La modernità mette in crisi il potere del padre e del patriarca solo per costruire una nuova forma di patriarcato fraterno, in cui gli uomini stringono un patto fra loro per trarre profitto collettivamente dalla subordinazione e dall’esclusione delle donne.
La parola patriarcato, da qualche anno, torna prepotentemente alla ribalta intorno al 25 novembre: il lavoro politico del movimento femminista Non una di meno ha contribuito a rimetterla in circolo e l’anno scorso il dolore di Elena Cecchettin si è tramutato in rabbia collettiva denunciando proprio la dimensione patriarcale della violenza e parlando di femminicidi di Stato.
Con la stessa prepotenza figure autorevoli, spesso maschi, si precipitano a dirci che il patriarcato è finito, che la violenza contro le donne* è una forma di devianza, che le discriminazioni sono questioni individuali e che in fondo siamo sempre le solite esagerate. Quest’anno è toccato prima al ministro dell’istruzione Giuseppe Valditara, che ci ha informato che il patriarcato esiste al limite solo tra i musulmani (subito sostenuto da Giorgia Meloni); poi al filosofo Massimo Cacciari, che ci ha ricordato che il patriarcato è finito da 200 anni e che comunque è in crisi dal Rinascimento; e, infine, alla ministra delle Pari opportunità Eugenia Maria Roccella che, fuori dal coro, ci rivela che il patriarcato esiste, ma ha cambiato forma, assumendone una nuova e pericolosa.
Come ha sottolineato Massimo Prearo, «Roccella parla dell’oppressione delle donne in Iran, delle nuove forme di patriarcato (leggi ideologia gender), del ruolo della scuola e della famiglia, ma soprattutto del primato della famiglia», identificando con il patriarcato «le schwa, le filosofie gender, la negazione che possa essere usata la parola donna» e pensando come soluzione delle proposte educative che assicurino la continuità tra la scuola e la famiglia (ma potremmo dire meglio tra lo Stato e la Famiglia), enfatizzando le differenze dei generi in una chiave di complementarietà. Da tempo Roccella sta infatti sfruttando alcune parole chiave del femminismo – come differenza e autodeterminazione – per proporre un’idea di società conservatrice, in cui le donne possono essere riconosciute come cittadine, sì, ma continuando a svolgere i ruoli tradizionali di moglie e madre, di colei che cura e accudisce, di essere «sentimento» di fronte alla razionalità e alla forza maschili, a cui sono demandati altri compiti, complementari, appunto.
Entrare nel mondo degli uomini
Si tratta di una concezione che riecheggia la teoria delle sfere separate di ottocentesca memoria: un’ideologia paradossale, di potere e impotenza insieme, in cui per le donne l’esclusione dal mondo pubblico della politica e del lavoro (e dal potere economico) era compensata dal potere affettivo della «casa»; l’esclusione delle donne dall’azione politica significava comunque presentare un’alternativa affettiva che non solo dava alle azioni politiche il loro significato emotivo, ma oltre a ciò, collegava intimamente i corpi individuali – anche quelli esclusi dalla sfera pubblica – al corpo nazionale. In sostanza, alle donne veniva chiesto di formare il corpo della nazione, di costruire il legame affettivo tra Patria e cittadini, pur rimanendone formalmente escluse.
E su questo Valditara ha ragione: la struttura legale è cambiata e le donne sono incluse a pieno titolo nella cittadinanza e nei diritti che ne conseguono, compreso quello di essere formalmente uguali al marito e titolari di diritti sui figl*. Ma qui la parola chiave è «incluse»: i cambiamenti legislativi, infatti, hanno permesso alle donne di entrare, per citare Simone de Beauvoir, nel «mondo degli uomini», ma restando alle loro regole. Non è un caso che ancora nelle nostre leggi si parli del «buon padre di famiglia» come di un modello universale di buona condotta e di buon senso, a testimoniare come la norma sia implicitamente quella maschile. Ciò dimostra che il patriarcato non è solo un ordine normativo, fatto di leggi e codici, ma è la struttura portante della società, fatta di divisione del lavoro, forme di oppressione, violenza intima e pubblica insieme, e immaginari sociali.
Ancora, in fondo, viviamo in sfere separate, in cui il mondo pubblico è maschile e le donne – e tutte le soggettività femminilizzate – per accedervi devono conformarsi a questo modello o presentarsi come eccezioni: un solo esempio, su tutti, è quello dei congedi parentali che segnano un’eccezione rispetto al tempo del lavoro e che, per questo, non sono attribuiti agli uomini (che, va detto, fanno anche poche battaglie per vederseli riconosciuti), confermando così la divisione dei ruoli genitoriali. Corpi e soggettività, così, vengono iscritte in forme di relazione familiare che sostengono la struttura della società, pur restandone formalmente escluse, relegate nella dimensione del privato. E in questo senso la divisione tra pubblico e privato non solo perpetua l’esclusione delle donne ma rafforza anche una concezione di società omogenea e maschile e, in una parola, patriarcale. Infatti, i soggetti politici continuano a venire presentati come neutri, astratti, ma, guardando alle loro caratteristiche – autonomia, indipendenza, razionalità – continuano a rivelarsi come maschili.
