di Guido Ambrosino (*), Berlino, 11 ottobre 2012
(*) redattore del manifesto dal 1982, corrispondente dalla Germania dal 1985 al luglio 2012
Difficile, per chi non sta nella redazione di via Bargoni, tanto più da Berlino, capire cosa sta succedendo al manifesto: sulle sue pagine per settimane non una riga sulla crisi del giornale, in procedura di liquidazione dal febbraio scorso, né su cosa si pensa di fare per uscirne (come per contraddirmi, il 12 ottobre è finalmente apparso un editoriale della direzione, che però tace sulle decisioni prese: su questo silenzio, di più in un poscritto). Lettori e collaboratori mi chiedono se ne so qualcosa. Ecco quel che sono riuscito a ricostruire, da un mosaico di telefonate e scambi di messaggi. Come tutte le ricostruzioni a distanza, anche questa non sarà esente da errori, che vi prego di segnalarmi. Ma meglio rischiare di sbagliarsi sui dettagli, che tacere.
I liquidatori, nominati a febbraio dal ministero dello sviluppo economico, hanno comunicato alle rappresentanze sindacali dei giornalisti (comitato di redazione) e dei poligrafici che, considerato il calo di vendite (scese sotto le 15mila, a 13.700 copie), non potranno prolungare l’esercizio provvisorio oltre il 31 dicembre 2012. A quel punto dovranno liquidare la cooperativa editrice e cercare di vendere la testata. A chi?
In un’assemblea riunita a via Bargoni il 22 settembre Claudio Albertini, già direttore generale della cooperativa in liquidazione, poi ingaggiato dai liquidatori con un contratto di collaborazione come consulente e coordinatore dell’amministrazione e del personale, ha parlato di un «imprenditore» a lui noto, ma di cui non poteva fare il nome, che aveva notificato al ministero dello sviluppo economico il suo interesse all’acquisto della testata. L’ «imprenditore» (una persona fisica? una società?) avrebbe poi ceduto in affitto la testata a una nuova cooperativa redazionale di 25 persone.
In una seconda assemblea il 6 ottobre, a cui Albertini non ha partecipato, si è data luce verde a questa ipotesi. L’ «imprenditore», ormai presentato come «unica soluzione» anche dalla direttrice Norma Rangeri (dimissionaria, ma «riconfermata» dai liquidatori), dai capiredattori e dal comitato di redazione, avrebbe presentato il 10 ottobre una formale offerta al ministero. Per la nuova cooperativa di gestione ci si orienta sui 25 soci, quanti richiesti non si sa se da Albertini, dal suo «imprenditore», o da entrambi. A parte variazioni di qualche unità, a seconda della struttura salariale prescelta (paghe maggiorate per i giornalisti?), l’ordine di grandezza sembra obbligato, perché con le vendite attuali mai si potranno pagare i 69 stipendi della cooperativa in liquidazione.
Chi saranno i 25 «salvati»? Lo deciderà Norma Rangeri, consultandosi con i rappresentanti sindacali. La risoluzione votata sabato recita: «Il collettivo del manifesto affida alla direzione e a Valentino Parlato, coadiuvati dalle rappresentanze sindacali e da Claudio Albertini, il compito di istruire le forme della nuova cooperativa e di indicarne i componenti». Ma tre giorni dopo Albertini ha dichiarato di non volersi assumere questo ruolo di «coadiuvatore», se non forse informalmente («posso comunque dare il mio contributo, alla ricerca di possibili soluzioni»). Valentino è in grave imbarazzo, e sembra propenso a sottrarsi. Scrive Tiziana Ferri: «Coinvolgere Valentino in questo processo è un colpo basso che lui non si merita. Valentino è il garante politico di tutti noi, intesi come collettivo, e della testata. Ha creato, in quanto fondatore del manifesto, il nostro posto di lavoro. Renderlo corresponsabile del nostro ‘licenziamento’ secondo me non è giusto nei suoi confronti».
