Già nello scorso articolo del 14 settembre (QUI) si erano riportati i dati sulla continua e rapida crescita delle malattie professionali – d’ora in avanti, MP – e sulla (a dir poco discutibile) diagnosi – non necessaria negatività dell’aumento delle denunce, in quanto sintomo di consapevolezza, emersione del fenomeno e prevenzione dello stesso – che l’INAIL fa del fenomeno nella Relazione annuale sul 2024(NB: non risulta che altre istituzioni ne facciano altre, di analisi).
Qualche numero, intanto, sui primi sette mesi del 2025: MP denunciate 59.857, (+5.386 rispetto allo stesso periodo del 2024 per +9,9%). Impressionante l’aumento nel quinquennio:
- 2023 + 34,7%
- 2022 + 65,5%
- 2021 + 76,8%
- 2020 + 137,5%
- 2019 + 55,5%
Ottica di genere: + 4.134 denunce per i lavoratori, (da 40.248 a 44.382, +10,3%), e + 1.252 per le lavoratrici, (da 14.223 a 15.475, +8,8%). Aumento sia per i lavoratori italiani (da 49.843 a 54.410, +9,2%), sia per gli stranieri, (da 4.628 a 5.447, +17,7%). Le prime tre patologie denunciate restano quelle del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo, quelle del sistema nervoso e quelle dell’orecchio; seguono i tumori e le patologie del sistema respiratorio.
Più volte si è detto che il dato delle mere denunce è però ingannevole; infatti, se dalle denunce passiamo al riconoscimento delle patologie come di origine professionale, balza all’occhio che mentre gli infortuni denunciati vengono riconosciuti come tali ed indennizzati in circa il 90% dei casi, la situazione sulle malattie professionali è radicalmente diversa, con percentuali di riconoscimento drasticamente inferiori. Nel 2024, ad esempio, sono state riconosciute 32.654 malattie professionali su 88.354 denunce; e pur in presenza di alcune migliaia (la Relazione INAIL non è più precisa) di pratiche ancora in istruttoria, la percentuale di riconoscimento è appena sotto il 37%. Poiché più malattie professionali possono coesistere sulla stessa persona, non dimentichiamo che le denunce hanno riguardato nel 2024 circa 58.000 persone; la Relazione non riporta dati su quanti se la sono vista riconoscere.
Per quanto trascurato da istituzioni e decisori politici, e pressoché assente sui media, le malattie professionali nel loro complesso sono fenomeno studiato anche approfonditamente: esiste infatti, in particolare, il cosiddetto sistema MALPROF, attivato da ormai almeno un quindicennio anche se con prime versione all’inizio del secolo. Si tratta di sistema di sorveglianza (ASL, Regioni, INAIL, Ministeri) delle malattie professionali e dei rischi lavorativi, sviluppato per registrare e analizzare le patologie legate al lavoro e identificare tempestivamente i rischi, consentendo interventi di prevenzione efficaci. Utilizza uno strumento web, MalprofWeb, che raccoglie e analizza i casi segnalati dai Servizi di Prevenzione delle ASL e effettua ricerche attive anche negli ospedali, integrando dati assicurativi e registri di patologia per un quadro completo del fenomeno. Non è possibile ora approfondirne la trattazione in questa sede; mi limito ad osservare che pur nella disponibilità (persino sorprendente) e ricchezza di informazioni ed analisi, non si rinvengono corrispondenti strategie di intervento, pur nella consapevolezza che l’eterogeneità delle malattie professionali e dei relativi rischi, e la compresenza di fattori extra-lavorativi (fattori ambientali, diverse vulnerabilità individuali, invecchiamento della popolazione), richiedono strategie mirate per ogni tipo di patologia, o almeno per quelle numericamente prevalenti. In ogni caso, di recente l’INAIL ha pubblicato una specifica e pregevole scheda cui rimando (https://www.inail.it/portale/it/inail-comunica/pubblicazioni/catalogo-generale/catalogo-generale-dettaglio.2025.09.malprof-le-malattie-psichiche-sul-lavoro.html), fonte del presente articolo, e con riserva di successivi approfondimenti.
Tornando alle malattie psichiche (semplificando: ansia, stress, depressione) esse appaiono a prima vista un fenomeno di entità pressoché trascurabile: dal 2019 al 2023 le denunce sono state in tutto 2047, cioè poco sopra l’1% del totale; e riconosciute solo 149 (7,28%). Per contro, nel medesimo quinquennio la percentuale di riconoscimento di tutte le malattie professionali è stata del 47% (si noti come i dati sul 2024 citati sopra indichino una diminuzione comunque sensibile). In realtà la percentuale cumulata sul quinquennio è ingannevole; nel 2020 e 2021, imperante il COVID con relativo disagio psichico generalizzato, i riconoscimenti arrivarono ad oltre il 10%, e su numeri di denunce più contenuti.
