La tragedia del Salvemini di Casalecchio, un lutto non ancora elaborato dopo 35 anni

di Giampiero Moscato /
9 Dicembre 2025 /

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Il 6 dicembre ‘90 un Macchi dell’Aeronautica militare in panne fu portato su Bologna per un atterraggio di emergenza. L’aereo, nell’eiezione del seggiolino del pilota, deviò sulla scuola di Casalecchio, uccidendo undici ragazze e un ragazzo di nemmeno 15 anni, ferendo 88 persone. In quelle ore si consumava un lutto anche per un cronista che doveva raccontare quell’inferno. La fine di troppe giovinezze fu in qualche modo anche la sua. Ai familiari delle vittime della 2ª A il più commosso cordoglio

Sono passati 35 anni dal disastro aereo dell’Istituto Salvemini di Casalecchio di Reno. È doveroso ricordare anche su Cantiere questa tragedia. È pure molto doloroso farlo. Ero un giovane cronista dell’Ansa e fui tra quelli che dovettero raccontare il dramma di 12 giovani vite spezzate, la sofferenza di 88 feriti, lo strazio di centinaia di famiglie, lo scempio di una comunità gioiosa come normalmente è una scuola. Quel giorno la sciagura che falciò un nugolo di ragazzini, insieme a un tristissimo fatto privato (in coda mi permetterò di raccontarlo), provocò anche la fine della mia giovinezza. Proverò a riordinare i fatti e le idee.

Erano le 10.33 del 6 dicembre 1990 quando un Aermacchi MB-326 dell’Aeronautica militare, decollato alle 9.48 dall’aeroporto di Verona-Villafranca per una missione di calibrazione dei sistemi di difesa, fu abbandonato dal pilota a causa di una grave avaria e si schiantò sul muro dell’edificio scolastico. Il sottotenente Bruno Viviani, 24 anni ma con già 740 ore di volo di esperienza, si accorse che non sarebbe riuscito a fare l’atterraggio di emergenza al “Marconi” e provò a puntare il velivolo, ingestibile, verso la collina. Quindi si lanciò con il seggiolino eiettabile e il paracadute, manovra che gli salvò la vita. La piccola esplosione programmata nella manovra di eiezione del seggiolino purtroppo creò le premesse del disastro. L’onda d’urto fece deviare il “Macchino”, come affettuosamente veniva chiamato in aviazione, e così, invece che su una parete disabitata della collina, precipitò come un meteorite all’interno della classe 2ª A. Fu l’inferno. Dentro il Salvemini c’erano quasi 320 persone tra studenti (la grandissima maggioranza), docenti e personale. In quella classe sventurata il bilancio fu spaventoso: 12 allievi su 16 – 11 ragazze e un ragazzo tra i 14 e i 15 anni – restarono uccisi sul colpo. Feriti gravemente ma si salvarono gli altri quattro, così come l’insegnante Cristina Germani, che stava tenendo lezione di tedesco.

Qualche minuto dopo un numero impressionante di ambulanze, mezzi dei vigili del fuoco, volanti e gazzelle imboccarono l’asse attrezzato che da via Emilia porta a Casalecchio, diretti alla scuola sventrata. Io viaggiavo sulla carreggiata opposta. Rimasi sconvolto. Non avevo mai visto una manovra di soccorso così imponente; il 2 agosto ’80 non ero a Bologna. Fermai l’auto a una cabina telefonica (all’epoca i cellulari stavano appena entrando in commercio) e chiamai l’Ansa, descrivendo ciò che avevo visto. Rispose il mio capo, il compianto Paolo Castelli, che concitatamente mi disse cosa era accaduto e mi chiese dove fossi. Ero a poche decine di metri dal Maggiore, dove stavano convergendo i casi più gravi: «E allora vola al Pronto soccorso», intimò.

Fu un servizio spaventoso. In attesa c’erano familiari disperati. Uno stillicidio. Ogni tanto usciva qualche ragazzo, con la pelle annerita dal fumo ma vivo. Ricordo con spavento il contrasto tra il sollievo di chi poteva riabbracciare la propria creatura e chi invece dovette attendere inutilmente, fino a quando qualcuno venne a comunicare che per dodici di loro non c’era stato nulla da fare. Quello strazio – una scena devastante per me, immaginiamo cosa significò per loro – toccò ai cari di undici ragazze e di un ragazzo. Degli 88 feriti, 72 riportarono invalidità permanenti più o meno gravi.

Il processo alla fine assolse Viviani e due suoi superiori, accusati di omicidio colposo plurimo e disastro aereo. In primo grado erano stati condannati a due anni e sei mesi nell’ipotesi che avrebbero dovuto portare il Macchi verso l’Adriatico per un ammaraggio anziché puntare verso il territorio, comunque abitato e dunque a rischio. I giudici di appello invece conclusero: «Il fatto non costituisce reato». La Cassazione respinse infine ogni ricorso. Per la giustizia si era trattato di una “fatalità”. È dunque comprensibile l’amarezza di chi ha perso i figli e con loro la pace. Anche alla luce del fatto che i militari ottennero la difesa dell’Avvocatura dello Stato, cosa che alla scuola, pur di proprietà del Ministero della Pubblica Istruzione, dunque dello stesso Stato, non fu possibile.

Eppure non chiedevano una condanna, i familiari e i feriti. Più sommessamente aspiravano a un’ammissione di responsabilità. Per salvare un aereo, perché questo era il senso del tentativo di atterraggio di emergenza, si produsse una tragedia umana, oltre a danni incommensurabili. Ma fu il “fato”, secondo la giurisdizione, Oggi quel fato è ricordato nella “Casa della Solidarietà Alexander Dubcek”, come ora si chiama il Salvemini che non è più un istituto scolastico, e la 2ª A è diventata l’“Aula della Memoria”.

Per me è una memoria per ovvi motivi indelebile. A cui si aggiunge quella personale, cui accennavo all’inizio. Mentre mi imbattei nella carovana dei soccorsi stavo rientrando dall’ospedale di Bazzano. Fu l’ultima volta in cui potei parlare, faccia a faccia, con mio papà. Aveva passato una crisi respiratoria spaventosa, ma non era contento: «Non sono nemmeno capace di morire», mi disse mentre cercavo di fargli coraggio. Solo da quel preciso momento persi la speranza e capii che sarebbe stata questione di ore. Fu «capace di morire» poche ore dopo al Sant’Orsola, dove fu portato per provare a salvarlo, all’1 di notte tra l’8 e il 9 dicembre, senza potermi dire più nemmeno una parola. Dopo quell’ultimo dialogo, epilogo purtroppo “naturale” di una vita, incrociai la brutalità del destino, o di qualcosa di umano che lo determina, che sa essere terribilmente ingiusto. Mio papà almeno aveva vissuto la sua vita. Un privilegio che fu impedito a Deborah Alutto¸ Laura Armaroli, Sara Baroncini, Laura Corazza, Tiziana de Leo, Antonella Ferrari, Alessandra Gennari, Dario Lucchini, Elisabetta Patrizi, Elena Righetti, Carmen Schirinzi, Alessandra Venturi.

Per quello che provai il 6 dicembre 1990, sperando che questa chiosa non sia vissuta come irriverenza, confermo: quel giorno persi definitivamente la giovinezza. Ai familiari delle vittime del Salvemini porgo il mio cordoglio sofferto, commosso, ininterrotto da 35 anni.

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