In un saggio del 1992, significativamente intitolato Finding the Man in the State, Wendy Brown sottolinea come siano proprio questi soggetti a dare forma allo Stato. Lo Stato è «maschile» non nel senso di essere dotato di una qualche qualità intrinsecamente mascolina, ma poiché si è «progressivamente appropriato di tutti quei poteri – prima esercitati direttamente dagli uomini – che danno forma alla vita delle donne»: in questo senso, non serve che ci sia ancora il capofamiglia perché continui a esistere un patriarcato che fonda le istituzioni stesse. Brown, infatti, ci ricorda che «lo Stato può essere maschilista senza perseguire intenzionalmente o palesemente gli ‘interessi’ degli uomini» proprio perché sono le molteplici dimensioni della mascolinità egemonica a plasmare l’idea stessa di cosa sia il potere e le forme di dominio che consideriamo legittime. Sono le strutture di potere e di differenziazione, così, a essere «maschili», piuttosto che il loro contenuto specifico: una differenziazione che agisce costruendo anche gruppi diversi di donne, lungo le linee della protezione che lo Stato offrirebbe ad alcune di loro. La protezione, infatti, caratteristica costitutivamente centrale per la sovranità, assume alcuni tratti peculiari e paradossali quando si tratta di tutelare i corpi femminili poiché, come sottolinea Brown, le tecnologie di protezione si rivolgono solo ad alcune donne, mentre altre diventano violabili, finendo per «intensificare la vulnerabilità e la degradazione di quelle che si trovano sul lato non protetto della divisione costruita tra chiare e scure, mogli e prostitute, brave e cattive ragazze».
In questo senso la protezione dei corpi femminili diventa la paradossale istituzione che ne ricorda la vulnerabilità e l’esclusione. Una protezione che agisce, però, solo contro minacce «esterne» senza saper tutelare le donne* dalla violenza nelle relazioni intime, che diventa invisibile proprio perché relegata nel privato. Le donne da proteggere sono sempre le nostre, tanto che viene sempre usato un espediente retorico per condannare la violenza sulle donne: «pensa se fosse tua sorella/tua figlia/tua madre?» si chiede, implicitamente rivelando che la vita e l’integrità delle donne è valida solo finché sono in relazione a un uomo ed è pensabile solo se un uomo può riferirla a sé e a un senso di possesso. In conclusione, si tratta di una forma di protezione che rinforza quelle stesse strutture della parentela e quella concezione delle donne come proprietà che rende possibile la violenza.
Il patriarcato fraterno
Proprio per questo, la critica femminista, fin dalle sue origini, non si limita a estendere uno sguardo pubblico alle dimensioni tradizionalmente considerate private, allargando una sfera per includervi nuovi aspetti. Al contrario, l’intima connessione tra privato e pubblico è stata notoriamente messa in luce da Carole Pateman nella sua opera più celebre – Il contratto sessuale – in cui analizza il contratto che precede e fonda l’istituzione della società civile, trasformando il patriarcato non più nel dominio solitario del padre, ma in un legame egualitario tra fratelli che esclude le donne dalla politica. In questo senso Cacciari ha ragione: la modernità mette in crisi il potere del padre e del patriarca per costruire una forma di patriarcato fraterno, in cui gli uomini stringono un patto fra loro per trarre profitto collettivamente dalla subordinazione e dall’esclusione delle donne. Questa esclusione fonda lo statuto peculiare delle donne, mai pienamente uscite dallo stato di natura, pur essendo parte della società, mai pienamente incluse pur essendo cittadine. Tuttavia, Pateman sottolinea anche come questa esclusione sia proprio il fondamento della società civile, che si fonda proprio sulla presenza di una sfera privata che rende possibile quella pubblica: banalmente, i cittadini devono avere qualcuna che si prende cura di loro, della loro infanzia e della loro riproduzione per poter agire nello spazio pubblico e l’autonomia considerata necessaria all’azione politica è resa possibile dall’invisibilizzazione e dalla spoliticizzazione dei legami di dipendenza relegati alla sfera privata. L’uguaglianza degli uomini – maschi, riuniti dalla fraternità – è resa così possibile dalla costruzione della disuguaglianza femminile, che viene sì istituita con il «contratto sessuale», ma è configurata come naturale e prepolitica: «le relazioni ineguali della vita domestica sono così ‘per natura’, e perciò non sminuiscono l’eguaglianza universale propria del mondo pubblico». In questo modo Pateman mette in luce che «‘naturale’ e ‘civile’ sono allo stesso tempo in un rapporto di opposizione e di mutua dipendenza», sottolineando come la pretesa di costruire la dimensione politica come separata da quella privata sia la struttura che permette di giustificare la subordinazione delle donne come naturale e razionale allo stesso tempo.