Delle circa 40 persone presenti all’inizio dell’assemblea, sei, che considerando le molte assenze proponevano di votare il lunedì successivo, e comunque chiedevano uno scrutinio segreto, non hanno partecipato al voto per alzata di mano. Almeno due non avevano diritto di voto. Un voto è stato contrario. Circa 30 persone, certo meno di un terzo dei credo 105 soci della cooperativa editrice (non dispongo di dati aggiornati sulla sua composizione attuale) – più o meno quante forse in cuor loro pensano di poter ancora rientrare nella lista dei «salvati» – hanno approvato per alzata di mano la proposta Albertini-Rangeri. Lo hanno fatto senza sapere chi è l’ «imprenditore», senza uno straccio di piano politico e editoriale, senza un’idea su quale organico e quali competenze saranno richieste. L’appello di Tommaso di Francesco a richiamarsi all’intervento di Rossana Rossanda sul giornale del 19 settembre («Da dove ripartire»), che sollevava il nodo della natura comunista e libertaria del manifesto, è sembrato una povera voglia di fico per coprire la nudità della nuova creatura paraimprenditoriale, visto che né nelle assemblee del 22 settembre e del 6 ottobre, né sul giornale, ci si è voluti confrontare nel merito con la dura analisi di Rossanda.
A margine dell’ultima assemblea sono circolate con insistenza voci su un secondo imprenditore interessato a acquistare la testata, per poi affidarla a una società a responsabilità limitata, che rinuncerebbe al contributo pubblico per l’editoria. Questo imprenditore è stato contattato da Emanuele Bevilacqua, a lungo redattore delle pagine culturali e poi nel consiglio di amministrazione della cooperativa editrice. Il secondo imprenditore punterebbe sul rientro in redazione di autori e autrici che ne sono usciti con l’ultima leva di prepensionamenti, probabilmente con una diversa direzione giornalistica. Emanuele Bevilacqua mi dice però che non intende adesso forzare la sua ipotesi in competizione con quella di Albertini-Rangeri: la terrebbe semmai di riserva, se questa non dovesse funzionare.
Quale che sia lo stadio di elaborazione del modello Bevilacqua, certo è che tra gli ex redattori, che si sentono tagliati fuori dall’imprenditore di Albertini-Rangeri, è purtroppo prevalso finora il tentativo di replicare con lo stesso metodo della ricerca dell’imprenditore «amico», piuttosto che puntare con decisione sulla comunità larga dei lettori e dei collaboratori come editore collettivo.
Se le cose stanno così, si capisce il clima di «segretezza» in cui gli uni e gli altri si muovono. Il segreto è necessario perché entrambe le ipotesi su cui si sta lavorando sono poco presentabili all’esterno: farebbero infuriare i lettori e i collaboratori che da mesi, ignorati dalla direzione, propongono un nuovo modello di giornale comunitario, posseduto e cogestito, in una cooperativa di migliaia di soci, da tutti quelli che vi scrivono, che siano o meno dipendenti della cooperativa redazionale, e da chi, tra i lettori e le associazioni più vicine al giornale, è disposto a farsene anche editore. Sottoscrivendo quote di capitale per l’acquisto della testata, pur di impedire che cada in mani estranee.
Un modello comunitario renderebbe impossibili manovre privatistiche di questa o quella frazione per impossessarsi di «quel che resta», come direbbe Vauro. Ma se questo è l’obiettivo, inconfessabile e inconfessato, meglio cercare un imprenditore, sperando che il nuovo padrone poi lasci la gestione del giornale a chi gli ha aperto la porta. Non andrà così. Dice realisticamente un proverbio tedesco che chi paga i musicanti decide la musica da suonare. Succede anche con i giornalisti.
