Quando il suono è tutto, o quasi. Rassegne, visioni, programmazioni a confronto

di Silvia Napoli /
1 Novembre 2025 /

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Siamo già ad un punto nevralgico dell’anno nel senso delle programmazioni culturali ed artistiche di punta e naturalmente attenzionato rispetto a tutte le evenienze politiche del momento che ormai non riguardano più solo questioni di settore ma situazioni di ampiezza profondità e spessore inusitati rispetto solo a pochissimo tempo fa. Il momento pertanto perfetto, in un certo senso per andare oltre la canonica calendarizzazione delle stagioni ufficiali, che pure con piacere ci apprestiamo a trattare, per esperire territori e situazioni diverse e molteplici.  

Uno di questi casi speciali è la coda per così dire del Festival Polis a cura di Eros Anteros da Ravenna, che ha visto succedersi esperienze europee di rilievo nella tarda primavera e all’incipit dell’estate e che ora in questo debutto ravennate di equinozio autunnale ha visto succedersi accanto a talks dedicati anche le anteprime degli ultimi lavori firmari rispettivamente da Davide Sacco ed Agata Tomsic.  

Le due scelte sono in qualche modo linguistico geografico agli antipodi ed apparentemente entrambe potrebbero sembrare legate ad un contesto assai diverso da quello attuale e dunque anacronistiche in certa misura nella loro carica di denuncia più o meno palesemente espressa, rispetto alle urgenze dell’oggi. Eppure emanano risonanze tra loro dal primigenio al futuribile, esprimendo concordanze insospettate. Eppure alludono ad un orrore apparentemente ineludibile e sempre purtroppo attualizzabile.  

Ma andiamo con ordine. Omelas, quelli che se ne vanno, a firma Davide Sacco è liberamente ispirato ad un celeberrimo racconto paradigmatico della scrittrice sci fi Ursula Le Guin, una sorta di madrina di attitudine e pensiero rispetto a tutte le distopie a coloritura femminista susseguitesi poi fino alle teorizzazioni antispeciste di Donna Haraway. Omelas è una sorta di giardino dell’Eden per come se lo può immaginare un californiano utopista e freakkettone, pieno di libero amore ad ogni angolo di strada e in un regime di gestione comunitaria dei figli. Non si capisce bene se crimini, abusi, sopraffazioni siano contemplati, ma sembrano non esistere divieti cogenti o forze dell’ordine e superflua appare l’esistenza della magistratura visto che in una tale omogeneità di pulsioni e comportamenti, in una tale dissolvenza almeno apparente di classi sociali, non ci sono torti e giustizie da stabilire, disuguaglianze da mistificare o viceversa colmare. Via via che il climax descrittivo cresce e la narrazione da suadente che era agli inizi, diviene incalzante ed inquietante ad opera di una iperuranica Eva Robin’s perfettamente in parte nella indeterminatezza della sua natura ermafroditica e senza dati anagrafici e cronologici, il sospetto di trovarsi immersi in un mondo tutt’altro che auspicabile e “libero”, cresce nello spettatore. Anche perché a ridare pesantezza plumbea all’insieme, ci pensa la band molto dark capitanata da Sacco stesso che si produce in un costante contrappunto della storia proprio fisicamente a latere, a colpi di brani che sembrano usciti dalla discografia di Cure e Joy Division. Peccato non si rendano sufficientemente intelleggibili i testi delle canzoni, tutte in realtà originali, non già per fattori linguistici, pur essendo rigorosamente in lingua inglese, ma perché gli effetti sonori applicati ai microfoni che rendono la voce del cantante di un umano trascendente ed omogeneo al cliché, come si addice all’insieme, non ne permettono l’immediata comprensione. Lo spettacolo scorre così, frontale al pubblico come una liturgia che naturalmente come tutte le liturgie che si rispettino, cela un mistero. Mistero inattingibile ma ben strutturato nei suoi effetti secondari, in cui da un lato si evidenzia il valore dell’umana fallibilità, che forse era a suo tempo la preoccupazione centrale dell’autrice denunciando un mondo di ingegnerie sociali a venire, che in verità non si sono poi così verificate. Questa fase di capitalismo estremo sembra propendere per un caos catastrofico più che per una regolamentazione ferrea e non negoziabile dei principi, dunque quello che qui si evidenzia maggiormente è un altro tema: quello delle trasmissioni valoriali o viceversa rotture tra generazioni, quello del destino dei nostri giovani, in definitiva un tema di Futuro possibile o immaginabile. In questo lo spettacolo porta una cifra dolente nascosta nelle pieghe della vertigine temporale tra futuro affermato nelle intenzioni negato nelle premesse e nella sua costruzione ed eterno presente circoscritto perché la famosa comunità sa essere un luogo claustrofobico e persecutorio, una stanza buia come l’inconscio collettivo, questo oggetto tanto discusso eppure misterioso. i richiami, i riverberi così come quelli e della voce recitante e di quella canora, sono così a tutta una letteratura e a una filmografia, fino ai racconti della nostra Verasani che ci parlano di un desiderio dei nostri giovani di uscire dall’inquadratura. In maniera definitiva ed accusatoria. Robin’s è ieratica, spaziale, iconica e allo stesso tempo tagliente e accogliente là dove serve cambiare il registro e indirizzarci tutti dalla critica alla pietas. Le immagini documentarie di tragedia bellica e coloniale nonché erodiade di massa, non lasciano adito a dubbi sul fatto che si alluda ad una nostra possibile diserzione dall’orrore attuale. Naturalmente il suono la fa da padrone non solo nel senso evidente della presenza rock in scena, ma anche nell’ambientazione sonora complessiva che è parte costituente dell’immaginario che ci viene consegnato. Del resto, Davide Sacco è maestro in questa funzione “creattiva” e costruttiva. Ed ugualmente voce, sonorità ed orrore coloniale e sopraffattorio sono più che ma il core del bel lavoro di Agata Tomsic, mai tanto potente e centrata in scena, dalla Medea di Heiner Mueller, un autore importante del teatro tedesco pre-caduta muro, oggi molto poco frequentato.  

