Nessun riconoscimento dello Stato palestinese e nemmeno di un popolo, ma un grande progetto affaristico immobiliare calato sulla testa di Gaza. Analisi punto per punto del piano del presidente americano
Anche se Hamas o altri dirigenti, intellettuali esponenti palestinesi, decideranno di approvare il «piano di pace» concordato da Donald Trump e Benjamin Netanyahu, quel piano resta una vergogna e uno scandalo della politica occidentale.
Non solo per le caratteristiche di «esproprio collettivo» di Gaza da parte delle potenze (ex) coloniali, non solo per l’affidamento a una prospettiva immobiliare-finanziaria appannaggio della famiglia Trump, non solo per l’indecente riemersione di Tony Blair dopo le colpe criminali relative alla guerra in Iraq. Quello che colpisce è la funzionalità di quell’accordo a un progetto di cancellazione politica dei palestinesi, delle loro rappresentanze, della loro soggettività e capacità di esistere.
Certo, ci sono conseguenze politiche che vanno considerate. Se Hamas accetta il piano potrebbe verificarsi la crisi politica a Tel Aviv, Netanyahu vede incrinare molte delle sue ambizioni, lo stesso Hamas in fondo potrebbe sostenere di aver resistito. Soprattutto, finiranno le bombe e la fame su Gaza, la vita potrebbe ricominciare. E se Hamas deciderà di accettare lo farà tenendo conto di queste variabili e anche valutando con molta attenzione la propria capacità di r/esistere nella Striscia e di non essere oggetto di una «pulizia etnica» politica mirata e risolutiva.
L’accordo evidenzia però quale visione esista oggi in Occidente nei confronti di paesi e popoli oppressi a cui al massimo si elargisce un po’ della propria cariitå. Basta scorrere i venti punti uno per uno per cogliere la natura colonialista del piano:
1. «Gaza sarà una zona deradicalizzata e libera dal terrorismo, che non rappresenterà una minaccia per i suoi vicini».
Si tratta di evitare che Hamas giochi alcun ruolo a Gaza. È la principale richiesta di Israele che nei due anni che intercorrono dal 7 ottobre 2023 non è riuscito a piegare del tutto l’organizzazione islamica e quindi a vendicarsi dell’affronto subito due anni fa. Ma questo significa anche scomparire politicamente come del resto si vedrà da alcuni punti successivi.
2. «La Striscia di Gaza sarà riqualificata nell’interesse della popolazione dell’enclave, che ha già sofferto abbastanza».
Non che da Trump e Netanyahu ci si potesse aspettare l’allocuzione «genocidio», ma definire solamente «sofferenza» quella subita dai palestinesi è un abbellimento della drammatica situazione che si vive a Gaza, del tutto edulcorata e rimossa dal dibattito pubblico. A partire dalla situazione dello stato di carestia, dichiarato dalle Nazioni unite lo scorso agosto, almeno per 500 mila abitanti dovuta al taglio degli aiuti internazionali e al monopolio da parte di Israele della distribuzione di questi aiuti.
3. «Se entrambe le parti [Israele e Hamas] accettano questo piano, la guerra finirà immediatamente. Le forze israeliane si ritireranno lungo una linea concordata per preparare il rilascio degli ostaggi. Durante questo periodo, tutte le operazioni militari, compresi i bombardamenti aerei e di artiglieria, saranno sospese e le linee del fronte rimarranno congelate finché non saranno soddisfatte le condizioni per un ritiro graduale».
Qui si entra nelle prime condizioni truffaldine da parte del duo israelo-americano. Hamas ha sempre chiesto il ritiro totale di Israele che qui invece viene indicato su una generica «linea concordata» e senza garanzie di fatto. E non a caso, proprio il giorno successivo alla conferenza stampa di Washington, Netanyahu ha precisato che Israele non lascerà Gaza e quindi questa condizione è sottoposta, come sempre fino a oggi, all’assoluto volere di Tel Aviv. La Casa Bianca ha fatto circolare una mappa che mostra tre linee di ritiro progressivo che però, anche nel caso di rispetto degli spazi, garantirà comunque il controllo totale di tutti i confini della Striscia.
