La scuola che rimuove gli ostacoli

di Paola Urbinati /
16 Luglio 2025 /

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C’è un’idea di scuola che, oggi più che mai, ha bisogno di essere ripensata e sostenuta con coraggio. Una scuola che non si limiti a “formare”, ma che sappia rimuovere gli ostacoli che impediscono a molti studenti di apprendere davvero e di sentirsi parte di una collettività. Purtroppo, le disuguaglianze linguistiche, sociali ed economiche, la differenza tra nord e sud, tra centro città e periferie, pesano ancora molto sugli esiti scolastici e non possono essere affrontate con interventi estemporanei. Serve un investimento strutturale e mirato. 

La vicenda bolognese di Nadir, studente pachistano bocciato all’esame di Stato, ma sostenuto dalla sua comunità scolastica che gli ha riconosciuto un impegno e un interesse costante durante i cinque anni di scuola, ci spinge, da una parte, a ripensare le modalità con cui si svolge l’esame; a prendere in considerazione l’operato della commissione che lo ha valutato, ma soprattutto ci chiede di verificare se la scuola oggi sia in grado di arginare le differenze tra alunni di madre lingua italiana e i non italofoni, garantendo pari opportunità sia per il presente che per il futuro.  

È la nostra scuola in grado di rimuovere gli ostacoli che impediscono o rendono particolarmente stressante e scoraggiante    l’apprendimento e lo sviluppo della persona che arriva da un altro paese o che vive in un contesto di fragilità? 

Sognare una scuola che rimuova gli ostacoli è possibile, lo vuole la Costituzione, ma richiede una visione politica all’altezza. Non si tratta di inseguire l’efficienza, la competizione, ma di costruire giustizia educativa. Non si tratta di fare di più con meno, ma di investire di più e meglio, dove serve. Perché l’uguaglianza non si proclama, la si costruisce quotidianamente, scuola per scuola, aula per aula, alunno per alunno.  

Cosa si sta già facendo nella scuola italiana e cosa può essere fatto e migliorato? Partiamo proprio dall’esperienza di Nadir,    arrivato a Bologna nel 2020 e inserito nel contesto scolastico in base al protocollo nazionale    che consente ad alunni NAI, nuovi arrivati in Italia, di seguire il percorso educativo della classe di inserimento, usufruendo di un piano didattico personalizzato (PDP) cioè di strumenti compensativi e dispensativi (verifiche programmate, mappe concettuali, riduzione dei contenuti ecc.), individuati dal consiglio di classe; di una valutazione complessiva svolta al termine del secondo anno e di un monte ore, troppo esiguo, di insegnamento della lingua italiana.  

Eppure, sebbene ci siano strumenti individuati per accogliere chi si trova nella doppia difficoltà di inserirsi in un contesto diverso da quello di provenienza e di imparare una lingua nuova, sia scritta che parlata, tuttavia i dati ci informano che gli alunni stranieri continuano a essere i più penalizzati dal nostro sistema scolastico. Un’alta percentuale viene bocciata e abbandona lo studio anticipatamente. Cosa può rendere inefficaci questi strumenti?  

Per tornare a Nadir che è uno dei tanti studenti penalizzati, veniamo a sapere che nei cinque anni del percorso scolastico, la sua classe ha cambiato ben sette docenti di italiano, fatto che non ha sicuramente permesso un percorso omogeneo e che ha reso più difficile il consolidamento delle competenze, soprattutto per gli alunni stranieri NAI.  

L’altro punto debole del protocollo nazionale rimane la discrezionalità dei docenti nell’applicare il piano personalizzato. Nel caso di Nadir che non è riuscito a superare l’esame finale, saranno figure preposte a stabilire se, anche durante le tre prove, lo studente sia stato messo nelle condizioni di fruire regolarmente del PDP o se quella certa “discrezionalità” lo abbia penalizzato. Qui ci limitiamo a incoraggiare Nadir nella sua richiesta di presa visione degli atti d’esame, ma ancora di più lo sosteniamo, affinché consegua quel diploma che gli consentirà di svolgere un lavoro dignitoso, come lui chiede. 