Questa Medea di Tomsic è femmina e belva imperiosa, forse ferita ma non doma e non sazia, portatrice di una alterità irriducibile, una diversità quasi di specie, come se tutti gli archetipi mediterranei fossero stati scansionati da Donna Haraway e proiettati in un futuro remoto, dove c’è anche qui chi non ci sta, chi si ribella agli inciuci dinastici, agli accomodamenti diplomatici e denuncia l’oppressione, non quindi una moglie devota ferita, ma un virus culturale inoculato irrimediabilmente nella società dominante patriarcale e destinato a inquinare per sempre una genealogia che sappiamo essere destinata alla rovina. Ciò che le parche preparano, non è un cieco baro destino, ma solo frutto di un kairos ben scelto, calcolato provvisto di tutte le sue responsabilità, soppesato attentamente nelle alternative. Insomma, non disperazione straziante e tentennante, ma la lucidità del kamikaze che predispone l’attentato, la terrorista infiltrata dall’estero seduttiva come Mata Hari, nei ricchi allusivi costumi di scena che impreziosiscono e rendono irraggiungibile la nudità insolente e scultorea della nostra protagonista. Una regina che ammicca per scherno, per disprezzo verso il suo antagonista alla rotta balcanica della prostituzione, ma che è sempre inattingibile come una sacerdotessa, come qualcuno appunto in missione persino sfoderando stivaloni traslucidi e vertiginosi.  