Albertini ha taciuto in assemblea un particolare importante, che ho appreso da Mediacoop, l’associazione dei media cooperativi [1]. A Mediacoop avevo chiesto a settembre un parere su una bozza di statuto per una «comune» attorno al manifesto: una cooperativa di lettori, collaboratori e redattori, sul modello berlinese della «taz». In quella occasione mi hanno detto che Mediacoop si stava già occupando dello statuto per la nuova cooperativa redazionale, e lì c’era un problema di incompatibilità con la legge sull’editoria, che prevede contributi solo per cooperative di soci-dipendenti. Infatti l’imprenditore, oltre a acquistare la testata, chiedeva (a settembre) anche di entrare come «socio finanziatore» nella nuova cooperativa redazionale dei 25, con speciali diritti di influenza.
Il manifesto, che per anni si è battuto per escludere dal finanziamento pubblico finte cooperative giornalistiche in realtà possedute da «finanziatori», proprio qui approderebbe. Per riuscirci, dicono a Mediacoop, ci vorranno complicate trattative con la presidenza del consiglio, per escogitare qualche clausoletta interpretativa «ad jornalem».
Al di là delle trappole nascoste nei dettagli, e indipendentemente da chi tra i pretendenti riuscirà a prevalere, credo che un finanziatore sia incompatibile con la natura originaria del manifesto come impresa collettiva. E dunque fallimentare anche dal punto di vista del marketing. Come ricordava Rossanda, un giornale è anche una merce: «Se i lettori non lo comprano, fallisce». Perché i nostri lettori dovrebbero comprare una merce paraimprenditoriale? Perché i nostri collaboratori, insieme ai lettori la vera grande risorsa del giornale, dovrebbero continuare a scrivere gratis per un anonimo imprenditore? Il fallimento è garantito. Quindi, anche se a breve la testata dovesse passare a un imprenditore, tra qualche mese o un anno potremo ritrovarcela di nuovo messa all’asta.
Quanto all’incompatibilità con la natura «collettiva» del giornale, la logica di riservatezza implicita in trattative private ci ha già diviso tra chi sa, chi sa qualcosa e chi non sa nulla. Con l’inevitabile coda di sospetti, illazioni, insinuazioni. Sottrarsi a questa commedia degli intrighi e dei sussurri, chiedere ai protagonisti di spiegarsi e venire allo scoperto, è il primo scopo di questo resoconto. I bargonisti mi accuseranno di «danneggiare il giornale», mettendo in piazza retroscena «interni»? Il giornale è già agonizzate. Credo che solo i lettori potranno salvarlo. Ma prima bisogna dirgli cosa sta succedendo, e perché serve il loro aiuto.
Se gli imprenditori di cui parliamo sono imprenditori veri, che sappiano cioè fare due conti (c’è da dubitarne, se Albertini dichiara che «nessuno», nemmeno il suo imprenditore, ha ancora un piano industriale), se la daranno a gambe appena si accorgeranno che dovranno vedersela non solo con Claudio Albertini, Norma Rangeri e docili rappresentanze sindacali, ma con una comunità di lettori, e di collaboratori, non addomesticabili, anzi furibondi.
Una larga proprietà collettiva a garanzia della natura politica del giornale, comunista e libertaria, e la costruzione della nuova cooperativa di gestione redazionale a partire dalla sua disponibilità a puntare sui lettori e i collaboratori, e a parlare con loro prima che con gli «investitori», mi sembra l’unica via realistica. L’unica che possa consentire un futuro al giornale, senza snaturarlo.
Qualcuno dice che è troppo tardi per provarci. Lo vedremo all’assemblea di domenica 4 novembre a Roma, a partire dalle 9.30 alla camera del lavoro, via Buonarroti 12 (Piazza Vittorio), organizzata dal locale circolo del manifesto. Si riuniranno da tutta Italia lettori, collaboratori, redattori, insomma «gli stati generali del manifesto». Sarà forse l’ultima occasione per rifondarlo su basi radicalmente rinnovate. Lì i manifestini-comunardi potranno contare le proprie forze, valutare se e in che tempi sarà possibile raccogliere almeno un milione di euro con duemila quote da 500 euro (pagabili anche a rate), con quote minime di 50 euro per chi abbia solo redditi precari. Nella sala mi piacerebbe appendere uno striscione: «Il manifesto si vende in edicola. O ai suoi lettori-editori». Quello striscione dovrebbe già stare sulla ringhiera della terrazza di via Bargoni.