Riconosce peraltro la stessa INAIL nel suddetto studio che la bassa percentuale di riconoscimento è “indice delle difficoltà nella diagnosi di queste patologie e nell’attribuzione di un nesso causale con l’attività lavorativa, ma vi è sicuramente anche una sotto denuncia di queste malattie.”
Tuttavia, al di là dell’entità (difficile anche solo da stimare) delle sotto denunce, le pur poche malattie psichiche sono la spia di un crescente disagio che si allarga nel mondo del lavoro, e non solo in Europa. Stress, ansia e la depressione costituiscono, a parere dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (EU-OSHA), costituiscono il secondo problema di salute lavoro-correlato più comune per i lavoratori europei. Secondo l’indagine Flash Eurobarometer – OSH Pulse (https://osha.europa.eu/it/facts-and-figures/osh-pulse-occupational-safety-and-health-post-pandemic-workplaces), condotta nel 2022 verso il termine dell’emergenza COVID-19, mostra che il 27% dei lavoratori è affetto da stress, ansia o depressione causati o peggiorati dal lavoro. Alcuni dei rischi psicosociali che si sono rivelati più dannosi per la salute dei lavoratori sono gli orari di lavoro cosiddetti “asociali”, cioè incompatibili con la normale vita sociale e familiare (chi legge può provare a censire quante sono le attività di propria conoscenza, soprattutto nei servizi, operativi h24 o 18, sette giorni la settimana su sette festività e domeniche comprese), e l’intensità del lavoro stesso.
Un elemento correlato, fonte del disagio psichico, sono poi molestie (sessuali in primo luogo), bullismo e violenze vere e proprie sul luogo di lavoro, che colpiscono ovviamente le lavoratrici ma anche i lavoratori maschi. Secondo uno studio su 15 paesi dell’UE dell’Agenzia Europea per la sicurezza e salute sul lavoro (https://osha.europa.eu/it/highlights/say-no-harassment-work-oira) “(indagini)… sul 2020 riportano una percentuale più elevata di dipendenti donne che dichiarano di essere esposte a bullismo o molestie sul lavoro rispetto ai dipendenti uomini (ovvero l’1% delle donne e lo 0,6% degli uomini). Risultati simili emergono dall’indagine telefonica EWCS 2021 (EWCTS 2021). La quota di donne che subiscono bullismo, molestie e violenza sul lavoro è superiore a quella degli uomini (6,8% delle donne rispetto al 5,1% degli uomini)”. Però il mero dato “biologico” uomini/donne non è però ulteriormente dettagliato circa le identità sessuali, essendo verosimile che le persone LGBTQ siano più vulnerabili e più colpite. In ogni caso, a fronte di questi numeri, pur in assenza di un dato specifico per l’Italia, c’è da meravigliarsi che le malattie psichiche denunciate qui siano così poche; e, si badi esclusivamente per queste patologie, viene da condividere la posizione INAIL sulla non necessaria negatività di un aumento delle denunce.
Ma cosa sono le malattie psichiche? All’interno della più ampia categoria dei rischi psicosociali, e trasversali (cioè che sono presenti oltre il singolo luogo di lavoro), le malattie psichiche originano dal cosiddetto stress (distress negativo) lavoro correlato. Tra le tante definizioni di quest’ultimo, riporto la seguente: “rischio di natura organizzativa che appartiene alla rosa dei rischi psicosociali o cosiddetti trasversali, come l’organizzazione del lavoro, la sua progettazione e gestione, nonché le relazioni interpersonali e l’ambiente in cui si esegue il lavoro”. La malattia consiste essenzialmente in una “reazione aspecifica psicofisica che avviene quando le richieste lavorative e gli eventi nell’ambiente di lavoro non sono adatte alle capacità e alle risorse del lavoratore”.
Ma mi permetto di considerare tale definizione riduttiva e incoerente con lo stesso concetto di rischio psicosociale: perché a rendere non adatte “capacità e alle risorse del lavoratore” possono ben essere elementi esterni, quali, ad esempio, quelli che riducono (anche legalmente, si badi) il tempo oggettivo da dedicare al lavoro, quali la necessità di curare familiari o sé stessi, il pendolarismo specie se legato a mezzi pubblici scarsi e/o rigidi negli orari, fattori ambientali quali rumore, temperatura, inquinamento, o tutti gli altri elementi della vita sociale necessari allo svolgimento dell’attività lavorativa. Oppure, nei lavori a contatto con il pubblico, sono le caratteristiche degli utenti o clienti e il contenuto del prodotto o servizio fornito (si pensi alla sanità), oppure delle richieste all’utenza stessa (si pensi agli agenti della riscossione, oppure a tutti coloro che svolgono attività ispettive, di controllo esterno, di verifica sui luoghi di lavoro).