Interessante perché molto oltre i canoni algidi e didascalici cui ci aveva abituato, Tomsic compie qui proprio una azione alchemica, accostando ghiaccio e fuoco come costitutivi di una unica personalità pur nel gioco delle scissioni, alchimia da pietra filosofale, cui tutti i pur sinistri bagliori d’oro alludono fino alla fine. L’oro notoriamente esprime regalità certo, ma anche riparazione ed infatti questa è la lettura: giustizia, riparazione dei torti viene agita secondo i criteri di quella stessa società che vorrebbe mandarti all’esilio e stringerti agli angoli. Le modalità in cui le trasformazioni si compiono nello spettacolo sono attraverso il movimento di Tomsic stessa, quasi coreografato e soprattutto anche qui tramite un lavoro sorprendente sul suono e sulla voce che lascia stupefatti. Il testo, le parole sono tra le ultime cose ad arrivare e molto prima della presenza politica del corpo, arriva la voce ghignante, l’ululato indefinibile. Gli accorgimenti tecnici, le attuali tecnologie di sound designer c’entrano fino a un certo punto con un grande disciplinato e sacrificale studio e ampliamento delle proprie capacità vocali che tiene presente a mo di numi tutelari Demetrio Stratos e Diamanda Galas in primis. Come sappiamo le occasioni festivaliere dovrebbero essere trampolini di lancio e dunque attendiamo di vedere gli sviluppi distributivi di queste novità e di vederli anche in suolo italico possibilmente.  

Proseguendo nella nostra ricognizione, arriviamo dunque a parlare di Robot festival. Robot festival, arrivato alla sua sedicesima edizione ci appare come un adolescente sveglio e consapevole che ha imparato a muoversi agevolmente nei territori “ambientali”. Partito a suo tempo come una sorta di festa mobile per i patiti soprattutto più giovani di una elettronica di matrice specialmente nordeuropea che aveva sì, molti addentellati sperimentali e installativi stabiliti con alleanze nel corso del tempo con alcune frange dell’esperienza Link, ma votato soprattutto a ricreare situazione nostranamente compatibili di trance danzereccia. Oggi Robot diventa sempre più consapevole dei contesti, della loro specificità, si muove agile tra ambientazioni di grande fascino naturale e luoghi urbani in cui ha sempre voluto e saputo essere ma identificando bene le singole identità degli spazi e riflettendo esattamente come succede a teatro, sul fatto che il suono è esso stesso per sua natura, non sempre, non soltanto, accompagnatore o sottolineatore di emozioni, sfondo, tappeto, ma processo, percorso e soprattutto ambiente esso stesso. Con caratteristiche ecosistemiche ed ecologiche molteplici e diffusive. La musica è porosa, la musica ha una tridimensionalità ed un acconciarsi, la musica si attraversa, si abita, si vive. E se fa parte con le sue vibrazioni così tanto della nostra vita, ecco che possiamo affermare che la musica possiamo anche vivercela come processo immaginativo e costruttivo. Una visione profonda, sfaccettata che dunque non può che dislocarsi e che ci fa sentire non più ad una rassegna di novità ed eccellenze e tendenze elettroniche varie diluite in diverse giornate ed alternate a djset per nottambuli in quel del binario centrale di Dumbo, ma dentro una ricerca continua che sconfina per dire in territori consoni a rassegne diuturne come Angelica, accentuando però un aspetto rituale-partecipativo e meno connesso con la didattica musicale vera e propria. Ed ecco infatti, una suddivisione di percorsi articolati in dieci sogni, conditi con tanto di citazioni colte e rarefatte. E si comincia proprio in esterni al parco archeologico di Marzabotto per una sorta di prequel che si è definita Soglia con un d live crepuscolare di Chiara Zaccaria. Ritroviamo qui proprio Ursula Le Guin, che abbiamo lasciato poco fa e che è stata citazione madrina di questo archetipico iniziare. Giocare ad un gioco in cui le regole continuano a cambiare. Dopo Soglia, la parola d’ordine non poteva che essere Sentiero, per un altro live in orario ormai più notturno, accompagnato da una citazione di Karen Barad. Pietre sonore come agenti attivi di cammino, dunque. Un respiro antico, barocco, sollecitato da fiato, percussione e corda su improvvisazione per drone danno consistenza alla musica che nasce dal silenzio, apparentemente contro ogni evidenza logica. La visione, la frequenza, sono state altre componenti importanti di questo festival, passando dal cinema Medica per approdare a S Filippo Neri, un luogo di delizia estetica che rende estatica la fruizione dell’esperienza elettronica. Con Felicia Atkinson siamo addirittura dalle parti della poesia concreta. Una poesia che attiva recettori e scorre oltre l’interpretazione animando oggetti parlanti. Una performance strepitosa che racconta molto della strada fatta appunto da questo festival, di cui colpisce subito la trasversalità generazionale e di tipologia del pubblico che lo frequenta. Appassionati, addetti ai lavori, giornalisti, curiosi, stilosi, nerds, giovani e giovanissimi anche da diverse parti d’Italia. Evidentemente questo richiamo al sogno e all’immaginazione vagamente psichedelico, interpretato come atto di resistenza nel claim del festival è una postura che attira e convince su più livelli di fruizione. Che cosa di meglio per continuare a nutrire questa visione in uno spazio tra sacro e profano come S filippo Nerise non la ritualità senza prospettiva folclorica di Hatis Noit? Le melodie di cori non fisicamente presenti si incarnano nei corpi dei presenti divenuti essi stessi soglia di una porta della percezione Giusto per continuare un po’ partigianamente con Oratorio, dato che è un territorio più consono alle mie inclinazioni e propensioni teatrali, si prosegue con Lucy Railton che è stato un set davvero sorprendente per la misura assolutamente minimale e l’approccio in qualche modo classico alla dimensione concertistica. La dimensione assoluta dell’assolo di violoncello elettrificato fa da contrappeso alla dimensione ipnotica e in qualche modo barocca di Lino Capra Vaccina e Mai Mai Mai Un duo quasi esoterista che ci trasporta in uno spazio morbido e confortevole di percussioni antiche, ritmiche non troppo sostenute spinta dalla tradizione al cambiamento. Addirittura una citazione da Merleau Ponty accompagna il decimo sentiero finale a Dumbo con una serata di chiusura a set differenziati. Prima Rival Consoles quando si può fare tutto con la tradizione neomelodica mediterranea e l’elettronica insieme eppoi la chicca attesa per scaldare il dance hall con classe ed eleganza: il ritorno di Apparat, la gioia della liberazione dei corpi. Naturalmente così come altre situazioni nate come festival e divenute poi delle vere e proprie entità culturali resident nel panorama bolognese e non solo, Robot è poi una cornice di pensieri artistici e immaginativi che non spegne le sinapsi al calare dell’ultimo bit e possiamo ragionevolmente aspettarci altre sorprese ed eventi sotto questo marchio durante il corso dei prossimi mesi.  

