Verso il conclave: Joseph Ratzinger, dimettersi per contare / 2

4 Marzo 2013 /

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Joseph Ratzinger - Foto di Ernst Moeksisdi Crescita Politica, newsletter dell’Unione dei Comunisti Anarchici d’Italia
La natura politica e di potere della decisione
È noto il vecchio adagio: “Muore un Papa, se ne fa un altro”. Ma l’elezione di un nuovo Papa può avvenire in situazioni molto diverse tra loro e soprattutto subire differenti tipi di condizionamento.
Il primo di questi è dato dal fatto che il vecchio Papa potrà “guardare nelle palle degli occhi” il nuovo, anche se dal romitaggio e anche qualora scelga e pratichi il silenzio, quanto meno per il fatto di essere in vita. Inoltre – come Joseph Ratzinger sta facendo – potrà condizionare le scelte del suo successore, predeterminando alcune condizioni, come ad esempio ha fatto facendo nominare il nuovo Direttore dell’IOR nella persona del barone Ernst von Freyberg e soprattutto azzerando (con ignominia) la Curia romana dopo aver arringato su di essa e sulle sue divisioni davanti al clero della sua diocesi (udienza del 15 febbraio 2013).
È pur vero che con il nuovo Papa vengono sempre azzerati tutti gli incarichi curiali, ma le parole del Papa che lascia hanno tracciato in modo indelebile un segno sul curriculum di molti personaggi eminenti della Curia, dei palazzi apostolici e dell’entourage di molti circoli cardinalizi, delle diverse congregazioni.
È noto che da Curia Romana costituisce da anni il vero governo della Chiesa. Approfittando del progressivo deteriorarsi delle forze, del vigore, delle capacità decisionali di Giovanni Paolo II, minato dalla malattia e dalla vecchiaia, si è svolta ed è in corso nella Curia una guerra per bande nella lotta per impossessarsi dei vari gangli del governo della Chiesa, della direzione dei suoi affari economici, della gestione dei rapporti disciplinari, delle nomine di nuovi porporati. La pubblicizzazione di documenti pontifici ad opera dei cosiddetti “corvi” è solo una fase di questo scontro.

L’elezione unanime di Joseph Ratzinger al soglio pontificio era il segno di un accordo tra le diverse componenti per avere un Papa di transizione, data la sua età, e continuare a lottare alla ricerca di un equilibrio o di alleanze possibili. Si riteneva che Benedetto XVI avrebbe avuto poco tempo a disposizione per costruire la sua Curia: troppo breve sarebbe stato il suo pontificato e quindi lo scontro sarebbe stato rimandato. Di ciò si è reso conto Joseph Ratzinger che ha deciso di tagliar corto: ha scelto lui i tempi del rinnovamento della Curia, mettendo in gioco se stesso dimettendosi e così fortemente condizionando il suo successore e impegnandolo a porre fine alle divisioni della Curia, precostituendo nuove maggioranze attraverso le nomine cardinalizie, certamente caratterizzate dall’assoluta prevalenza di porporati su posizioni conservatrici.
È vero che così facendo Benedetto XVI ha orientato a suo modo le scelte teologiche e la politica ecclesiastica, ma lo ha fatto al prezzo di privare la Chiesa di Roma di uno dei suoi strumenti di maggiore efficacia: l’infallibilità del Papa.
Le implicazioni ecclesiologiche e di politica ecclesiastica
Questa scelta era quanto mai necessaria perché l’infallibilità costituiva l’ultimo grande ostacolo a un effettivo sviluppo dell’ecumenismo e ai tentativi di unificazione delle Chiese cristiane, disegno ineludibile da perseguire per i futuri pontefici, se essi vogliono affrontare il processo di progressiva scristianizzazione e laicizzazione del continente europeo, denunciato con vigore dagli ultimi due papi, costruire un baluardo efficace al diffondersi dei nuovi culti o di movimenti carismatici che minano dall’interno le diverse Chiese cristiane, contrastare l’espansionismo dell’Islam salafita e fondamentalista che minaccia sempre più da vicino i territori nei quali prevalgono i cristiani.
Non vi sono dubbi che le popolazioni che abitano oggi il continente europeo sono in maggioranza ateiste o indifferenti al messaggio religioso. Non solo ma nel territorio del vecchio continente si sono stabilmente insediati Islamici e Buddisti, mentre un numero sempre crescente di cittadini è costituito dagli aderenti ai nuovi culti (Testimoni di Geova, Mormoni, Avventisti, Scientology. ecc).
Per questo motivo è necessaria un’alleanza, meglio una integrazione, quantomeno con ortodossi e anglicani, cementata dal superamento delle divisioni teologiche, la più profonda delle quali risiede proprio nell’infallibilità pontificia. D’altra parte i diversi patriarcati ortodossi e la Chiesa anglicana sono pronti a riconoscere il primato pontificio (primus inter pares) del vescovo di Roma, come avveniva in un passato nemmeno tanto lontano e hanno tutto l’interesse anche essi a giungere ad una unione per realizzare la quale da tempo è stata elaborata la dottrina dell’Ecclesiae sui juris che permetterebbe a ogni Chiesa una grande autonomia all’interno di un corpo unico e assicurerebbe il coordinamento dell’azione ecclesiastica attraverso i Concili e le conferenze episcopali territoriali. Il quanto ai protestanti – Calvinisti e Luterani soprattutto – essi sarebbero destinati a soccombere, erosi del prevalere della laicità senza aggettivi che in larga parte essi hanno sposato e condividono.
Nell’incapacità di imporre alla Chiesa di Roma il superamento del Concilio Vaticano I e del dogma dell’infallibilità, Benedetto XVI ha messo tutti di fronte al fatto compiuto per cui, trattandosi di questione di fede e di religione nella quale il Papa sarebbe infallibile, ha deciso di scardinare egli stesso le basi dell’infallibilità attraverso la trasformazione del ruolo del Papa in un ufficio ecclesiastico la cui titolarità può decadere e passare di mano in relazione alle necessità dell’istituzione: E ciò è stato fatto per i poteri conferitigli dal Concilio Vaticano I: pertanto tale scelta è giusta e indiscutibile, nonché ispirata dallo Spirito Santo.
Questo aspetto della sua decisione non può essere sfuggito al fine teologo Joseph Ratzinger e costituisce dunque un passo razionale e determinato, un effetto voluto.
È, a ben vedere, un altro segno della secolarizzazione e un frutto del relativismo per cui ogni tempo si da la sua Chiesa. E questo perché se la cristianità è unita in un’unica Chiesa essa può più efficacemente contrastare la scristianizzazione dei territori, sconfiggere i nuovi movimenti religiosi, combattere quelle componenti che anche al suo interno ne minano l’unità, come le Chiese o movimenti carismatici, sia cattolici che protestanti, Una cristianità che ha ritrovato la sua unità potrebbe inoltre contrapporsi con più efficacia all’espansionismo islamico, a quell’Islam combattente e jihadista che in Africa come in Oriente attacca la presenza cristiane e ha innalzato la bandiera dell’espansione della Dār al-Islām (Terra dell’Islam).
(Continua)
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 51 di “Crescita politica”

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