Da un punto di vista più strettamente medico, si rinvengono tre tipi di patologie psichiche:
- “il disturbo dell’adattamento (DA)… una condizione psicoemotiva tale da compromettere le funzioni e le prestazioni sociali a causa di eventi e/o cambiamenti di vita stressanti di tipo acuto, che sono identificabili e non estremi. I sintomi possono esordire entro i tre mesi e risolversi entro i sei. Se ciò non si verifica si passa ad una condizione di cronicità;
- il disturbo acuto da stress (DAS)… in conseguenza di gravi traumi di tipo fisico (es. minaccia o molestia) e mentale con esordio poco dopo l’evento o entro un mese. Se il disturbo persiste più di tre mesi si può supporre di giungere al disturbo post-traumatico da stress (DPTS);
- il disturbo post-traumatico da stress, … a causa di eventi altamente minacciosi e catastrofici che possono riguardare la persona sia direttamente sia indirettamente (aver assistito o essere venuto a conoscenza). I sintomi si caratterizzano da un persistente ricordo dell’evento (flashback), una risposta di evitamento agli stimoli stressogeni e un’attivazione del sistema simpatico e del nervo vago”. “
I dati del sistema MALPROF indicano sull’ultimo quinquennio che i disturbi dell’adattamento (F43.2) sono presenti nel 60,4% dei casi, il disturbo acuto da stress e disturbi dell’adattamento nel 25,5%, ed il disturbo traumatico da stress nel 8,7% dei casi, senza particolari differenze tra uomini e donne. I settori di attività economica coinvolti sono “l’assistenza sanitaria (11,8%), il commercio al dettaglio (9,8%) e la pubblica amministrazione (6,3%). Le professioni più coinvolte in questi tre settori sono: i medici (29,1), gli infermieri (20%) e portantini (18,2%) per quanto riguarda la sanità; commessi e cassieri (56,3%) per il commercio; gli impiegati alle mansioni di segreteria (22,2%) per quanto riguarda la pubblica amministrazione”. Tutte professioni che si svolgono a contatto col pubblico, e sulle quali si scaricano tutte le carenze, incongruenze, difficoltà e limiti dell’attività delle relative organizzazioni; e per le quali sarebbero necessari interventi di prevenzione, o almeno mitigazione specifici, di cui abbiamo, a macchia di leopardo, riscontro parziale solo nella sanità, in particolare nei pronto soccorso.
Si potrebbe sostenere, peraltro, che quanto a sicurezza sul lavoro vi sono problemi più gravi ed urgenti; I dati ufficiosi (ma che coprono anche i soggetti non assicurati all’INAIL) dell’Osservatorio privato Morti di Lavoro conteggiano al 24 settembre 810 vittime da inizio anno e 66 in settembre. E mentre scrivo è fresca la notizia dell’ennesima strage a Marcianise (Caserta) ove, in un’azienda di gestione dei rifiuti, lavori di saldatura ad un silos contenenti olii esausti hanno provocato un’esplosione che ha ucciso tre lavoratori (tra cui il titolare dell’azienda) e ne ha ferite altre due. E già in base alle prime sommarie informazioni appare chiaro che la lavorazione non veniva svolta in sicurezza: per incompetenza, formazione e organizzazione inadeguata, strumenti non a norma, fretta, necessità di risparmiare tempo e denaro, o tutte queste cose insieme, le indagini (forse …) ce lo diranno: ma anche quando individuate le cause bisognerebbe rimuoverle, e qui i numeri ci dicono che il sistema Italia si dimostra incapace di farlo. Ma se evitare le morti che avvengono non “sul” lavoro, ma” a causa” del lavoro è certamente prioritario (e siamo ben lontani da tale obiettivo), non ci si può accontentare di una sicurezza sul lavoro volta solo negativa; l’obiettivo deve essere quello di un benessere sul luogo di lavoro. Benessere che, nell’attuale sistema economico capitalistico finanziarizzato e globalizzato, ove lo sfruttamento della forza lavoro assume nuove forme senza che cessino le vecchie, resta probabilmente l’ultima preoccupazione della quasi totalità delle organizzazioni.