In qualche modo voglio rimanere sull’esperienza suono per riferire anche dell’unica, peraltro, pregevolissima situazione dal festival comunitario Periferico, in quel di Modena che ha animato per una decina di giorni e due weekend gli spazi di ovest lab e luoghi ulteriori in concomitanza con le giornate della salute Mentale di quella città, giornate dense e molto sentite dalla cittadinanza e ricolte anche al popoloso hinterland oltre la ghirlandina. Una vocazione emiliana nomade e radicata nello stesso tempo che la natura da sempre ambientale e specifica nei luoghi di questa rassegna, organizzata dalla Compagnia Amigdala che si muove su piani diversi come collettivo di produzione culturale su una scala ormai internazionale, sa valorizzare e rendere attuale come non mai. Dunque, importante questa progettualità intensiva, finanziata con fondi da bando europeo che ha visto il lavoro di tre anni, spalmato su diversi paesi europei, con una preminenza iberica e una prospettiva transfemminista che è andata a chiudere una programmazione ricchissima di livello e spessore nel campo della ricerca performativa internazionale.  

Una compagine gioiosa di un foltissimo gruppo di Donne di tutte le età e provenienze, dunque, si è mossa e resa visibile condizionando la viabilità dell’intera città a seconda dei percorsi, muovendosi tra centro e periferia come nessuno di noi da solo farebbe mai sviluppando una segnaletica gestuale minimale per la comunicazione paritaria di gruppo, inventandosi soste, raccogliendo chiacchiere e pensieri. Soprattutto ascoltando in questa sorta di trekking memoir, la audio biografia in cuffia ad interviste, svolte per capitoli, di quella che è la storia di un corpo femminile nei suoi cambiamenti per fasi di età e nella autopercezione di sé. Una cosa toccante e illuminante per tornare alle radici del nostro dirsi femministe e che ha avuto come corollario nel corso di quasi dieci ore di cammino di momenti di scambio femminista in piccoli gruppi su argomenti inerenti alla nostra dimensione biopolitica ed indicati da bigliettini estratti a sorte. una esperienza davvero unica ed emozionante e una performance di comunità. Anche in questo caso il suono in cuffia che aveva una colonna sonora molto variegata e attinente alle varie epoche di vita ha creato un ambito e fatto letteralmente una differenza.  

Ma naturalmente mentre scriviamo le nostre recensioni alcune principali cartellonistiche di stagione che ci stanno molto a cuore in quanto abitanti di area metropolitana si sono avviate. Ovvero Duse, Ert arena del sole e in verità le sue altre sedi teatrali regionali, stagione Agorà, mentre sta per inaugurarsi la ventitreesima edizione del mitico festival Gender Bender e l’attesa programmazione di Teatro anatomico all’Istituto Rizzoli per Archivio Zeta, featuring Ermelinda Nasuto, splendida conferma da compagnia Lanera, sta registrando fino alle ultime repliche del tardo novembre un clamoroso sold out.  

Torneremo ovviamente con più calma e diversi approfondimenti sulle varie situazioni più in là. Ma vale la pena spendere qualche parola su Ert naturalmente a partire dalla toccante conferenza stampa fiume qui a Bologna che è risultata essere una vera festa teatrale e ha segnato un cambio di registro comunicativo quando infine nella cornice del Chiostro, Digioia e Di Iorio, rispettivamente direttrice artistica e direttrice amministrativa di Ert hanno invitato tutte le maestranze di Arena a salire sul palco per una foto di gruppo a suggello di una presentazione monstre di ben 156 eventi spalmati in stagione con qualche nuova appendice ancora che ci sorprenderà.  

Sui contenuti della stagione dovremo tornarci molte volte perché sono segnati da un certo comprensibile ecumenismo. Si tratta infatti di una stagione di transizione, segnata da molti impegni presi in precedenza, dalla opportunità di fare aggiustamenti di tiro ma senza necessariamente stravolgere il tutto e che forse vede al momento i cambiamenti più significativi in cambi della guardia annunciati nel territorio Danza e Teatri della Salute, portando comunque a termine tutta la contrattualistica ancora in essere.  

