Il suo corpo è stato ritrovato all’interno di una valigia. Come fa un corpo a stare dentro a una valigia? Sono i dettagli a raccontare l’orrore di una ragazza trattata come una cosa da nascondere e da buttare. Il femminicidio di Ilaria Sula, 22 anni, studente universitaria originaria di Terni, ci ha riportato improvvisamente al ritrovamento del corpo di Giulia Cecchettin, nel novembre del 2023: aveva la stessa età, e anche lei era stata prima assassinata dall’ex fidanzato e poi gettata in un dirupo nel bosco.
Sula, scomparsa il 25 marzo e ritrovata il 2 aprile, sarebbe stata uccisa nell’appartamento dell’assassino a Roma, mentre i genitori erano in casa. Il suo ritrovamento è arrivato a ventiquattr’ore dalla notizia di un altro femminicidio: quello di Sara Campanella, anche lei studente universitaria, anche lei ventiduenne. Uccisa a Messina per strada, in pieno giorno, da un compagno di università che da due anni la perseguitava e non accettava di essere stato rifiutato.
Secondo l’osservatorio di Non una di meno, i femminicidi nel 2024 sono stati 114, tredici dall’1 gennaio all’8 marzo del 2025. “Ogni volta che arriva un messaggio nella chat dell’osservatorio tremo, perché so che si tratta di un’altra donna uccisa”, afferma Maria Brighi, storica attivista del movimento femminista a Roma, durante la manifestazione del 2 aprile per Ilaria Sula.
L’osservatorio di Non una di meno si basa sulle notizie che vengono pubblicate sui giornali. È un archivio prezioso raccolto dalle attiviste, che fanno quello che le autorità non vogliono fare con serietà: tenere traccia, documentare e monitorare un fenomeno che è trasversale, riguarda tutte le classi sociali, ogni età e latitudine.
Il femminicidio però è solo la punta dell’iceberg: la cultura che lo produce è il patriarcato, un sistema di potere che assegna alle parole, ai pensieri, ai desideri e ai corpi delle donne meno valore in diversi ambiti e maniere.
Secondo la giornalista ed esperta di dati Donata Columbro, che al tema ha dedicato molte pubblicazioni, “fino a dicembre 2024 l’aggiornamento della pagina del ministero dell’interno dedicata agli omicidi riconducibili alla violenza di genere era settimanale, ma poi è diventato mensile senza alcun preavviso. A febbraio e a marzo nuovi report mensili non sono stati pubblicati. Dove sono i dati?”. La pagina del ministero è stata aggiornata il 3 aprile, dopo la denuncia della giornalista, ed è stato annunciato che l’aggiornamento dei dati sarà da ora in poi trimestrale.
Ma come è possibile adottare politiche serie di prevenzione e contrasto se i numeri sono indisponibili o parziali, se non c’è conoscenza sul fenomeno e se si chiudono gli occhi davanti a una realtà strutturale?
Linguaggio patriarcale
Non sono episodi, non sono raptus. Eppure anche il linguaggio che viene usato ogni volta per descrivere questi eventi sembra riportare ancora alla trama del “delitto passionale”, o al gesto sconsiderato di un folle. Grazie ai movimenti femministi globali, la consapevolezza delle donne e delle ragazze rispetto alla violenza è aumentata. Tuttavia, come riportano diversi studi siamo di fronte a una polarizzazione: da una parte una generazione di giovani sempre più autonome e consapevoli, dall’altra un crescente numero di ragazzi conservatori, che sviluppano rancore e risentimento verso l’autonomia femminile e il femminismo.
Uno studio pubblicato nel novembre del 2024 da Action Aid sottolinea che il 36 per cento delle donne italiane dichiara di aver subìto violenza verbale, psicologica o fisica da parte di un uomo nel corso della sua vita. Le più colpite sono le ragazze sotto i 25 anni, per le quali il fenomeno ha dimensioni allarmanti: quasi sei su dieci (il 57 per cento del campione) riferiscono di essere state vittime di qualche forma di violenza. È un numero molto più alto di quello rilevato nell’ultima indagine dell’Istituto nazionale di statistica (Istat, 2014).
Un altro dato preoccupante è il fatto che le donne non denunciano, non chiedono e non ricevono aiuto: l’84 per cento di chi ha subìto violenza dichiara di non aver ottenuto o cercato sostegno. Le ragioni, secondo lo studio, sono la vergogna, la mancanza d’informazioni su chi contattare, il timore di non ottenere l’aiuto necessario o la paura di ritorsioni da parte dell’autore della violenza.
L’altro dato rilevante è che una schiacciante maggioranza degli uomini nega di essere parte del problema: l’84 per cento dice di non aver mai manifestato comportamenti violenti, né fisici né verbali, nei confronti di una donna.
