È una storia che non finisce mai quella della strage di Bologna. Anche se la vicenda giudiziaria è nella sostanza esaurita e non si vedono motivi per riscriverla, come qualcuno, soprattutto a destra, vorrebbe fare. Sono stati condannati in via definitiva gli esecutori (Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini, Gilberto Cavallini e Paolo Bellini) e le ultime sentenze passate in giudicato hanno anche individuato chi ha ideato, organizzato e finanziato l’eccidio che la mattina del 2 agosto 1980 costò la vita a 85 persone e ne ferì altre 200: Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi. Cioè la P2, i servizi segreti e i fascisti.
IL PERCORSO nei tribunali non è stato facile, anzi, al contrario, è stato lunghissimo, accidentato, talvolta contraddittorio. Frutto dei depistaggi che cominciarono il giorno stesso della strage e si sono stesi negli anni come una malattia autoimmune, perché dietro c’erano pezzi dello stato. L’ultima parola «nel nome del popolo italiano» è stata pronunciata dalla Cassazione lo scorso primo luglio quando è stato reso definitivo l’ergastolo per Bellini, ma è una conclusione che consola solo fino a un certo punto, perché, al momento del processo che alla fine ne ha individuato le responsabilità, i mandanti erano già tutti morti. È per questo che gli ultimi eredi del Msi attualmente al governo possono continuare a giocare con le parole (Meloni, un anno fa parlò di «strage che le sentenze attribuiscono a esponenti di organizzazioni di destra») quando non c’è mai stato dubbio alcuno sulla matrice fascista dell’attentato: le modalità parlano da sole e tutte le altre piste sono state smentite in maniera categorica, perché le prove non c’erano o erano state costruite a tavolino proprio con l’obiettivo di sviare le indagini.
E SE LE INTUIZIONI prima di Vittorio Occorsio (ucciso dal «comandante militare» di Ordine Nuovo Pierluigi Concutelli nel 1976) e poi di Mario Amato (fatto fuori nel 1980 dai Nar) sulle connessioni tra terroristi neri e apparati dello Stato, uniti nell’abbraccio e costantemente sull’uscio delle porte delle sedi del Msi, trovano una conferma, questa non va cercata solo nelle sentenze, ma anche – soprattutto – nella storia politica del nostro paese. Era il settembre del 1990 quando in un’intervista all’Unità Giuseppe Di Lello, allora giudice per le indagini preliminari a Palermo, disse che «tutti i delitti e le stragi commessi dai neri sono rimasti impuniti. E la colpa non è certo dei magistrati di Bologna o di quelli di Firenze che non riescono a individuare esecutori e mandanti, ma dello stato che non vuole si scopra la verità. E questo perché i crimini dei neri sono stati realizzati con coperture, deviazioni dei servizi segreti. Credo che quest’ultimo ragionamento sia valido anche per i grossi delitti di mafia». Parole pronunciate prima delle recenti riscosse giudiziarie, ma che risuonano forti oggi che la pista nera rispunta per l’omicidio di Piersanti Mattarella e per le stragi e gli omicidi mafiosi d’inizio anni ’90. Non tanto per le indagini in corso, che ovviamente faranno il loro corso, ma per l’evidenza dei depistaggi, che discendono sempre dalla stessa fonte. Anche qui siamo in presenza di fatti storicamente accertati e politicamente indiscutibili: le trame atlantiche sono (state) una realtà.
«STRAGE DI STATO» è un’espressione che nasce nel 1970 dal titolo di un libro di controinchiesta su piazza Fontana, l’evento da cui discende la cosiddetta strategia della tensione, che non fu solo una sequenza di massacri, ma anche una costellazione di depistaggi. Già per i fatti del 12 dicembre 1969 le indagini cominciarono puntando dritte verso ambienti che non c’entravano niente – gli anarchici – dando il via a un caos giudiziario comune a tutte le stragi i cui effetti si avvertono ancora oggi. Perché per smentire una falsa pista spesso ci vogliono anni e imboccare quella giusta in ritardo vuol dire muoversi in un labirinto.
L’elenco di tutti i passaggi fatti nei tribunali per l’attentato di Bologna è eloquente. Il primo processo cominciò sette anni dopo lo scoppio della bomba, nel 1987, e la Cassazione si pronunciò solo nel 1995, peraltro assolvendo Sergio Picciafuoco (neofascista che quel 2 agosto di certo era alla stazione e rimase pure ferito). Un anno prima era arrivata la sentenza di ergastolo per Fioravanti e Mambro. Si è consumato tra il 2000 e il 2003 poi il processo per i depistaggi, terminato con le assoluzioni di Massimo Carminati e Federigo Mannucci Benincasa, ex direttore del Sismi di Firenze. È durato dieci anni invece il processo a Ciavardini, minorenne all’epoca dei fatti, concluso con una condanna a trent’anni. Il terzo processo, quello che ha portato all’ergastolo per Cavallini, è andato in scena tra il 2017 e il 2020, anno in cui la procura di Bologna ha chiuso le indagine sui mandanti e i finanziatori, dalla quale è nato il processo a Bellini, chiuso il mese scorso.
UN’ODISSEA. Gli atti ammontano ormai a diverse decine di migliaia di pagine e per muoversi negli archivi – è notizia degli ultimi giorni – ci si serve dell’intelligenza artificiale tanta e tale è la mole di informazioni, perizie, verbali e testimonianze accumulata nel tempo. Ma al termine di questa lunga notte della Repubblica una certezza esiste: a Bologna fu una strage di stato compiuta con manovalanza fascista.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 2 agosto 2025