Ci sono alcuni punti di forza e di convergenza in cui questa duplice dirigenza che ci appare affilata e affiatatissima crede fermamente. Appunto la visione di un teatro che si situi assolutamente come Pubblico e al servizio del Pubblico e conseguentemente rispetti una polifonia di accenti e di scelte. L’accento posto sulla necessità di dare valore a percorsi artistici non esclusivamente nuovi o giovanilisti in forma continuativa e residenziale, il caso ad esempio di Danio Manfredini, cosa che comporta anche nella pletora di produzioni poi poco e mal distribuite di costruire anche forme di repertorio da cui discende un’altra scelta in un certo senso coraggiosa nell’apparente anacronismo, ovvero quella di valorizzare anche la grande tradizione teatrale italiana e riprendere Eduardo, per esempio, proprio al fine di nutrire la cultura dei tanti giovani che scelgono più che in altre regioni italiane di regalarsi un abbonamento a teatro. Il tornare a lavorare sulla scuola di formazione per attori per chi volesse intraprendere il difficile percorso, lo stretto legame con le scuole per includere nuove cittadinanze. Viceversa, per unire tutti i puntini e stabilire un legame tra micro e macro, l’attesissimo ritorno delle Vie Festival, che in qualche modo sancisce una volta di più insieme alla storica figura di Diiorio, il legame appassionato con le origini della gloriosa storia fondativa di Ert. Significativo in tal senso lo scrosciante applauso tributato a Pietro Valenti, artefice di quella stagione presente in Chiostro per la conferenza stampa eppoi anche alla apertura modenese con Umberto Orsini di cui diro tra poco. Ma più di tutti, il concetto sottolineato con forza dalla neo direttora artistica è che il suo e congiuntamente quello di Natalia sarà appunto un lavoro di curatela, lungi dall’idea di volersi sovrapporre agli artisti e anzi, in una visione di riconoscimento, accoglimento e accompagnamento delle loro esigenze e delle loro fragilità, che spesso si sottintende, è davvero un’umana fragilità che richiede cura, appunto e partecipazione. Un teatro, dunque, che cura relazioni e predispone al benessere collettivo ma che si prende anche cura di se stesso. Un passaggio decisivo della dichiarazione di intenti che ha lasciato in un silenzio sospeso, attento e commosso tutti i presenti. Dunque sarà in definitiva una stagione in cui ritroveremo vecchie e nuove conoscenze di Ert, verrà riproposto ad esempio A place of safety dei Kepler 452, che hanno recuperato gli elementi partiti con la Sumud Flotilla e intanto hanno pubblicato un libro compendio di questa esperienza che verrà ovviamente presentato, ritroveremo tutto lo smalto del talentuoso Fettarappa con un lavoro nuovissimo sulla caduta del desiderio, poi anche a breve vedremo il nuovo lavoro di Pippo Delbono. Per la danza si è partiti già a Bologna con Giordano-Tansini, a Modena con Giocasta di Lucenti, di cui abbiamo già accennato qualche tempo fa e che si recupera in dicembre in Arena. Il focus carne si incarna in questa settimana in Collettivo cinetico con ben due prove molto attese, la seconda delle quali compresa nel festival Gender Bender. Per la prosa la stagione si è aperta alla grande ovunque, considerando anche Cesena, che ha inaugurato con la classe e la grazia di Gualtieri, mentre Bologna ha avuta una grande mattatrice quale Sonia Bergamasco a impersonare la principessa di Lampedusa. Ma non si può non rendere conto delle ripetute standing ovations riservate al grandissimo Umberto Orsiniche letteralmente furoreggia in scena e gioca con leggerezza mercuriale sul suo status di primattore e sopravvissuto, essendo con i suoi 91 anni davvero invisibili quantomeno sul palco dove si spende con generosità giovanile, l’ultimo di una generazione di meravigliosi talenti e bestie