I fratelli (d’Italia?) e non più il padre sono quindi il soggetto del patriarcato contemporaneo, che si nutre di due concetti e di due strutture solidamente intrecciate: la Patria e la Famiglia. I fratelli, infatti, possono pensarsi come uguali, come parte di una comunità coesa, proprio perché la loro uniformità è garantita dall’aver pensato le donne come diverse – e inferiori – e dal grado di potere che in maniera uguale agiscono e detengono su tutti i soggetti femminili e femminilizzati. La famiglia è necessaria non solo alla riproduzione della Patria, ma anche alla garanzia della tenuta della separazione tra pubblico e privato che rende possibile immaginare i soggetti come uguali e le Nazioni come omogenee.
Questi legami sono stati messi in luce in maniera chiarissima da Virginia Woolf, la quale, ne Le tre ghinee, osservando come lo Stato tratta le donne, sottolinea la distanza delle donne dal patriottismo e mostra come diventa ridicola anche l’idea di spronare i maschi ad andare in guerra per difenderci, dato che sono gli stessi maschi a opprimerci in Patria. Woolf dichiara, notoriamente, che la nostra patria in quanto donne è il mondo intero e lancia un attacco allo Stato nazionale in generale, per suggerire che gli Stati nazionali sono intrinsecamente gerarchici, militaristi, maschilisti e violenti. La loro violenza viene rivolta non solo contro le donne, ma contro tutte le persone «vulnerabili», che sono in qualche modo escluse dal contratto sociale. Woolf sottolinea quanto l’oppressione tra le mura domestiche nutra quella globale e mette in luce come lo Stato usi la guerra e la paura della guerra per mobilitare i vulnerabili e gli emarginati spingendoli verso il patriottismo; come la giustificazione del potere dello Stato si basi su una retorica di genere della protezione; come le vittime della guerra siano sempre i civili, i «cadaveri e le case in rovina» in Spagna, le cui fotografie costellano il testo di fianco alle immagini di generali decorati di molte medaglie.
Non è un fatto privato
Collegare l’oppressione di Stato a quella intima di genere che avviene nelle famiglie permette, ancora una volta, di rompere la distinzione tra spazio pubblico e spazio privato, mostrando come le due sfere si compenetrino a vicenda e come si influenzino reciprocamente. Per meglio mettere in luce questa compenetrazione Woolf compie un gesto scandaloso, paragonando le affermazioni dei giornali e dei politici britannici con quelle di Hitler e Mussolini, che in quello stesso momento vengono descritti in Gran Bretagna come dittatori. Con incredibile lucidità scrive:
leggiamo quest’altro brano: «Esistono due mondi nella vita di una nazione, il mondo degli uomini e il mondo delle donne. È stata saggia la Natura ad affidare la protezione della famiglia e della nazione all’uomo. Il mondo della donna è la famiglia, il marito, i figli, la casa». L’uno è scritto in inglese, l’altro in tedesco. Ma che differenza c’è? Non dicono la stessa cosa? Non sono, l’uno e l’altro, le voci di due dittatori, anche se l’uno parla la lingua inglese e l’altro la tedesca, e non ci troviamo tutti d’accordo nel ritenere che i Dittatori, quando li si incontrano all’estero, sono animali pericolosissimi, oltre che molto brutti? Eccone qui uno, in mezzo a noi, che alza la testa ripugnante a sputar veleno; è ancora piccolo, arrotolato su se stesso come un bruco su una foglia, ma è qui, nel cuore dell’Inghilterra.
Attraverso questo paragone Woolf porta la sua critica al nazionalismo alle più estreme conseguenze, paragonando l’oppressione pubblica a quella privata e mettendo in luce come le tirannie del mondo privato nutrano lo spazio pubblico. Si tratta di un ripensamento radicale non solo del nazionalismo e della struttura degli Stati, ma anche della stessa idea di che cosa sia la politica e quali relazioni, spazi e comportamenti contino come pubblici.
Al termine di tutte queste riflessioni credo emerga più chiaramente perché il dibattito sul patriarcato e la sua persistenza non sia un ozioso dibattito di storia dei concetti, ma sia utile per poter leggere le tensioni del presente. Dire che il patriarcato non esiste più, o imputarlo ai migranti, ai musulmani, alle lobby gay o al gender, significa di nuovo relegare l’oppressione delle donne*, la violenza che subiamo e le discriminazioni che fronteggiamo, a un fatto privato, emendabile con qualche piccola riforma e con un po’ di diversa educazione, senza bisogno di scalfire la struttura sociale. E significa anche, soprattutto, rafforzare l’idea di una nazione bianca, omogenea, liscia formata da famiglie eterosessuali in cui l’idea di complementarietà nasconde le gerarchie che permangono e in cui l’unica libertà possibile è quella di conformarsi al modello già esistente. E anche per questo abbiamo ancora più bisogno di continuare battaglie femministe che mirino a sovvertire il contratto sociale, i confini (quelli materialissimi delle frontiere e quelli tra pubblico e privato), le nazioni e le famiglie.
*Carlotta Cossutta è ricercatrice in filosofia politica. Si occupa di filosofie femministe, storia del pensiero politico delle donne e teoria critica. Le sue riflessioni sono nutrite dalla partecipazione ai movimenti transfemminsti e queer.
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin il 23 novembre 2024