Uno studio del King’s college di Londra, ripreso dal Guardian, ha rilevato che un uomo su quattro sotto i trent’anni pensa che la sua vita sia più difficile rispetto a quella di una donna. Inoltre, il 16 per cento degli uomini nati tra la fine degli anni novanta e la metà del primo decennio del duemila pensa che il femminismo abbia causato più problemi che benefici.
È un movimento diffuso e ostinato, che arriva da lontano. E oggi, mentre sempre più donne giovani aderiscono a valori progressisti, molti uomini lo abbracciano, convinti di essere vittime del femminismo.
In questo quadro, la criminalizzazione del femminicidio con pene più severe proposto dal governo Meloni, si mostra nella sua più completa inadeguatezza. Da un lato, infatti, è importante che la parola “femminicidio” entri nel codice penale come avvenuto da tempo in altri paesi. Dall’altro, la mera criminalizzazione con pene esemplari non fa che peggiorare una dinamica che riduce i casi di violenza a eccezioni.
Per contrastare il fenomeno in maniera efficace si potrebbe intervenire in vari modi: cambiare il linguaggio, per esempio, ma anche affrontare la vittimizzazione secondaria o la colpevolizzazione della vittima da parte delle autorità e del racconto dominante, per cui nella maggior parte dei casi si cerca nella condotta della vittima di chi ha subìto violenza un motivo per attenuare o giustificare quella dell’aggressore. È successo ancora una volta con Sara Campanella, accusata di non avere denunciato il suo aggressore che da due anni la perseguitava. Ma perché le donne non denunciano? La risposta risiede nella visione di una società che non crede alla loro parola e che è ancora pronta a garantire impunità agli aggressori, fino a quando gli stessi non compiono gesti estremi.
Una donna che denuncia sa che non sarà creduta, che potrebbe essere ridicolizzata o sottoposta a scrutinio, che spesso dovrà pagare delle conseguenze perché la sua parola pesa meno di quella di un uomo. E in generale gli aggressori sanno di poter beneficiare di una diffusa immunità. Ma chi difende chi denuncia? Quali sono le azioni collettive messe in atto per proteggere la vittima, intervenire tempestivamente e isolare l’aggressore? Sono domande su cui c’è ancora molta confusione. Una società più giusta per le donne sarebbe il vero antidoto, ma nel frattempo?
Ispirandosi alla filosofa francese Elsa Dorlin, autrice del saggio Difendersi (Fandango Libri 2020), e a vecchie pratiche sempre presenti nella storia del movimento, le femministe fanno spesso ricorso a metodi di autodifesa collettiva. Ed è chiaro che parte del problema sono le reazioni di sorpresa o di estraneità della maggior parte degli adulti, che di fronte a casi di femminicidio riguardanti giovani ragazze attribuiscono facili responsabilità ai social network, alla tecnologia o alla scuola per giustificare la violenza sempre più efferata e precoce dei ragazzi. Le reazioni troppo naïf alla serie tv Adolescence ne sono un segnale: dietro alla sorpresa, infatti, si nasconde una profonda ipocrisia e il processo di rimozione complice della violenza.
Non bastano i corsi di educazione sessuale e affettiva nelle scuole, che insegnerebbero centralità del consenso, ma di certo sarebbero l’inizio di un processo in cui l’intera collettività si assume la responsabilità di una rimozione. Il minimo. Non è chiaro come possa essere d’aiuto riportare solo all’ambito familiare il tema della violenza di genere, come suggerito dalla garante per l’infanzia Marina Terragni, in un tempo in cui la stessa famiglia tradizionale vive una crisi strutturale e in molti casi è l’alveo in cui si apprendono comportamenti violenti o prevaricatori. In un’epoca in cui le crisi si moltiplicano – dalla pandemia alla guerra – e ritornano vecchi modelli come antidoti alla confusione e all’incertezza. È quello che la statunitense Susan Faludi avrebbe definito backlash.
In questo contesto, feticci come quello della famiglia tradizionale non reggono. Si dovrebbe fare la fatica di ricostruire un “noi”, un alfabeto emotivo ed affettivo comune per elaborare la perdita, la frustrazione, la rabbia, la paura e il risentimento. Parlare con uno psicologo dell’adolescenza aiuta a capire come a volte un adulto che ascolta con disponibilità e attenzione anche quello che è negativo e perturbante può cambiare il destino di un adolescente aggressivo.
La risposta più forte e credibile agli ultimi due femminicidi l’hanno data le ragazze e le studenti che sono scese in strada il 2 aprile a Roma e a Bologna, subito dopo la notizia del ritrovamento del cadavere di Ilaria Sula. Fianco a fianco si sono prese per mano, sotto braccio, hanno impugnato le chiavi di casa, facendo rumore. Hanno acceso fuochi e lacrimogeni nel buio della notte, gridando la loro rabbia e la loro paura. Ci hanno ricordato che vogliono vivere. Della violenza che si abbatte su di loro e su di noi siamo tutte e tutti responsabili.
Questo articolo è stato pubblicato su Internazionale il 4 aprile 2025