da stile della cultura italiana. E questo” Prima del Temporale, alludendo ad uno Strindberg da rappresentare, canovaccio liberamente tratto da un memoir scritto dal nostro qualche anno fa per i tipi di Laterza, commuove, diverte, intriga, nel suo essere da un lato sartoria d’alta scuola cucita addosso e dall’altro un compendio di vita italiana dal Novecento ad oggi che ci riguarda tutti. Un attore allo specchio che ha qualcosa delle morbosità di e spigolosità di Berhard, ma riesce poi in definitiva a stemperarle in un amore immenso ed un rimpianto sincero per familiari e colleghi scomparsi, cui non è più possibile dare la battuta. Scorrono sulle pareti/ schermo del presunto camerino, le chilometriche gambe delle gemelle Kessler, i fotoromanzi, ma anche le iconiche immagini dai Fratelli Karamazov e staccandosi dal fermo immagine di sé giovane, bellissimo e magnetico Ivan, Orsini, a centro scena riprende oggi con accenti pacati, dolenti, ben diversi dalla rabbia di quel suo alias lontano eppure a se congruente e afferente, la medesima tirata ateista sull’ingiustizia della sofferenza degli innocenti, rivolta nel romanzo al fratello Alioscia, ma che oggi che non può non riverberare i crimini di guerra e i genocidi che abbiamo tutti sotto gli occhi. Un momento di verità politica consegnato ad un’arte senza tempo che forse davvero sa sconfiggere la morte con gli strumenti della Pietas. A questo punto, non resterebbe che riferire sulla rassegna Agorà, la creazione nei distretti di pianura est di Digioia, ereditata non da oggi, ma comunque di recente da Alessandro Amato che sa circondarsi delle collaborazioni e sinergie giuste, per esempio i laboratori di Altre Velocità, che contribuiscono a creare la giusta interlocuzione tra generazioni e tra aree geografiche limitrofe. Torneremo su questa stagione che assume un principio di rischio, osando posizionamenti, investimenti, scelte politiche e di costume molto precise ed ardite. Provincia, che difatti non esiste più come termine amministrativo, non significa comunque provinciale dà mai, questo il nostro appassionato curatore deve averlo ben chiaro in testa. Lo dicono le sue prime tre scelte. Una mirabile giocosa solare Iaia Forte, in uno spettacolo cameo dedicato all’arte, alla poesia, alla vita inimitabile ma fuori schema della compianta amica geniale poeta Patrizia Cavalli. Che poi si rivela essere uno show, un siparietto musicale sorprendente, come se i Gufi, o uno Jannacci o una Betti avessero preso in mano le fila del discorso per disfarlo e rifarlo a modo loro. Una apertura smagliante, per niente luttuosa, pur posizionandosi nella categoria omaggio ex post, per la intensità leggiadra delle interpreti in scena, l’afflato vitalistico, il desiderio di scompigliare e sovvertire mai domo fino alla fine che traspare da ogni singolo verso, da ogni singola immagine di vita domestica strappata al carnet dei ricordi. Insomma una apertura in grande stile cabarettistico degno di una boite metropolitana che ha lasciato molto ben presagire. E infatti le programmazioni sono proseguite con la riproposta redistribuita nelle sedi comunali dei distretti, di quella Fenice di Gaza di cui vi avevamo riferito qualche tempo fa alla sede prateller di Teatri di Vita. Ovvero l’esperienza immersiva in 3 d, dentro una Gaza che non conosciamo né immaginiamo e che sicuramente ad oggi non esiste più. Un viaggio abbacinante e realistico dentro una metropoli e una civiltà ad oggi offese, forse cancellate e sepolte, ma non certo per sempre come il titolo suggerisce. Per il weekend in cui stiamo scrivendo, le programmazioni prevedono, una interessante produzione di Selima Fieno, già visti a premio Scenario un paio di edizioni fa che ci parlano del dolente tema di una infanzia rubata in figa sulle rotte balcaniche. 

