Goffredo Fofi, il maestro disobbediente e la nonviolenza

di Pasquale Pugliese /
17 Luglio 2025 /

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La formazione del giovane Goffredo Fofi, maestro, si è svolta sul campo della nonviolenza, partecipando all’esperienza di Danilo Dolci in Sicilia – dove si trasferisce diciannovenne da Gubbio, nel 1956 – con l’insegnamento e la cura ai bambini delle baracche del Cortile Cascino di Palermo, uno dei luoghi più poveri dell’Italia del tempo, e attraverso la lotta alla miseria e ai poteri che la imponevano, con gli strumenti della disobbedienza civile a Trappeto e Partinico: dai digiuni collettivi allo “sciopero al rovescio”, che portò al primo processo contro Danilo Dolci e i suoi collaboratori.

Grazie a Dolci, Fofi conosce il conterraneo Aldo Capitini, il filosofo di Perugia teorico della nonviolenza e fondatore della Movimento Nonviolento – che a Dolci, chiamato il Gandhi italiano, ed alla sua “rivoluzione nonviolenta” siciliana dedicherà due libri – con il quale instaura un profondo rapporto, da maestro ed allievo, che lo aiuterà a maturare una solida formazione al pensiero nonviolento. Fofi sarà tra gli organizzatori, con Capitini, della Marcia della pace per la fratellanza tra i popoli da Perugia ad Assisi il 24 settembre del 1961. Molti decenni dopo, ne ripubblicherà nel 2019 Le tecniche della nonviolenza per le edizioni dell’asino e ne introdurrà la nuova edizione dell’editore Manni nel 2024.

Immerso, successivamente, nel lavoro socio-culturale tra Torino, Parigi, Milano, Napoli e Roma, Fofi incontrerà – grazie alla comune gravitazione nell’area di Lotta continua – un altro riferimento nonviolento, ma di una generazione successiva a Capitini e Dolci, che considera un “maestro” seppur più giovane di lui di una decina d’anni: Alex Langer, con cui lo scambio e la collaborazione non si interromperà più fino alla scelta definitiva del secondo. Langer sarà l’unico “politico” di cui Fofi apprezzerà la capacità di stare sia nelle istituzioni che nei movimenti eco-pacifisti, portando le istanze dei secondi nelle prime senza cambiare pelle. Non è un caso che l’ultimo libro di Fofi, Ciò che era giusto, pubblicato poche settimane fa, è dedicato proprio all’eredità ed alla memoria di Alex Langer, nel trentennale della dipartita.

Sono alcuni dei punti di riferimento umani e culturali che Goffredo Fofi avrà sempre presenti nell’indicare la necessità, e sempre più l’urgenza, della via nonviolenta alla rivoluzione: la capitiniana non accettazione dell’esistente, ossia che il pesce grande mangi il pesce piccolo in una realtà sempre più strutturalmente violenta; la necessità di non fare il male, ovverola gandhiana ahiṃsā, il non nuocere che sarà la cifra anche della scelta vegetariana, come lo fu per Capitini e Gandhi; il non mentire: dire sempre la verità, a costo di risultare irritanti, in un contesto sempre più pervaso dalla propaganda continua da un lato e dalla piaggeria nei confronti del potere dall’altro; il non collaborare al male, cioè la via della disobbedienza civile; l’impegno attivo per quello che Capitini chiamava il potere di tutti, il potere dal basso, fuori dalle consorterie politiche, accademiche, culturali. Come vissero sia Fofi che Capitini, ma mai isolati.

La radicale scelta della nonviolenza, che lo ha accompagnato nelle molteplici vite che Fofi ha attraversato, non fu ideologica ma capitinianamente “persuasa”. Di una persuasione capace di ascoltare, senza sottrarsi, anche il punto di vista critico del filosofo Günther Anders – del quale pubblica per le edizioni Linea d’ombra gli scritti Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki e Discorso sulle tre guerre mondiali – il quale, nel serrato mettere in guardia contro l’incombere del pericolo atomico sull’umanità, nell’ultima fase della vita considera la risposta nonviolenta non più sufficiente a scongiurare il pericolo, fino ad ipotizzare la possibilità della violenza mirata. Fofi prende sul serio la grave riflessione di Anders e nel 2015 pubblica il libretto Elogio della disobbedienza civile, nel quale afferma che la nonviolenza non può essere solo scelta intima individuale o, al contrario, fatta di “feste periodiche di massa dei fine settimana” come il generico pacifismo, ma deve ritornare ad essere essenzialmente disobbedienza civile. Solo così può rispondere efficacemente alle emergenze crescenti del presente.

Dunque, la disobbedienza civile” – scrive Fofi nell’Elogio – “Qui e dovunque. Del singolo, dei gruppi, delle collettività. Quella civile e non quella incivile proposta dai disobbedienti per sport o per irrequietezze non portate a ragione, non quella incivilissima degli ambiziosi di conquista, non quella degli esasperati egoismi. Quella che sa distinguere, che sa convincere, che sa assumere la responsabilità, e dunque le conseguenze, dei suoi gesti e difenderne la necessità, diffondendone i fini e i modi. Quella responsabile nei confronti del prossimo e della natura, e dei nuovi arrivati e dei nuovi nati. Forse, anzi certamente, si continuerà a perdere, ma vivere alla giornata dei capricci di un sistema dominato dall’avidità, dalla menzogna, dalla violenza, dell’indifferenza al futuro e alle conseguenze delle proprie azioni predatorie, non è vivere ma vegetare. (…). Bisogna smettere di obbedire, prima che sia troppo tardi”. Fofi non ubbidì mai: disobbediente civile prima e culturale dopo, persuaso sempre della forza della nonviolenza. Per “resistere, studiare, fare rete, rompere i coglioni”, come amava specificare.

Questo articolo è stato pubblicato sul blog di Pasquale Pugliese il 15 luglio 2025

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