Reato di femminicidio, un passo avanti solo apparente

di Tamar Pitch /
11 Agosto 2025 /

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Ci sono due modi, dentro ciò che possiamo considerare l’universo femminil/femminista, di guardare alla nuova fattispecie di femminicidio, approvata all’unanimità al Senato qualche giorno fa. Di questa fattispecie si discute animatamente in realtà da quando, l’8 marzo, è stato presentato il relativo disegno di legge. Già allora, molte giuriste (vedi l’appello di 80 penaliste in Studi sulla Questione Criminale online, 29 maggio 2025) e femministe avevano espresso dubbi e contrarietà (Zuffa, 2025; Pitch, 2025; Peroni, 2025).

Qui non parlerò dei problemi prettamente giuridici (vedi, invece, Passione 2025; Pugiotto; Virgilio, 2025) ma piuttosto delle ragioni per cui molte (e molti), anche tra le femministe, ritengono che questa legge sia un passo avanti nel contrasto a ciò che viene chiamato “violenza di genere”. Le ragioni, mi pare, sono perlopiù simboliche. Si dice infatti (Di Nicola Travaglini, 2025) che finalmente nel diritto penale entra un delitto sessuato, mettendo in scacco così la falsa neutralità di un diritto che finora ha parlato, in realtà, solo al maschile (cfr. anche Boiano, 2025). Si dice anche, in modo complementare, come questo delitto abbia una specificità che va riconosciuta (l’omicidio in relazioni intime sarebbe invece ancora letto e rubricato come “uxoricidio”, cfr. intervista di Perrone a Fabrizia Giuliani in AlleyOop, 2025: Giuliani ritiene che l’introduzione della fattispecie autonoma di femminicidio sia richiesta dalla Cedaw [Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna, adottata nel 1979 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite] e si richiama inoltre ai codici penali latino-americani dove questo è avvenuto da tempo. Per una puntuale analisi, anche comparativa, che smentisce in gran parte queste affermazioni, vedi Virgilio, 2025). Dunque, questa norma è vista con favore, sia perché agevolerebbe l’interpretazione giudiziaria di un fatto commesso solo contro le donne, sia perché, e soprattutto, sancirebbe simbolicamente e culturalmente un’uguaglianza tra donne e uomini, proclamata bensì in Costituzione ma disattesa dal diritto e dai suoi interpreti.

Rivolgersi al penale per il suo potenziale simbolico (e pedagogico) non è certo cosa nuova, nemmeno per il movimento delle donne, che vi ha fatto ricorso durante la lunga campagna per cambiare la legge contro la violenza sessuale. In quel caso l’intento simbolico era del tutto esplicito: la proposta di legge di iniziativa popolare promossa dal Movimento delle donne (associato al partito radicale) si limitava a spostare il reato dal Titolo V (reati contro la morale) al Titolo XII (reati contro la libertà personale), a riunire in un’unica fattispecie la violenza carnale e gli atti di libidine violenta, a introdurre la procedibilità d’ufficio: ciò per segnalare che lo stupro niente aveva a che fare con la sessualità, essendo invece pura e semplice violenza. Non magari la nuova legge, ma la lunga campagna per approvarla ha certamente avuto un ruolo importante nel mutare la percezione della violenza sessuale nel senso comune, soprattutto femminile. Riconosco di essere stata tra quelle contrarie alla presentazione di una proposta di legge da parte di femministe, preferendo ciò che allora veniva chiamata la “pratica del processo”, ossia, in altre parole, il tentativo di mutare la cultura giuridica interna (di magistrati/e e avvocati/e) piuttosto che la norma, e riconosco di avere avuto almeno in parte torto: cercare di cambiare le norme penali così come quelle di altri rami del diritto, politica praticata dai movimenti delle donne fin dall’inizio delle loro lotte, non è sufficiente, ma non è inutile e talvolta è necessario (Boiano, 2025).