Se ci affidiamo ai dati, ci confermano che la presenza di alunni stranieri è consolidata nel nostro paese, soprattutto nelle città dell’Italia    del nord come Bologna. I dati relativi all’anno 2022-23 parlano di una popolazione scolastica straniera, cioè senza cittadinanza, pari all’11,2%. In Emilia-Romagna nel 2023-24 si è raggiunto il 18,4% del totale di studenti frequentanti. Questi dati devono interrogare chi governa rispetto all’efficacia degli investimenti e degli interventi necessari per accogliere, inserire e agevolare nell’apprendimento chi parte con uno svantaggio linguistico.  

La scuola rappresenta uno dei principali strumenti di inclusione in una società sempre più multiculturale. In particolare, per gli studenti di origine straniera, l’istituzione scolastica può diventare un punto di riferimento fondamentale per superare le barriere linguistiche, sociali ed economiche che ostacolano il pieno inserimento e la partecipazione attiva alla vita collettiva.  

La scuola avrebbe il potere di attenuare le disuguaglianze, agendo come leva di inclusione e mobilità sociale. Perché svolga efficacemente questo ruolo, è però necessario investire più risorse in politiche educative inclusive.  

Infondo, non siamo troppo lontani dalla società e quindi dal modello di scuola che pensava Don Milani per il quale la scuola non è un luogo neutro. Se non è attenta alle disuguaglianze, rischia di amplificarle. E Milani ai suoi studenti fragili    offriva una scuola viva, basata sul dialogo, sulla scrittura collettiva, sulla comprensione piena delle parole. Perché, diceva, “la parola è lo strumento del potere”. Solo chi sa esprimersi, scrivere, argomentare, può partecipare pienamente alla vita democratica. 

Oggi, in un contesto in cui tanti studenti vivono fragilità diverse — povertà economica, difficoltà linguistiche, contesti familiari complicati — le parole di Milani sono più attuali che mai. Ci ricordano che la scuola non può essere solo un luogo di trasmissione di contenuti, ma deve essere uno spazio di riscatto e di pari opportunità. Un luogo dove ciascuno, anche chi parte da più lontano, abbia gli strumenti per diventare cittadino consapevole. 

In questo senso proprio la città metropolitana di Bologna ci viene incontro con la sua attivazione di un Protocollo per l’accoglienza e l’inclusione di alunni stranieri che oggi sono i più fragili. Si tratta della costituzione di Scuole-Polo che condividono in rete informazioni volte ad agevolare l’inserimento e l’inclusione nelle scuole di primo e secondo grado di alunni di recente immigrazione. In base alle linee guida del protocollo, nel territorio metropolitano è possibile rafforzare figure di riferimento come alfabetizzatori, insegnanti L2, mediatori e facilitatori, in collaborazione con enti e associazioni. Uno strumento che, se fatto adeguatamente funzionare, contribuisce anche a circoscrivere la dispersione scolastica, grazie alla partnership tra scuole-famiglie-territorio. Restando sempre a Bologna, nel 2025 è partito il progetto che vede l’introduzione della co-presenza di docenti L2 nelle classi di otto scuole, favorendo così scambio di competenze e didattica inclusiva. Un modello che andrebbe esteso, ma che necessita di un prerequisito imprescindibile: gli enti locali non possono subire tagli dal governo centrale.     

Più in generale il protocollo prevede la valorizzazione del plurilinguismo con l’insegnamento della lingua madre. A tal proposito, si può pensare di guardare ai modelli di integrazione linguistica scolastica, sviluppati nei territori a statuto speciale, come il Trentino/Alto Adige o dove per motivi storici una lingua era stata abolita e poi ripristinata, è il caso dell’euskera    nei Paesi Baschi. Esempi, questi, che possono essere un riferimento per le buone pratiche da diffondere. 