Non possiamo tralasciare a questo punto, l’approdo a 360 gradi di Lino Guanciale ad una interpretazione, drammaturgia e regia compatte e totalizzanti dal pamphlet Europeana, per il Teatro Duse. Come sappiamo Guanciale, creatura artistica cresciuta in Ert, poi divo televisivo quasi per caso, interprete d’elezione sempre per le migliori creazioni di Claudio Longhi, già direttore Ert, ora felicemente approdato al Piccolo di Milano, nel tempo ha maturato una sua vena registica ambiziosa. Lo si vede bene in questo lavoro complesso, multistrato come le magliette indossate dal protagonista narratore una sull’altra fino alla spogliazione conclusiva. Una vertiginosa tangibile metafora dei cambiamenti epocali antropologici e di costume che la Storia imprime sulle storie personali di ognuno di noi. Un lavoro semplice apparentemente, frontale, che si avvale di un supporto musicale in scena, molto adatto ad ipotesi didattiche per la quantità di dubbi e punti di vista ironici e imprevedibili che sa seminare lungo il percorso oscuro e sanguinoso del secolo breve. Il pubblico attento, ben disposto e fidelizzato di Guanciale ha mostrato di gradire moltissimo il passo ironico senza eccessi e sbavature scelto dal nostro per addentrarsi in questioni antropologiche e dilemmi etico. morali davvero complessi. Dilemmi presentati peraltro come una scorribanda tra decenni che se ne infischia della coerenza cronologica e sceglie nell’anda e rianda del racconto, la prospettiva di pertinenza tematica. Da segnalare che Guanciale sarà a brevissimo presente anche in stagione Ert a Vignola con un nuovissimo lavoro. Insomma, dovete, dobbiamo stare collegati perché le sorprese non mancheranno.  

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