Come dicevo, in quel caso la campagna femminista ha contribuito a cambiare il senso comune. Non abbastanza, ritengo, la cultura giuridica interna. Altrettanto si può dire dell’introduzione del termine femminicidio nel linguaggio comune e nei media. Coniato da Marcela Lagarde per indicare non solo gli omicidi di donne, ma il complesso di violenze, oppressione, sfruttamento da loro subite, nel contesto della strage di operaie impiegate nelle maquiladoras al confine tra Messico e Stati Uniti, in Italia viene utilizzato per definire gli omicidi di donne da parte, perlopiù, di (ex) mariti e compagni, spesso al culmine di violenze, maltrattamenti, atti persecutori. Quando si è cominciato a parlarne ero perplessa, mi sembrava un’importazione indebita e una traduzione infedele del suo significato originario, ma soprattutto ne temevo gli effetti semplificatori rispetto al contesto sociale e politico in cui questi omicidi avevano luogo. Avevo torto anche stavolta: l’introduzione di questa parola nel nostro lessico ha avuto un ruolo importante nella diffusione della conoscenza di un fenomeno particolare, di un omicidio di donne “perché donne”, da parte di uomini con cui avevano una qualche relazione (la nuova fattispecie però non parla di “uomini”, ma di “chiunque”).

Farne una fattispecie di reato autonoma, però, è un’altra cosa. Anche perché questo avviene quando di femminicidio si discute da tempo. Criminalizzare qualcosa fa di ciò che fino allora era considerato legittimo, “normale”, ovvio, nell’ordine delle cose, un “male” universalmente riconosciuto come tale. Rinominandolo, lo “scopre”, lo rende visibile. C’è poi un altro guadagno da non sottovalutare: i/le protagoniste di queste campagne acquisiscono visibilità a loro volta e vengono riconosciute come interlocutrici politiche. I costi sono però alti. Il linguaggio del penale ricostruisce la scena come un conflitto tra soli due attori, l’offensore e la vittima, e tendenzialmente oscura il contesto sociale e culturale in cui l’evento si situa, contribuendo a quell’appiattimento della complessità nel frattempo prodotto dall’egemonia neoliberale e dalla sostituzione del paradigma dell’oppressione con il paradigma della vittimizzazione. E in questo caso la criminalizzazione, avviata da questo Governo, avviene a “scoperta” avvenuta e la legittimazione conseguente è cercata (e, a quanto pare, ottenuta) dal Governo stesso.

