Agromafie e caporalato: un fenomeno presente anche in Emilia Romagna

10 Gennaio 2013 /

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di Luigi Riccio
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, contadini e braccianti in subbuglio, soprattutto al Sud, rivendicavano il diritto alla terra contro lo strapotere del latifondo. Le continue occupazioni, gli scioperi alla rovescia e i dissodamenti “abusivi” di terreni, furono tra i principali strumenti che accelerarono il varo della riforma agraria del 1950. Ad essere inediti non erano solo i motivi del malcontento, ma pure la sua localizzazione geografica: le campagne del Mezzogiorno. Mentre gli operai protestavano nelle fabbriche del Nord, al Sud erano i lavoratori dell’agricoltura a chiedere miglioramenti nelle condizioni di vita: ed erano calabresi, pugliesi e lucani, a cadere in maggioranza sotto il fuoco della Celere di Mario Scelba, il ministro di Polizia – per ironia della sorte, egli stesso meridionale, di Caltagirone, e figlio di un fattore -. Dopo più di cinquant’anni, una legge importante – anche se, finora, non ha ancora ottenuto grandi risultati -, quella sul caporalato, è anch’essa approvata dopo una grande agitazione: la rivolta di Nardò in Salento. La storia si ripete? Non esattamente. Perché ad incrociare le braccia, stavolta, sono immigrati. E in uno scenario molto mutato da quello della fine degli anni ’40.
Cambiano gli attori. Tra i leader dei fatti di Nardò, c’è Yvan Sagnet, ragazzo camerunense, studente a Torino e lavoratore stagionale nelle campagne pugliesi: è attraverso la sua figura, che la battaglia contro il caporalato prende vigore ed ha il suo sbocco infine nell’introduzione dell’articolo 603 bis nel codice penale (agosto 2011). Il ventisettenne fa la sua traversata al Sud per racimolare qualche soldo, e lì scopre un esercito di lavoratori invisibili, costretti al giogo dei caporali e in condizioni di vita perlopiù indecenti.
Il rapporto. Anche nel nuovo secolo, il Meridione si conferma quindi come l’area dove le contraddizioni stridono con maggiore evidenza. Ma non dove queste ultime si esauriscono. A darne ulteriore prova, è l’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil, che quest’anno pubblica il primo rapporto Agromafie e caporalato, una “mappa dello sfruttamento” dei lavoratori migranti nelle campagne italiane, nonché una ricostruzione delle infiltrazioni mafiose nella filiera agroalimentare.

