Come certo saprete miei smaliziati lettori, esiste tutta una categoria letteraria di libri cosiddetti mondo, indicando con questa definizione libri che propongono grandi affreschi e letture-costituenti del piano di realtà e della rappresentazione di processi, interazioni, rapporti di forza interni alla società, che è entrata in una sorta di stato di crisi permanente, stante l’enorme difficolta di avere una unitarietà di ispirazione in seno all’attuale assetto cultural politico. La frammentazione diffusa dei dispositivi di classe, la liquidita delle relazioni, il flusso nomadico delle esistenze, la perenne condizione esibizionistico cronachistica in cui siamo
Oggettivamente immersi, tutto congiura per riportarci nei dintorni di narrazioni periferiche e ombelicali in cui l’autobiografismo minimalista la fa da padrone.
Naturalmente neppure la scena teatrale è esente da rischi di questo tipo, ma se questo si verifica in special modo nel nostro paese è perché in qualche modo tutto il sistema formativo culturale comunicativo e informativo italiano vive in questo momento un difficile momento entropico, legato al definanziamento, al depotenziamento di strutture, logistica, dispositivi. Nei nostri teatri, quando parliamo di giovane drammaturgia, siamo ormai oltre la stagione dei gruppi, o piccole compagnie, perché in realtà la media statistica è fondamentalmente costituita da gruppi molto piccoli che potremmo quasi definire a conduzione familiare che si avvalgono di collaborazioni a progetto e la gran parte degli spettacoli che vediamo in scena sono assoli o monologhi. Debole è il sistema delle residenze ed anche codificato in realtà esemplari e meritorie che però configurano ancora una sorta di lirica separatezza degli artisti dal consesso umano più quotidiano. Di qui discende anche una grande difficoltà da parte degli artisti e degli addetti a concepirsi come lavoratori, con tutto il coté di sacrosante lotte sindacali che ne potrebbe scaturire (vedasi l’esempio francese con la legge sull’intermittenza), come pure la scarsa porosità all’inclusione di tematiche o drammaturgie o figure artistiche e professionali di provenienza o origine altra o di seconda generazione cui casomai sono riservati altri ambiti espressivi piuttosto che i cartelloni dei nostri teatri nazionali. Sui teatri nazionali poi naturalmente andrebbe fatta anche una riflessione ulteriore riguardo alle nomine dirigenziali spesso molto discutibili e legate nei nomi e nelle programmazioni spesso a scelte autarchiche e provinciali non certo atte a tratteggiare la complessità delle transizioni epocali che ci troviamo ad attraversare volenti o nolenti. Va da se che teatri di stampo privatistico debbano sopravvivere con l’intrattenimento o con forme spurie di eventi, molto lontane in realtà dai criteri di performatività, quali i famigerati talks di figure di spicco dell’opinionismo televisivo generalista o, se proprio si vuole essere alternativi, di influencers a vario titolo. Chi oggi si potrebbe permettere una cantina, una cave sperimentale fuori dalla religione dell’apericena in qualche centro storico delle nostre città? O ancora chi in periferia potrebbe provarsi in qualche attività teatrale se non ricorrendo a spazi di tipo pubblico che siano di proprietà di enti locali o di terzo settore, ottenuti dopo faticose mediazioni e un certo burocraticismo quando va bene come qui da noi, cosa impossibile certo al Sud.
A questo punto arriviamo al discorso delle funzioni e del ruolo del teatro pubblico per eccellenza nella nostra regione ovvero quell’Ert Fondazione, teatro nazionale appunto che è in realtà un insieme di sale opportunamente distribuite tra Emilia e Romagna, dotato di una scuola dell’attore, di una capacita produttiva oltreché distributiva e di funzioni di cuscinetto e riassorbimento rispetto al bacino giovane di cui si diceva o rispetto al mantenimento sotto propria gestione di gloriose sale indipendenti come il teatro delle Moline, per esempio. Tutto questo non avviene certo senza rischi o limiti o criticità e probabilmente non siamo ancora ad una piena e realizzata messa a regime di un delicato meccanismo da oliare per bene. Tutto questo ci serve per dire però che se c’è una istituzione che può assumersi un ruolo di allineamento rispetto a produzioni e drammaturgie di grande respiro( nel senso di impegno produttivo e anche contenutistico ), a livello di continente europeo, nello stesso tempo realizzando opera di scouting che io definisco di secondo livello e favorendo l’incontro generazionale transnazionale sul palco e in platea questo è proprio ERT. Cosi venendo ai casi specifici in esame, non deve meravigliare se il più recente lavoro di Kepler452, che già con il Capitale ci avevano dimostrato come una residenza è una residenza, una residenza e come tale può essere eterodossa, dunque in una fabbrica occupata, per esempio, ora con questo A place of safety, viaggio nel Mediterraneo centrale, vengono a consegnarci un lavoro, che definirlo spettacolo, pur essendolo a pieno titolo, pare persino irrispettoso, di caratura europea, inserito a pieno titolo e pure distaccandosene, in quella sorta di ambito documentaristico e site specific, che comunque prevede il coinvolgimento di figure attoriali non professionali e, più in generale come si vede sui palchi di Francia e Portogallo o in certi testi anglosassoni, una dimensione di coralità, anche quando si attinga alla fiction e dove che il piano sia memorialistico, cronachistico, antropologico,, il piano simbolico sia sempre strettamente al servizio di una puntuale lettura dei passaggi e dei dilemmi etici cruciali che l’attualità ci propone. Senza per questo dover ammiccare alle debolezze delle nostre individualità massificate come accade nelle forme di commedie o stand up, partecipata. Non si punta il dito qui a vizi e debolezze, non si titilla la potenziale ansia da protagonismo di cui comunque siamo tutti afflitti, ma si cerca piuttosto un coinvolgimento del pubblico razionalizzato e collettivo, dunque, in definitiva, politico. Una nuova via al magistero dimostrativo di Brecht.
