Cittadinanza e confini. La sinistra di fronte alla sfida migratoria

di MicroMega /
23 Maggio 2025 /

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Il tema immigrazione la fa decisamente da padrone nel dibattito politico europeo. Ogni volta che un paese si trova di fronte a un appuntamento elettorale, questo diventa il nodo attorno a cui si decidono le sorti delle elezioni. Con un denominatore comune a pressoché tutti i paesi: a definire i termini del discorso è la destra, e la sinistra si trova quasi sempre in affannoso inseguimento. Ne abbiamo parlato con Lea Ypi, filosofa politica della London School of Economics, in Italia per presentare il suo nuovo libro Confini di classe. Diseguaglianze, migrazione e cittadinanza nello stato capitalista appena uscito per Feltrinelli.

Di recente il premier britannico Starmer, laburista, ha annunciato una stretta in tema di immigrazione, accompagnando l’annuncio con una retorica sorprendentemente aggressiva, con frasi sul rischio che l’Inghilterra diventi “un’isola di stranieri”, che sembrano uscite dalla bocca di un Vannacci qualsiasi più che da un leader laburista. Come interpreta questa svolta del Labour sul tema immigrazione?

La retorica usata da Starmer è preoccupante non solo per il suo contenuto, ma per ciò che rivela: una sinistra che ha perso fiducia nella propria capacità di articolare un discorso alternativo sull’appartenenza, la solidarietà e la giustizia globale. Inseguire il linguaggio della destra, nel tentativo di recuperare consenso, finisce per legittimare esattamente quelle narrazioni che alimentano paura e divisione. Non si può costruire un progetto progressista su basi escludenti: l’idea che il Regno Unito non debba diventare un’isola di stranieri tradisce una visione chiusa, nazionalista, che rinnega la storia migrante del Regno Unito e il passato coloniale da cui quei flussi migratori sono provenuti. È una deriva politicamente pericolosa, e anche moralmente miope.

Nel suo lavoro sottolinea giustamente l’urgenza di ripensare le categorie analitiche con cui interpretiamo fenomeni come la migrazione. Ma nel frattempo la politica deve pur agire. In un mondo segnato da diseguaglianze estreme, è comprensibile che gli Stati cerchino di regolare i flussi migratori che sono profondamente squilibrati. Come si può tenere insieme la necessità di un cambiamento strutturale e di lungo periodo con la gestione concreta, quotidiana, dei confini e della cittadinanza?

È vero, la politica deve agire nell’immediato, ma ciò non significa che debba rinunciare alla visione. Regolare i flussi migratori è comprensibile in un mondo segnato da diseguaglianze profonde, ma è proprio a queste diseguaglianze che bisognerebbe rivolgere l’attenzione. Se non si affrontano le cause strutturali che spingono le persone a migrare – la povertà, la guerra, i cambiamenti climatici, le diseguaglianze dei mercati – la gestione dei confini resterà sempre emergenziale, repressiva e inefficace. La sfida vera è costruire un modello di cittadinanza e mobilità globale che non sia basato sulla paura, ma sulla giustizia. Questo è il compito dei partiti politici in un sistema democratico, non solo inseguire la vittoria elettorale su un discorso in cui la destra ormai fa egemonia e in cui la sinistra rischia di sparire.

A proposito di cittadinanza: lei è per l’abolizione di ogni requisito minimo, anche quelli della conoscenza della lingua e del cosiddetto test di cittadinanza. Questi requisiti però rappresentano anche le precondizioni per una partecipazione attiva alla vita politica del paese in cui si vive. Cosa c’è che non funziona in questo ragionamento?

L’idea che la cittadinanza debba essere condizionata alla conoscenza di una lingua o al superamento di un test implica una visione gerarchica della comunità politica. Ma la cittadinanza dovrebbe essere un veicolo di emancipazione, non una ricompensa. Le persone imparano a partecipare proprio partecipando, non restando ai margini in attesa di diventare “pronte”. I requisiti linguistici o culturali consolidano un modo di pensare profondamente antidemocratico, che ci riporta ai tempi in cui il diritto di cittadinanza era determinato dal censo e si giustificavano le esclusioni con argomenti paternalisti. Allora si diceva che chi non aveva mezzi economici, parlava solo il dialetto, non sapeva scrivere nella lingua nazionale o leggere i giornali era troppo ignorante per meritare il suffragio. È la stessa logica di esclusione che i vecchi aristocratici applicavano alla democrazia, solo aggiornata ai nostri tempi.

Cosa pensa dell’accordo Italia-Albania sui centri per migranti? Che effetto le fa vedere il suo paese di origine coinvolto in politiche che sembrano esternalizzare i confini europei in una logica puramente di deterrenza e contenimento?

È una delle pagine più tristi della nostra storia recente. Come albanese, mi colpisce profondamente: siamo un paese con una storia migrante drammatica, e ora ci prestiamo a una logica di esclusione, come piattaforma di contenimento per i rifiutati dell’Europa. Ci sono varie obiezioni a questo tipo di accordo: di natura giuridica (che ha a che fare con questioni di compatibilità con il diritto internazionale), politica (perché riduce la questione migratoria a un problema di sicurezza anziché di giustizia sociale), economica, perché si tratta di spese aggiuntive inutili che lo Stato potrebbe investire altrove eccetera. Ma quello che preoccupa davvero è che ormai questa sia la logica in cui si muovono non solo i governi guidati dalla destra radicale ma dell’intera Europa.

In Italia si voterà a giugno per un referendum sulla cittadinanza, che riduce da 10 a 5 anni il periodo di residenza minimo richiesto per poter fare domanda di cittadinanza. Come giudica questo referendum? È un passo nella giusta direzione?

È sicuramente un passo nella giusta direzione, non solo dal punto di vista normativo, ma anche simbolico. In un contesto in cui la cittadinanza viene spesso trattata come uno strumento di controllo, aprire un dibattito sul suo significato inclusivo e democratico è fondamentale. Il referendum ha il merito di riportare al centro del dibattito pubblico il legame tra partecipazione, identità e giustizia. Personalmente credo che la cittadinanza dovrebbe essere automatica per i migranti, per una questione di democrazia elementare: chi si assoggetta alle leggi dovrebbe anche contribuire alla loro creazione. Ma anche se questa proposta non risolve tutto, può essere un invito a ripensare chi ha diritto di appartenere, e su quali basi.

Questo articolo è stato pubblicato su MicroMega il 22 maggio 2025

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