I braccianti stranieri occupati nel settore sono 314 mila, di cui quasi la metà nelle regioni settentrionali (150.886), a cui vanno aggiunti i 400 mila irregolari che lavorano, spesso a tempo determinato, e che si spostano da provincia a provincia e da regione a regione seguendo i cicli di raccolta. Secondo la Flai-Cgil, tra i 70.000 e i 105.000 di questi lavoratori «si trovano (ogni anno) in condizioni di estrema vulnerabilità socio-economica». Tradotto: sono sfruttati, non di rado in modo grave. E non solo al Sud.
Il rapporto nasce dalle iniziative quali il Sindacato di strada e Gli invisibili nelle campagne di raccolta e presenta i dati del monitoraggio effettuato sulla Penisola.
Mafie e caporalato. Caporalato e criminalità organizzata si legano perché il primo è da considerarsi quale «”reato spia” di infiltrazioni mafiose nel settore» (Anna Canepa, magistrato della Direzione nazionale antimafia), oltre al fatto che le mafie «com’è noto, affondano le proprie origini nella terra, nelle campagne» (Giancarlo Caselli, Procuratore Capo della Repubblica di Torino). Reati quali sofisticazioni alimentari, sfruttamento, riduzione in schiavitù, truffe e inganni a danno dei lavoratori compongono un unico intreccio. E trovano terreno fertile anche in regioni insospettabili come Lazio, Lombardia, Piemonte e Emilia Romagna. «L’agricoltura è uno dei settori prediletti per il riciclaggio dei soldi dalle organizzazioni criminali tradizionali – scrive Sagnet nel suo intervento. – Ad esempio, l’agricoltura foggiana subisce forti condizionamenti della camorra (…) La ‘ndrangheta controlla gran parte della filiera degli agrumi in Calabria e gestisce i più grossi mercati di ortofrutta d’Europa».
L’indagine. Giornate lavorative di 12-16 ore, con paghe che non superano i 20-25 euro e da cui, molto spesso, vanno detratti pure i costi del caporale: trasporti, cibo e bevande. È questa la retribuzione-tipo di tanti braccianti stranieri, a cui vanno aggiunte angherie e raggiri quali il trattenimento dei documenti, le violenze, il sottopagamento e contratti di lavoro fasulli o inesistenti. L’insieme delle peculiarità dell’agricoltura italiana forma quindi quattro mappe: una per ogni stagione, con le sue «aree a rischio» di sfruttamento che variano al variare delle colture. Le informazioni raccolte fanno luce su tre campi di indagine: il ciclo del lavoro di ogni regione, il censimento delle comunità straniere più rappresentate e le loro condizioni di lavoro. Quest’ultimo dato è ulteriormente diviso secondo tre valori: buono, indecente/non dignitoso e gravemente sfruttato.
La mappa dell’indecenza. In maggioranza, da Nord a Sud, sono le situazioni non dignitose, mentre le condizioni buone riguardano una piccola parte. Situazioni di grave sfruttamento si riscontrano, per il centro-nord, in Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana, mentre al Sud, in tutte le regioni coinvolte dall’indagine, con punte di massima in Campania e in Puglia.
Da Saluzzo a Cesenatico. Ci sono province che, al loro interno, presentano situazioni variegate, in cui i giudizi positivi si affiancano a quelli negativi. E altre in cui, invece, questi ultimi rappresentano la totalità. È il caso, per il Piemonte, di Tortona (Alessandria), giunta alla ribalta quest’anno per la vertenza dei braccianti marocchini a Castelnuovo Scrivia, di cui Corriere Immigrazione ha dato notizia. Il tipo di grave sfruttamento denunciato è la presenza diffusa di caporalato, mentre nelle province di Cuneo e Asti, sono state raccolte segnalazioni di salari non pagati (Saluzzo, Bra, per la prima, Nizza Monferrato per la seconda). In Lombardia, a ricevere il voto peggiore sono la provincia di Lecco e la Franciacorta nel bresciano. Per quest’ultima, famosa per la produzione di vino, i braccianti, assoldati da misteriose cooperative nei Paesi di origine, hanno segnalato casi di lavoro paraschiavistico. Corriere Immigrazione ne aveva parlato: i braccianti, pagati 3 o 4 euro a ora, finito il raccolto, ritornano nei Paesi di provenienza, rendendo impossibili i controlli. Truffe sono state invece rilevate a Lecco, mentre a Mantova e Pavia l’impiego di caporali. In Emilia Romagna, le situazioni più gravi riguardano le province di Cesena, Ferrara e Ravenna. Per le prime due, il riferimento è a Cesenatico e Portomaggiore, dove sono stati denunciati forme di grave sfruttamento lavorativo, caporalato, truffe e impiego di manodopera irregolare. Per Ravenna, i migranti non hanno voluto scendere nei particolari, ma hanno definito le condizioni di lavoro «indecenti e non buone».
Dal litorale Domitio a Nardò. Anche in Campania la situazione è variegata. Per le province di Napoli, Caserta e Benevento, i giudizi sono a volte positivi in altre negativi, con situazioni indecenti e di grave sfruttamento sul litorale Domitio (Ce), a Giugliano e nel Nolano (Na), nella Valle Claudina (Bn). I migranti danno un voto positivo all’aversano (Ce) e alla Valla Telesina (Bn), mentre è molto negativo quello riferito alla Piana del Sele e all’Agro Nocerino-Sarnese (Sa). A Napoli e dintorni si riscontrano casi di lavoro gravemente sfruttato, truffe e caporalato. L’impiego di caporali è denunciato anche nel salernitano e nel casertano, ma in quest’ultimo sono segnalate anche gravi sofisticazioni alimentari. In Puglia, le condizioni peggiori in assoluto si riscontrano nelle aree di Foggia, Lecce e Taranto, mentre quelle buone nella sola provincia di Barletta-Andria-Trani. Per Bari la situazione è complessivamente positiva, eccetto per la raccolta di uva e nella zootecnica. Le forme di grave sfruttamento riscontrate nelle prime tre province sono la presenza di caporali, di truffe sull’ammontare dei salari o sulle ore lavorative, minacce e violenze psico-fisiche. La Calabria presenta condizioni indecenti nelle zone di Catanzaro, Cosenza e Vibo Valentia. Per Reggio Calabria, sono buone nel melitese e a Monasterace, mentre è indecente e gravemente sfruttato il lavoro nella piana di Gioia Tauro e a Rosarno, dove si rileva l’impiego di manodopera irregolare e il caporalato. A Crotone il giudizio è positivo nel petilino e nel cirotano, mentre sono non buone le situazioni lavorative nell’alto crotonese e nel comune di Crotone.
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere Immigrazione

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