Ma veniamo ai fatti: stiamo dunque parlando di una ideazione ad opera di Kepler-452, per la regia e drammaturgia congiunta di Enrico Baraldi e Nicola Borghesi. Poiché però il lavoro è realizzato in collaborazione con Sea Watch ed Emergency avremo sul palco le parole e i corpi di Flavio catalano, Miguel Duarte, Giorgia Linardi Floriana Prati, Josè ricardo Pena e, naturalmente Nicola Borghesi. Importantissimi risultano i contributi di Maria Domenech al disegno luci e di Massimo Carozzi per il suono e le musiche, come pure la consulenza al movimento della pluripremiata Marta Ciappina, mentre sottolineiamo la giovanissima Roberta Gabriele nel suo debutto alla assistenza alla regia. Altrettanto qualificante è il comparto degli associati alla produzione che sono due importantissime realtà quali il teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia e il Teatro Metastasio di Prato, ma poiché il progetto è sostenuto da un bando europeo si segnala anche la partnership con il Teatro dei 13 venti di Montpellier.
L’antefatto è forse noto, ma mi pare giusto riferirsi alle parole dirette di Borghesi e Baraldi in sede di conferenza stampa aperta e collettiva, sul fatto che questo ultimo lavoro si pone idealmente sulla scia del Capitale ma esprimendo un bisogno quasi fisico di espansione e allargamento degli orizzonti e di trovare quei famosi collegamenti che nell’agire politico quotidiano che sia di opposizione, alternativa o aperto antagonismo, sono tuttavia difficilissimi da rintracciare. La posta in gioco come si evince è altissima ed è quella della ricostituzione di un nuovo umanesimo no border rispettoso però di tutte le culture e le differenze. Questo bisogno dei nostri autori si è così concretizzato prima in una permanenza preparatoria a Lampedusa eppoi sull’imbarco sulla Sea Watch 5, durato circa 5 settimane, durante le quali l’imbarcazione ha effettuato missioni di search and rescue per un salvataggio totale di 156 persone non particolarmente problematico per i parametri di difficolta e tragicità che questi equipaggi internazionali si trovano ad affrontare. E a proposito di questi, merita un approfondimento certamente l’aspetto biografico di chi vediamo padroneggiare la scena con grande inusuale sicurezza e padronanza dei propri mezzi, ovvero Flavio Catalano, ufficiale tecnico sommergibilista in pensione ora volontario su life Support per Emergency, Miguel Duarte, fisico matematico portoghese, membro dal 2016 della famosa incriminata nave Iuventa cosa che lo ha reso passibile di una condanna a venti anni di carcere ed oggi capo missione per Sea Watch, Giorgia Linardi, giurista portavoce di Sea Watch, Floriana Pati infermiera specializzata in medicina della migrazione, Jose Ricardo Pena, nato in Texas da immigrati messicani, elettricista sulle navi prima di diventare volontario con Sea Watch. Questi veri e propri agenti-reagenti della narrazione, sono stati il frutto di un vero e proprio processo di casting, per individuare nelle loro esperienze le tappe proprie di ogni missione che si rispetti, ovvero la paura prima di partire, le motivazioni che spingono a partire, ciò che accade in avvicinamento alla zona delle operazioni, il soccorso in quanto tale per come praticamente si svolge, il ritorno con il contorno di tutti gli aspetti più contraddittori ad un occhio neofita come quello espresso da Borghesi in scena. Ovvero, la festa, la voglia di gioiosità degli scampati, il loro costituirsi non come massa amorfa di profughi per come li vediamo noi, ma come insieme di soggettività ed esperienze diversissime tra loro, il loro atteggiamento nei confronti delle sacre sponde patrie che noi guardiamo quasi con annoiata sufficienza e per loro sono fonte inesauribile di sorprendente bellezza. Tutti aspetti che noi vediamo mediati appunto dal nostro sguardo, cosa molto dibattuta sia in sede di conferenza stampa che poi in un più che partecipato incontro domenicale con il pubblico dopo la prima : ovvero come raccontare nel modo più giusto una soggettività altra da noi e soprattutto in questo caso, senza vittimizzarla, se fosse opportuna diretta presenza in scena. A questo proposito la compagnia