La condizione dello straniero nel Cie

30 Maggio 2012 /

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Non è infrequente che lo straniero giunto al centro di identificazione ed espulsione, dopo aver vissuto l’esperienza carceraria, definisca la condizione di detenuto migliore e meno mortificante rispetto a quella che si trova a vivere da trattenuto. Ciò è dovuto principalmente al fatto che l’esperienza carceraria, per quanto definita come dolorosa e crudele e nonostante il sovraffollamento ed il disagio che la caratterizzano, rientra in una dimensione effettivamente “culturale”, essendo la punizione che quella società infligge a chi ha infranto le leggi, mentre, con il trattenimento all’interno di un Cie viene meno, da parte del trattenuto, la consapevolezza dei passaggi che legano l’azione alla punizione.
Il commento di Franco Pilati, responsabile del Progetto Sociale interno al Cie di Bologna
Il Cie sembra partecipare al medesimo genus delle “istituzioni totali” cui appartiene anche il carcere, rispondento a quella esigenza di “controllo dei corpi” che alcuni autori riconnettono alle moderne istituzioni disciplinari (Jeremy Bentham, Il Panopticon, 1791).
La peculiarità del Cie consiste proprio nella sua strumentalità alla gestione “disciplinare” di quella umanità in eccesso prodotta, attraverso i flussi migratori, dai profondi squilibri economico-sociali che caratterizzano i rapporti tra nord e sud del mondo.
E’ dunque l’irruzione dei poveri, per riprendere una espressione del teologo camerunense Jan Marc Ela, a dettare la necessità della costruzione di una nuova organizzazione totale diretta al controllo dei nuovi “indisciplinati”.

Sembrano quanto mai attuali, a tal proposito, anche le parole di un celebre pensatore che, nella sua opera più nota, affermava che il sistema «non può fare a meno di produrre delinquenti» (Paul Michel Foucault, Sorvegliare e punire: la nascita della prigione, Einaudi 1993), alludendo in tal modo alla naturalità della presenza della istituzione carceraria nella socità moderna.

Se infatti la vocazione delle due istituzioni appare comune, la natura relativamente recente della istituzione dei Cie (prima Cpt, creati con la legge Turco-Napolitano, dlgs 286/1998) si rivela un elemento di “sfavore” per questi ultimi che appaiono meno “normali” e meno strutturati rispetto alla istituzione carceraria e pertanto anche meno in grado di fronteggiare necessità e bisogni contingenti della popolazione trattenuta.
Ciò che accomuna la struttura carceraria al Cie è l’aspetto della marginalità sociale presente, in modo consistente, in entrambi gli ambiti. Se per il Cie questo profilo costituisce un elemento che può apparire scontato vista la condizione di “clandestinità” dello straniero trattenuto nella struttura; per quanto attiene invece al carcere, la crescente “proletarizzazione” della popolazione detenuta, sempre più composta di soggetti marginali, appare l’effetto dei processi di trasformazione delle società degli ultimi decenni e, in concomitanza delle scelte di criminalizzazione  primaria (le opzioni legislative improntate ad una maggiore criminalizzazione della povertà) e secondaria (la maggiore attenzione delle forze di polizia cerso reati di “allarme sociale”, sovente commessi da immigrati irregolari, rispetto ai reati dei cosiddetti “colletti bianchi”).

Il trattamento penale della miseria, come lo ha icasticamente definito  Zygmunt Bauman, appare oggi un elemento caratteristico della economia neoliberale, informato alla necessità di contenimento della devianza prodotta, almeno in parte, dalla mancanza di strategie di inclusione sociale e dalle fine sello Stato sociale.

Tra gli aspetti che caratterizzano in maniera pervasiva la condizione dello straniero al Cie, accentuando la percezione di “ingiustizia” connessa alla detenzione, vi è poi quello della casualità. La casualità scandisce inesorabilmente ogni tappa dell’articolato percorso che accompagna il migrante verso il (possibile) rimpatrio, incidendo sul “se” del trattenimento, sulla durata dello stesso e, perfino, sulla eventualità dell’allontanamento verso il paese d’origine. Tutto ciò spesso dipende da una serie di contingenze del tutto occasionali, indipendenti dalla condotta dell’interessato e, sovente, dalle stesse scelte delle autorità di polizia (per esempio la disponibilità di posti nella struttura o la possibilità di accompagnare lo straniero con i propri mezzi verso il centro designato).

La limitatezza delle risorse per realizzare materialmente i rimpatri fa sì che la maggior parte dei provvedimenti di espulsione sia seguita con una semplice e, quasi sempre, simbolica intimazione a lasciare il territorio dello Stato, invito spesso disatteso da chi ha investito la propria vita in un progetto migratorio nel nostro paese. La casualità riguarda anche la vicenda amministrativa dei trattenuti: la fase di convalida davanti al giudice di pace, un banale errore burocratico da parte della autorità di polizia che può determinare il rilascio di una persona piuttosto che un’altra, la durata della detenzione stessa che può dipendere, per esempio, dal reperimento o meno di un documento che consenta l”identificazione dello straniero, la “scelta” del legale di fiducia.

Capita allora che i concreti meccanismi che governano la macchina burocratica dell’espulsione finiscano spesso per favorire i cosiddetti “furbi” (ad esempio coloro che occultano la vera identità o i propri documenti) a discapito di coloro che, in buona fede, collaborano in maniera più o meno volontaria con la polizia (ad esempio fornendo il proprio passaporto), vedendo “remunerata” tale collaborazione solo con un più tempestivo e inesorabile rimpatrio.

Il ruolo determinate della casualità è in grado, pertanto, di produrre un acutizzarsi del disagio e del senso di afflizione dello straniero che, dopo essersi interrogato sulle “ragioni” della detenzione, finisce anche per chiedersi il perché di un trattamento differenziato rispetto ad altri. Il trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, per dirla col sociologo algerino Abdelmalek Sayad, rende l’immigrato nella condizione di atopos, fuori posto, senza luogo, inclassificabile. In quel luogo “bastardo”, al confine tra l’essere e il non-essere sociale. Ovunque di troppo, tanto nella società d’origine, quanto in quella d’accoglienza, una condizione di doppia assenza che non può che accentuarsi all’interno di un Cie.

Franco Pilati, responsabile del Progetto Sociale interno al Cie di Bologna

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