4. «Entro settantadue ore dall’accettazione pubblica di questo accordo da parte di Israele, tutti gli ostaggi, vivi o morti, saranno restituiti».
Hamas aveva già rilasciato degli ostaggi (oggi delle 251 persone rapite il 7 ottobre, ne detiene ancora 47, ma non è detto che siano tutti vivi, così almeno pensa l’esercito israeliano).
5. «Dopo il rilascio di tutti gli ostaggi, Israele rilascerà 250 ergastolani e 1.700 cittadini di Gaza detenuti dopo il 7 ottobre 2023, comprese tutte le donne e i bambini detenuti in questo contesto. Per ogni ostaggio israeliano le cui spoglie saranno restituite, Israele rilascerà i corpi di 15 cittadini di Gaza deceduti».
È probabilmente l’unico punto chiaro a vantaggio dei palestinesi e di Hamas. Ma il piano non specifica la tempistica per questi rilasci. L’altro vantaggio politico per Hamas è che il punto contribuisce a incrinare la coalizione di governo perché la liberazione dei prigioneri palestinesi è contrastata ferocemente dalla destra fascistoide di Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich.
6. «Una volta che tutti gli ostaggi saranno stati restituiti, ai membri di Hamas che si impegnano per la coesistenza pacifica e il disarmo verrà concessa l’amnistia. A coloro che desiderano lasciare Gaza verrà concesso un passaggio protetto verso i paesi di destinazione».
Siamo di nuovo al punto della cancellazione politica di Hamas, non a caso su al Jazeera l’accordo è stato commentato a caldo come «la resa di Hamas». Sembrerebbe infatti che per l’organizzazione islamica accusata di essere terrorista l’agibilità politica si darà solo se farà delle abiure pubbliche oppure se si darà alla clandestinità in un contesto in cui non è chiaro al momento chi avrà in mano le leve del potere. Certo, accettando il piano avrebbe la possibilità di mantenere i suoi uomini nella Striscia e qui arriva il punto di cui sopra, cioè le valutazioni che faranno i dirigenti di Hamas (o quel che ne rimane) sulla reale possibilità di mantenersi in vita come soggetto politico.
7. «Una volta accettato questo accordo, tutti gli aiuti [umanitari] saranno immediatamente consegnati alla Striscia di Gaza. Le quantità saranno almeno in linea con quelle incluse nell’accordo del 19 gennaio 2025 sugli aiuti umanitari, compresa la riabilitazione delle infrastrutture (acqua, elettricità, servizi igienici), la ristrutturazione di ospedali e panetterie e l’invio delle attrezzature necessarie per rimuovere le macerie e aprire le strade».
Il punto sette del piano è quello che di fatto da ragione alla Global Sumud Flotilla. Gli aiuti, con l’accordo approvato, torneranno ad affluire a Gaza, segno che non lo erano e che occorre riferirsi all’accordo del 19 gennaio 2025 sugli aiuti umanitari.
8. «L’ingresso degli aiuti e la loro distribuzione nella Striscia di Gaza saranno effettuati senza interferenze da parte di entrambe le parti, attraverso le Nazioni unite e le sue agenzie, nonché la Mezzaluna Rossa e altre istituzioni internazionali non associate a nessuna delle due parti. L’apertura del valico di Rafah [a sud dell’enclave] in entrambe le direzioni sarà soggetta allo stesso meccanismo attuato ai sensi dell’accordo del 19 gennaio 2025.»
Le Nazioni unite tornano al centro della partita per la distribuzione degli aiuti umanitari nonostante le infamie gettate contro di loro da Trump, Israele e dalla propaganda a loro devota. Anche questo è un punto di favore per i palestinesi, forse il principale, perché permetterebbe di alleviare immediatamente la condizione di vita quotidiana degli abitanti della Striscia. Rimane incerto, però, il destino del valico di Rafah.
