuano a fare i turni, come quando lavoravano, ma stavolta per controllare che lo stabilimento resti integro e accompagnare una possibile trattativa che si è riaperta di recente con l’arrivo di un nuovo amministratore delegato in Jabil. La multinazionale Usa, finite da tempo le (scarse) commesse garantite da Nokia e disinteressata fin dall’inizio al rilancio industriale della fabbrica, prendendo atto della resistenza operaia intende sganciarsi e si dice disposta a cedere gratuitamente lo stabilimento a chi lo vorrà riaprire o a darlo nel frattempo in comodato d’uso a un soggetto terzo.
Per questo l’azienda, con la mediazione del sindaco di Cassina, proprio in questi giorni ha chiesto di riavere – in cambio delle sue disponibilità – il materiale tuttora presente in magazzino. Dal presidio operaio e dalla Fiom locale rispondono di essere disponibili, ma propongono una “resituzione progressiva che accompagni, pezzo per pezzo, la ricerca di un acquirente e la presentazione di un progetto industriale, fino alla ripresa dell’attività”. Solo allora il presidio verrà sciolto e i cancelli riaperti: c’è da crederci, visti i diciannove mesi che stanno alle loro spalle.