Cie: le istituzioni totali sono dure a morire

29 Maggio 2012 /

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Il vuoto dietro le inferriate

La prima cosa che viene in mente proposito del Cie sono gli studi di Foucault sui luoghi del “grande internamento”. Infatti il Cie è una istituzione totale nata, come è ovvio,  per recludere migranti (poveri). Il percorso che dobbiamo avviare per demolirlo è simile a quello attuato dai movimenti di lotta contro le istituzioni totali: i secoli passano, i metodi cambiano, ma non sono meno nocivi. Noi sosteniamo con forza il pari diritto alla salute, alla vita ed alla sicurezza per tutti e dunque non possiamo accettare l’esistenza del “reato di povertà” né possiamo accettare che una illegittima privazione della libertà sia gravata da ulteriori discriminazioni.
Intervento di Vito Totire

Una di queste è la negazione del diritto a nominare un medico di fiducia, diritto riconosciuto alla persona carcerata o in tso, o in ospedale psichiatrico giudiziario. Per due volte in pochi mesi mi è stato negato l’accesso al Cie, sul tema prefetto e Regione Emilia-Romagna non rispondono. Quali siano la ratio e la utilità di questo divieto non è del tutto chiaro. Certo può essere preferibile mettere i dati clinici al riparo da occhi indiscreti ed evitare che si possa entrare nel merito della congruità dei trattamenti farmacologici. Viceversa il dubbio che un diniego possa peggiorare, anche in maniera drammatica,  la speranza di salute della persona e, ad esempio, rendere più facili comportamenti autolesionisti o anche suicidari, non sfiora neppure l’istituzione. Il diniego pare dunque una operazione a rischio persino dal punto di vista degli “interessi” di ordine pubblico di una realtà chiusa che si mostra inadeguata e incapace di gestire la sofferenza umana, eppure ostinatamente refrattaria verso “contributi” esterni.

Occorre rendere il Cie ( fino a quando esisterà) una realtà trasparente, occorre farlo anche per poter conoscere e criticare i trattamenti effettuati, aiutando le persone a decodificare il significato e la funzione dei farmaci che vengono somministrati.

Occorre ragionare sull’uso che traspare, persino fuori dalle mura, dei farmaci neurolettici: i nostri riscontri  inducono il ragionevole dubbio che l’ uso sia spesso fuori da ogni orizzonte di tipo terapeutico/consensuale e sconfini in una pratica di infausta memoria, ma ancora molto in auge, a suo tempo definita di “contenzione chimica”. Dubbio rinforzato dal fatto che di questi farmaci, proposti o imposti nelle carceri, una volta che le persone siano tornate in libertà, nessuno ha ravvisato più il bisogno.

Le due persone internate di cui mi sono occupato sono state “liberate” dai giudici. ci si chiede dunque: la funzione dei medici è quella di somministrare neurolettici/antipsicotici a chi subisce un sequestro di persona e, non accettando la questa sua iniqua condizione, cade in “crisi di agitazione”?  Se pure il medico ritiene di aver agito con la logica della “riduzione del danno” rimane la necessità di intervenire alla fonte del danno stesso che è la illegittima carcerazione .

E’ necessario peraltro andare oltre i casi individuali ed avviare immediatamente una indagine conoscitiva sui troppi  “eventi sentinella” (autolesionismo, suicidi, uso di stupefacenti) e sui trattamenti psicofarmacologici all’interno di tutto l’universo carcerario; lo si poterebbe fare agevolmente se le Usl includessero i Cie nei rapporti (almeno) semestrali sulle carceri previsti dalla legge di riforma del1975”.

I rapporti devono essere l’occasione per monitorare il rischio di pratiche di custodialismo “medicalizzato”, per definire i casi di incompatibilità con la detenzione, per dare un contributo concreto alla pari opportunità di speranza di salute per tutti; infine e soprattutto per intervenire con azioni prescrittive e di “bonifica” sui fattori di rischio fisico-ambientali ma anche su quelli psicosociali a cui le persone detenute sono esposte; e un fattore di rischio particolare è il vissuto (in questo caso non certo “soggettivo”) di privazione della libertà pur in assenza di “colpe” per reati, evidentemente, mai commessi.

Un’altra questione di grande rilievo è quella della salute degli operatori civili (i militari sono comunque  purtroppo sottratti alle competenze dalle Usl): chi svolge attività di vigilanza sui rischi professionali e psicosociali degli operatori “civili” del Cie? Mistero. Sono lavoratori di serie b, condannati, fisicamente, a fare da ammortizzatori sociali rispetto agli effetti nefasti dell’incapacità politica di gestire in modo socialmente ed umanamente equo la realtà della immigrazione.

Dobbiamo rompere  il silenzio e difendere con assoluta determinazione il diritto costituzionale alla salute psicofisica (per tutti).

Vito Totire, psichiatra, portavoce circolo”Chico” Mendes

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