confessa di averci anche pensato e provato per poi constatare che esce un quadro più veritiero e chiaroscurale della questione oltre il salvataggio umanitario puro e semplice, se con questa assenza si descrive bene la nostra arretratezza politica, civile e culturale in merito. Cosi come decisiva per la forza evocativa del racconto la presenza dei protagonisti effettivi dei salvataggi in scena : attori pure preparatissimi non avrebbero potuto restituire la forza di una interrogazione che questo lavoro pone al centro dell’agora: non tanto come e perché accadano certe cose, quali i meccanismi di assurdi accordi geopolitici e marittimi che pure si riverberano nelle registrazioni che vengono trasmesse dei rimpalli tra guardie costiere e regolamenti impeditivi ostativi sempre nuovi e diversi ben esemplificati dalle lunghe peregrinazioni per poter adire finalmente al porto di sbarco, l’agognato place of safety, appunto. Piuttosto esce con una forza che cattura, commuove e fa persino male, la motivazione o meglio le mille e diverse motivazioni etiche politiche esistenziali e biografiche che spingono persone pure comunque qualificate ed altrimenti impegnate a dedicare un pezzo consistente della loro vita a queste organizzatissime comunità di bordo, dove ciascuno sa perfettamente cosa fare in sincrono quasi coreografico accordo con tutti gli altri: lo spirito di un unico compatto corpo vivente orientato e indirizzato ogni volta dalla “missione” di turno. Questa percezione che noi della terraferma, noi frammentati nelle nostre individualità e nei nostri lavori smart, non possiamo nel nostro quotidiano per quanto attivistico, catturare in nessun modo, è l’impatto più forte di questo spettacolo che si spera di poter vedere e rivedere in autunno e che compatibilmente agli impegni dell’equipaggio, pardon del cast, possa ambire ad una fortunata tournee europea. Impatto che non viene meno rispetto alle scelte di chi a un certo punto si sente saturato dall’esperienza e sente il bisogno di scendere, per magari volgersi a territori più familiari ma non per questo meno di frontiera come le nostrane postazioni di pronto soccorso ospedaliero. Parimenti interessante l’altro sottotesto di questo spettacolo che è quello delle motivazioni ad andare in scena per chi è avvezzo ad una vita tutt’altro che esibizionistica. Ed anche questo ci viene in sottotraccia restituito: la voglia di misurarsi, sfidarsi ed imparare e mettere a valore in contesti diversi di chi è abituato a farlo da postazioni molto particolari e implicitamente, anche se non è il tema propriamente in oggetto, di esplicitare con orgoglio l’attitudine disinteressata e umanitaria delle organizzazioni di appartenenza, tacciate di ogni sorta di meschinità e doppiogiochismo da una comunicazione mainstream becera e aggressiva. Lo spettacolo sobrio, scarno in una scena di francescana eleganza che evoca grazie ad artifici tecnologici visual, il ponte di una nave, vive di intensità e compresenza di tutti gli interpreti in scena. Impeccabile anche la partitura sonora. Filano via in grande liquida fluidità circa due ore come avrete compreso in qualche modo anche didattico-tecniche rispetto a diversi altri lavori teatrali di narrazione pur molto significativi e premiati che in questi anni si sono succeduti sul fenomeno migratorio. Un punto di vista inedito perché nessuno appunto dei nostri grandi comunicatori di solito spende mezza riga per spiegarci qualcosa delle ong, del perché della loro esistenza, di chi le sostanzi, certamente umani troppo umani con tutte le loro fragilità, vulnerabilità, paure e debolezze, motivazioni anche inconsciamente supplettive di mancanze ben lungi dall’essere e sentirsi eroi. Cosa che si traduce a ben vedere in una chiamata in causa diretta di noi che stiamo a guardare passivamente e certo potremmo darci da fare un po’ di più e se proprio non sappiamo dire una battuta o soffriamo il mal di mare, o siamo patologicamente “inutili” a livello pratico, così come si descrive Borghesi in incipit, possiamo fare molto per il dopo qua, che si lascia intuire, abbia una serie di drammatiche criticità pari al pericolo del viaggio.