9. «Gaza sarà governata sotto l’autorità transitoria temporanea di un comitato palestinese tecnocratico e apolitico […], sotto la supervisione e il controllo di un nuovo organismo internazionale di transizione, il »Consiglio per la Pace», che sarà guidato e presieduto dal Presidente Donald Trump, con altri membri e capi di Stato da annunciare, tra cui l’ex Primo Ministro [britannico] Tony Blair. Questo organismo definirà il quadro e gestirà il finanziamento della ricostruzione di Gaza fino al completamento del programma di riforme dell’Autorità Nazionale Palestinese».
Ecco l’esproprio collettivo a opera di un nucleo occidentale – di maschi bianchi e di mezza età – che costituirà il vero assetto di governo della Striscia (ovviamente si tratta di governare l’enorme quantità di denaro che presumibilmente affluirà dagli Stati arabi del Golfo per la ricostruzione). Non a caso, oltre a non avere nessuna informazione sui palestinesi che potrebbero far parte di questa autorità transitoria, si specifica che il potere del nuovo organismo sarà esercitato fino a un non meglio precisato completamento del programma di riforme dell’Anp. Né si specifica chi stabilirà che le riforme saranno adeguate e soddisfacenti (di riforma dell’Anp in effetti ci sarebbe un estremo bisogno, ma dovrebbe essere il popolo palestinese a svolgere la valutazione finale).
10. «Un piano di sviluppo economico di [Donald] Trump per ricostruire e rivitalizzare Gaza riunendo un gruppo di esperti che hanno contribuito a creare alcune delle città moderne più fiorenti del Medio Oriente».
Le mani sulla città, versione palestinese. Un’operazione immobiliare-finanziaria del tutto spudorata e sbandierata senza complessi davanti al mondo intero. Il famoso video su Gaza come una Riviera mediorientale, che sembrava una boutade improponibile, rappresentava la visione del vero futuro, in pieno stile trumpiano e senza che dai governi occidentali si levi la pur flebile critica.
11. «Sarà istituita una zona economica speciale con dazi doganali preferenziali e tariffe di accesso da negoziare con i paesi partecipanti».
Si tratta di una misura economica che in effetti potrebbe dare una mano al commercio dei gazawi, ma la cui gestione rimanda a tutti i problemi di governo del territorio già evidenziati.
12. «Nessuno sarà costretto a lasciare Gaza e coloro che lo desiderano saranno liberi di farlo e di tornare. Incoraggeremo le persone a rimanere e offriremo loro l’opportunità di costruire una Gaza migliore».
L’idea di espellere i palestinesi nel Sinai, già avanzata da Israele, sembra essere accantonata, ma dipende ovviamente da quale sarà l’assetto successivo all’approvazione del piano.
13. «Hamas e altre fazioni si impegnano a non svolgere alcun ruolo nella governance di Gaza, direttamente, indirettamente o in qualsiasi forma. Tutte le infrastrutture militari, terroristiche e offensive, compresi i tunnel e gli impianti di produzione di armi, saranno distrutte e non saranno ricostruite. Ci sarà un processo di smilitarizzazione di Gaza sotto la supervisione di osservatori indipendenti […]. La Nuova Gaza sarà interamente dedicata alla costruzione di un’economia prospera e di una coesistenza pacifica con i suoi vicini».
Come abbiamo già spiegato sopra, si tratta della cancellazione dell’infrastruttura militare e quindi anche politica di Hamas. Al suo posto non è nemmeno prevista un’altra forma di organizzazione palestinese.
14. «I partner regionali forniranno una garanzia per assicurare che Hamas e le fazioni rispettino i loro obblighi e che New Gaza non rappresenti una minaccia per i suoi vicini o residenti».
Qui viene fatto un semplice cenno a uno snodo decisivo del piano, il ruolo dei paesi della Regione a cominciare dal Qatar. La vera garanzia del piano viene dagli emiri che ci metteranno i soldi, faranno pressione su Hamas (che in Qatar ha una base logistico-finanziaria) e, come spiega il punto successivo, offriranno la soluzione militare per il mantenimento della pace.