Per tornare al piano nazionale, occorre puntare sulla continuità didattica. Il turnover degli insegnanti, le nomine tardive, i trasferimenti annuali    mettono a dura prova la costruzione di relazioni educative stabili. Stabilizzare il personale, rafforzare la formazione continua e valorizzare il ruolo degli insegnanti nelle aree più fragili è una scelta strategica. Nel 2024 la percentuale di docenti precari nella scuola italiana si attesta intorno al 24-27%. Ciò significa che circa un quarto dei docenti nelle scuole statali è impiegato con contratti a tempo determinato. 

L’altro punto su cui si deve fare leva è la riduzione del numero di alunni per classe. In molte scuole italiane si continua a insegnare in aule sovraffollate, dove diventa difficile anche solo ascoltare tutti, figuriamoci personalizzare l’insegnamento. Per di più, spesso il numero di alunni, che può arrivare fino a 30 per classe, non diminuisce nemmeno in presenza di studenti con disabilità, come previsto dalle indicazioni nazionali. Classi più piccole non sono un trastullo pedagogico, sono una misura concreta per garantire attenzione, relazione, inclusione. Sono il primo passo per far sentire ogni studente visibile. Un altro numero va riconsiderato ed è quello che porta ad accorpare istituti, quando rimangono al di sotto di una percentuale di iscritti, con conseguenti disagi nell’organizzazione e nello svolgimento della didattica. La soglia prevista deve tenere conto delle aree più fragili come quelle interne. 

È tempo anche di ripensare alcune scelte curricolari recenti. I percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (PCTO), nati per avvicinare scuola e mondo del lavoro, spesso si traducono in esperienze marginali, a volte prive di reale valore formativo. Negli istituti professionali come quello frequentato da Nadir, il protocollo prevede almeno 210 ore di PCTO da distribuire nel triennio. La riforma di Valditara estende anche al biennio questa attività, quando è evidente che sarebbe più utile organizzare ore con laboratori di rinforzo in italiano, matematica, lingua straniera ed educazione alla cittadinanza, soprattutto per gli studenti con difficoltà pregresse. Un laboratorio ben progettato può essere molto più efficace di una simulazione d’impresa avvilente o persino rischiosa, come attesta un dato drammatico dell’INAIL che, nella sua relazione annuale, denuncia 2.100 infortuni in alternanza scuola-lavoro. Vogliamo che gli studenti siano più preparati e competenti, ma ogni anno li allontaniamo per circa un mese dalla scuola. 

Investire meglio. Se non si investe di più e meglio, la scuola rischia di trasformare le differenze in disuguaglianze. Per questo è fondamentale individuare le carenze per intervenire in modo mirato. L’istituzione di zone di educazione prioritaria e solidale è una proposta che non può più essere rinviata. Stiamo parlando dell’individuazione di aree in cui concentrare risorse e interventi specifici per contrastare le disuguaglianze educative e il disagio sociale. (https://www.sinistraitaliana.si/promossa/

La scuola deve essere un presidio di democrazia e cittadinanza attiva. Più risorse per chi ha meno: la sfida educativa non si vince certo con slogan, ma con scelte precise. Chi insegna lo sa. Questo significa, ad esempio, attivare sportelli di ascolto, inserire facilitatori linguistici per studenti non italofoni, educatori e mediatori di supporto nelle classi multietniche. Significa offrire libri e dispositivi digitali in comodato d’uso (educando alla condivisione di beni comuni), pasti scolastici gratuiti o a tariffa agevolata, trasporti accessibili. È qui che la scuola dimostra di essere davvero pubblica e democratica: quando garantisce a tutti il diritto di imparare, nonostante le differenze di partenza.  

Tutto questo è possibile solo se a crederci sono gli insegnanti, i dirigenti scolastici, le famiglie, gli amministratori.  

Vogliamo credere che chi ha valutato Nadir sia stato mosso dallo stesso intento, quello di aiutare un ragazzo a inserirsi con dignità nel nostro territorio. 

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