Il ricorso al potenziale simbolico del penale, in nome della sicurezza, è diventato negli anni sempre più frequente, utilizzato dai governi, nazionali e locali, per ottenere consenso e da vari attori sociali per acquisire visibilità o per mettere in luce torti e abusi che ritengono di aver subìto. Il penale, insomma, viene invocato come la panacea di ogni male, la soluzione per qualsiasi problema. In quest’ultima legislatura sono stati varati, in nome della sicurezza, più di cinquanta nuovi reati, tra cui, richiesto da una parte del femminismo (la stessa che inneggia alla nuova fattispecie), quello “universale” di gestazione per altri. La fattispecie femminicidio non fa che aggiungersi a questa bulimia penale, e lo fa, ovviamente, a costo zero, ossia senza alcuna previsione di spesa. Come avevo già fatto notare (Pitch, 2025), inoltre, essa nomina solo le “donne”, dunque presumibilmente solo quelle “biologiche”, coerentemente con un Governo che predica il primato della famiglia “naturale”. Con l’ergastolo come pena “fissa”. Da quando si hanno dati un po’ attendibili, vediamo che i femminicidi non sono aumentati, ma neanche diminuiti, nonostante le varie misure varate negli ultimi anni dal cosiddetto “codice rosso” in poi, come ammesso del resto dalla stessa ministra Roccella (Allegri, 2025): ciò a riprova del fatto che gli strumenti penali, da soli, poco valgono a prevenire un fenomeno che non è emergenziale, ma strutturale, ossia sociale e culturale. L’ergastolo previsto per la nuova fattispecie come pena fissa (l’ergastolo viene già comminato spesso per questo tipo di omicidi) è una pena particolarmente irrilevante a questo scopo: molti uomini si suicidano o tentano di farlo dopo aver ucciso e se guardiamo ai paesi dove è prevista la pena di morte, gli Usa per esempio, constatiamo la stessa cosa. Piuttosto, la violenza e crudeltà del sistema penale contribuiscono a moltiplicare violenza e crudeltà nella società sia contribuendo alla produzione di un senso comune secondo cui ad ogni problema si risponde con la massima severità penale, sia legittimando così le pulsioni sociali più vendicative (lo abbiamo visto in occasione dell’ergastolo comminato a Turetta, l’assassino di Giulia Cecchettin, in cui si è lamentata l’esclusione di alcune aggravanti). L’ergastolo dovrebbe piuttosto essere abolito, in primo luogo perché (checché ne dica la Corte Costituzionale) è in contrasto con l’art. 27 Costituzione, secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, e poi perché si tratta di un trattamento crudele e disumano. Le femministe non possono inoltre ignorare il carattere razzista e classista della giustizia penale, la sua funzione principale di strumento per il controllo e la repressione della marginalità, del disagio, della povertà: contribuire a legittimarla proprio in un momento in cui queste caratteristiche sono più evidenti e su cui più si insiste da parte governativa lo trovo in profondo contrasto con le istanze di libertà ed uguaglianza promosse dal femminismo stesso.

Né questa norma vale a promuovere l’empowerment femminileAl contrario, respinge le donne nel ruolo di eterne vittime, esseri vulnerabili cui estendere la massima protezione da parte dello Stato. Protezione, tuttavia, come dicevo, a costo zero. Perché ciò che davvero sarebbe utile sarebbero politiche sociali tese a riequilibrare il gap economico tra donne e uomini, a rendere le donne economicamente socialmente e culturalmente indipendenti dai partner, anche e soprattutto quando hanno figli piccoli, a rafforzare le reti dei centri anti violenza e delle case rifugio. E magari attivare proprio ciò che non si vuol fare, ossia una vera educazione sessuale e affettiva, già a partire dalla scuola dell’infanzia.

Testi citati:
Allegri P., 2025, “Il femminicidio come reato autonomo: i rischi della risposta meramente punitiva alla violenza di genere”, in Antigone, Ventunesimo Rapporto sulle condizioni di detenzione
Boiano I., 2025, “Nominare la violenza maschile contro le donne: diritto penale e giustizia tra conflitto simbolico e responsabilità politica”, in Giustizia Insieme, 4 aprile
Di Nicola Travaglini P., 2025, “Il femminicidio esiste ed è un delitto di potere”, in Sistema Penale, 2, maggio
Passione M., 2025, “Diritto penale (de)privato”, in Giurisprudenza Penale Web, 7-8
Peroni C., 2025, “Anatomia di un dibattito femminista: le ambivalenze nel nominare il femminicidio”, SSQC on line, 17 aprile
Perrone M., 2025, “Intervista a Fabrizia Giuliani”, in AlleyOOp, 24 luglio
Pitch T., 2025, “Un reato tutto per noi”, In Factorya, 14 marzo
Pugiotto, A., 2025, “La mimosa all’occhiello del populismo penale”, in l’Unità, 14 marzo
Virgilio M., 2025, “Chi ha ‘urgenza’ di introdurre nel codice penale il delitto di femicidio/femminicidio?”, About Gender, vo. 14, n. 27
Zuffa G., 2025, “Uomini che uccidono le donne: né mostri né matti”, in Il Vaso di Pandora Rivista, vol. XXXII, 1

Questo articolo è stato pubblicato su Volere la luna il 31 luglio 2025

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