15. «Gli Stati uniti collaboreranno con i partner arabi e internazionali per sviluppare una Forza di stabilizzazione internazionale (Isf) temporanea da dispiegare immediatamente nell’enclave».
La forza di stabilizzazione internazionale è la carta segreta dell’accordo. A giudicare dai complimenti di Trump in conferenza stampa a Washington e dalle scuse di Netanyahu per le bombe a Doha contro la leadership di Hamas, sembrerebbe che il Qatar o l’Indonesia potranno avere un ruolo nella forza internazionale, ma anche gli Emirati arabi uniti potrebbero svolgere un ruolo. Qui c’è il vero progetto strategico, la ripresa, su larga scala, degli «accordi di Abramo» e quindi la piena pacificazione tra Israele e gli Stati arabi sulla testa dei palestinesi.
16. «Israele non occuperà né annetterà Gaza. Man mano che le Forze di Stabilizzazione internazionale (Isf) ne ristabiliranno il controllo e la stabilità, le Idf si ritireranno in base a standard di demilitarizzazione, tappe e tempistiche da concordare tra le Idf, le Isf, i Garanti e gli Stati uniti, con l’obiettivo di una Gaza sicura che non rappresenti più una minaccia per Israele, l’Egitto o i suoi cittadini. Nello specifico, le Idf restituiranno gradualmente il territorio di Gaza occupato alle Isf in conformità a un accordo da raggiungere con l’Autorità di Transizione fino al suo completo ritiro dall’enclave, ad eccezione di una presenza all’interno di un perimetro di sicurezza che rimarrà tale finché la Striscia di Gaza non sarà adeguatamente protetta da qualsiasi recrudescenza della minaccia terroristica».
Si può già immaginare che a stabilire quando Gaza sarà «adeguatamente sicura» e quanto ampio sarà «il perimetro di sicurezza» sarà Israele.
17. «Nel caso in cui Hamas ritardi o respinga questa proposta, gli elementi di cui sopra, compresa la grande operazione di aiuti, saranno implementati nelle aree liberate dal terrorismo e consegnate dall’esercito israeliano alle Isf».
Qui si dice che se Hamas, o una sua parte, non capitola, sarà confinata in un’area in cui a Israele sarà consentito continuare la guerra.
18. «Sarà avviato un processo di dialogo interreligioso basato sui valori della tolleranza e della coesistenza pacifica, nel tentativo di cambiare la mentalità di palestinesi e israeliani, sottolineando i benefici che possono derivare dalla pace».
Un punto molto vago, la cui declinazione possibile potrebbe essere quella di considerare in futuro Hamas solamente un’organizzazione religiosa e per questa via ammessa a delle possibili trattative. Ma questo inquinerebbe i termini della questione e non aiuterebbe un possibile processo di transizione verso una pace definitiva.
19. «Con il progredire della riqualificazione di Gaza e quando il programma di riforme dell’Autorità nazionale palestinese sarà fedelmente implementato, potrebbero finalmente crearsi le condizioni per aprire una strada credibile verso l’autodeterminazione e la creazione di uno Stato palestinese, che riconosciamo come l’aspirazione del popolo palestinese».
La quantità di condizioni poste, le circonluzioni, le eventualità future dicono che la questione della Stato palestinese non rappresenta il fulcro dell’accordo, tanto che viene rapidamente citata in calce al piano. Soprattutto non c’è nessun riferimento alla Cisgiordania e tantomeno al problema, decisivo, dei coloni, la minaccia più esiziale alla possibilità che i palestinesi abbiano uno Stato sia pure minimo e condizionato.
20. «Gli Stati uniti avvieranno un dialogo tra Israele e i palestinesi per concordare un orizzonte politico per una coesistenza pacifica e prospera».
Si allude a un processo di pace da riprendere, chissà quando, promessa sentita e ribadita per lo meno dall’accordo di Oslo in poi e che costituiscono la grande illusione sbandierata davanti agli occhi dei palestinesi.
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin il 1 ottobre 2025