Un altro spettacolo di sicuro impatto, in questo caso molto discusso perché legato alle recenti assegnazioni dei premi Ubu e ispirato ad un recente romanzo italiano che, appunto attraverso una chiave sia fortemente simbolica che di genere e rifacendosi ad atmosfere noir e addirittura pulp, ha tentato l’affresco di uno spaccato sociale molto preciso è la Ferocia di Vico Quarto Mazzini. Michele Altamura e Gabriele Paoloca da Bari, hanno ideato e dirigono, ma sono anche tra gli interpreti, coadiuvati dall’ottimo adattamento di Linda Dalisi, di un testo complesso, ricco per rimandi lirici e simbolici che è datato già 2015, ma assurge nella resa teatrale a paradigma universale di uno stato delle cose che riguarda in particolare il nostro sud, ma inerisce in particolare l’avidità capitalista e il determinismo di ruoli e aspettative bestialmente feroce, appunto, dei legami familiari che siano di sangue, bastardi, o anche acquisiti.
La famiglia Salvemini coacervo di ambiguità e rapporti irrisolti viene rappresentata in modo frontale quasi didascalico a tutta vista spesso intorno a un tavolo di agape sempre mancata e raccontata con trovata azzeccatissima, come al telegiornale, da uno schermo laterale con tanto di giornalista commentatore per i passaggi più salienti e da cronaca nera della saga. Commentatore, con velleità da reporter d’assalto che poi si soggettivizzerà rivelandosi in qualche modo implicato seppure nel ruolo di vittima negli intrighi della potentissima e per questo tragica famiglia. Il vulnus sta infatti qui, che la grande disponibilità di mezzi anche illegalmente ottenuta non solo consenta privilegi e vizi irrinunciabili e inconfessabili a tutti i componenti della famiglia, ma consenta loro di spadroneggiare spesso in cricche informalmente organizzate su tutto il circostante, sporcando e corrompendo in pratica persone e situazioni che capitino nel loro raggio d’azione. Leonardo Capuano e Francesca Mazza sono magistrali seppure in modalità opportunamente molto diversa a disegnare la coppia capofamiglia più che dal dolore e dalla vergogna, segnata dal disgusto reciproco e dal disappunto iracondo e da lesa maestà del primo, annoiato, cinico e rassegnato della seconda per quanto alla fine, non è andato esattamente secondo i piani e le aspirazioni.
Anche in questo caso il ritmo dello spettacolo che si è aggiudicato l’Ubu, oltre a quello per i protagonisti e per il disegno luci di Giulia Pastore, è serrato e non lascia scampo allo spettatore che segue sostenuto appunto da una narrazione plurale ed efficace se consideriamo l’intrigo della trama che scorre anche trasversalmente nel tempo, a sottolineare l’aspetto archetipico del male, senza fiatare una storia fosca e truce di perdizione tra appalti che contano più delle orge e delle sevizie, più della salute mentale fortemente compromessa dei singoli e dell’insieme, più dell’amore. L’amore che legava in modo forse non troppo ortodosso, seppure incompiuto Clara, la figlia oggetto sacrificale del desiderio di tutti, autentico capro espiatorio dinastico, al fratellastro illegittimo Michele, l’outsider sabotatore autosabotato, votato al fallimento, nel ruolo qui tragico non solo di un presunto contrappunto intellettualistico, o del folle di dio ma di chi compie l’agnizione tramite una sorta di inconsapevole detection, venendo a contatto con testimoni e personaggi dal presente e dal passato che lui, autoesiliatosi a Roma, riesce in qualche modo a far parlare e a vedere per il ruolo che hanno effettivamente avuto. Un finale rosa qui non può esserci, anzi, ma in qualche modo la tragedia esige la catarsi attraverso la perdita totale che verrà provocata da un atto risolutivo dell’imbelle Michele : sta a noi se giudicarlo una Dike in azione o un ennesimo cupio dissolvi da parte di lui.
A mio avviso forse sta un po’ qui la debolezza del costrutto e lo sottrae in parte a questa dimensione socialmente antropologicamente emblematica che ambirebbe avere, proprio nella figura del drop out figlio bastardo e contestatore, ma comunque connivente nelle firme patrimoniali da apporre, ovvero nel fatto che il suo ruolo amletico viene risolto un po’ romanticamente e sbrigativamente sul finale con atto di insolita lucidità, ma questa percezione probabilmente non può essere addebitata del tutto ad una messinscena compatta e nei momenti migliori intrisa persino di una pietas classicamente intesa.