PS. Il 12 ottobre la direttrice Norma Rangeri e il suo vice Angelo Mastrandrea si rivolgono amorosamente alle/ai «Care lettrici e lettori, sostenitori, simpatizzanti e militanti» (perbacco, da dove spuntano questi «militanti»? Mancano, curiosamente, i collaboratori), per dirgli che «sta a noi (quel che resta della liquidanda cooperativa editrice nelle assemblee di via Bargoni) e a voi decidere» se il futuro sarà «un inferno o un paradiso».
Lasciamo perdere il paradiso, a cui non crede più nemmeno Ratzinger. Quel «decidere» è una sfrontata presa in giro per le care lettrici e i cari lettori, perché la decisione – a meno di una ripetizione del voto che forse si renderà necessaria – i bargonisti l’hanno già presa il 6 ottobre: consentire la vendita della testata a un imprenditore, cestinando la proposta che a comprarla fossero le care lettrici e i cari lettori.
Non si venga a dire che la testata la venderanno i liquidatori, e che non è già più nella disponibilità della cooperativa redazionale: l’imprenditore-acquirente è stato cercato, e a quanto pare trovato, da Albertini, e raccomandato come «unica» soluzione per consentire il proseguimento delle pubblicazioni.
Dell’imprenditore, con un’omissione che costituisce di fatto un raggiro delle «care lettrici e lettori», non si parla proprio nell’editoriale, come mai si nomina l’alternativa, la proprietà collettiva della testata.
Ai lettori sostenitori (cioè paganti, con rinnovati oboli) si propone di «costruire un secondo cerchio», in forma di «associazione dei lettori» (di nuovo si dimenticano i collaboratori) attorno al «nucleo operativo» bargonista. Ai lettori si tace che sarebbero soltanto un terzo incomodo, se il primo motore immobile sarà l’imprenditore proprietario della testata (nonché, almeno nei progetti riferiti da mediacoop, anche «socio finanziatore», con i piedi ben piantati nella cooperativa redazionale, e la mano allungata sui contributi pubblici).
Lettori e collaboratori propongono (con bozze di statuto inviate a settembre a Norma, senza che la direttrice si scomodasse anche solo per confermare la ricezione) di comprare loro la testata. Ne affiderebbero la gestione alla nuova cooperativa redazionale: con piena autonomia nella fattura quotidiana del giornale, ma con un obbligo di rendicontazione economica e politica all’assemblea annuale dell’editore collettivo. Nessuno è più disposto a finanziare a fondo perduto un «nucleo operativo» autistico, tantomeno se sarà concessionario di un imprenditore privato. Ed è del tutto peregrino pensare, come Norma ha ipotizzato in assemblea, che i lettori possano tra due anni finanziare il passaggio della testata dalle mani dell’imprenditore, che si tirerebbe cavallerescamente indietro, al «nucleo operativo» suddetto.
Mi risparmio un commento sulla penosa e pelosa captatio benevolentiae nei confronti di Rossana Rossanda. Chiunque volesse accertarsi sulla sua siderale distanza dall’attuale gestione bargonista, vada a rileggersi sul manifesto il suo amaro intervento del 19 settembre.
(Berlino, 12 ottobre 2012)
Nota
[1] Albertini mi prega di precisare: lui nulla sa di soci finanziatori che chiedano di entrare nella nuova cooperativa redazionale. Mediacoop precisa a sua volta che l’ipotesi di «soci sovventori» viene esaminata come «modello teorico» per diverse cooperative giornalistiche da ricapitalizzare, quindi non solo per il manifesto (Berlino, 18 ottobre 2012).