Tre donne intorno al cor mi son venute

di Silvia Napoli /
20 Marzo 2025 /

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In questo periodo dedicato ormai da tradizione alle questioni di genere e alla celebrazione del genio femminile, mentre si moltiplicano iniziative di riflessione scientifica che rintracciano la profondità dei fenomeni legati al rimosso femmineo profondo, come il composito progetto il Danno del Dono che ha preso il via nella sede dell’assemblea legislative Er, la scorsa settimana, mentre si moltiplicano anche segnali chiaroscurali sui processi culturali e giuridici in trasformazione, per esempio relativi al reato di femminicidio, vengo brevemente a segnalarvi tre diverse situazioni teatrali che possono aiutarci a verificare la polisemia dei linguaggi di scena.

Cominciamo con la tenacia premiante di Debora Binci, legata per i più alla esperienza del bolognese Teatro dei Mignoli, un tipo di teatro che negli anni ha saputo situarsi con un certo anticipo sui tempi, negli spazi interstiziali di un sociale in trasformazione profonda e che dalla sua attuale postazione ecologicamente invidiabile quale la località 300 Scalini all’interno del parco di Villa Spada produce idee rigenerative e aggregative in gran copia.

Dicevamo tenacia, perché non poco ha dovuto sudare e lavorare la nostra attrice autrice, organizzatrice di origine marchigiana per portare a compimento un suo progetto personale a pieno titolo quale questo Strada statale 16, che ha recentemente debuttato in prima nazionale, dopo varie tappe intermedie di avvicinamento, in uno dei numerosi ancorché poco noti spazi teatrali della sua regione natale.

Strada statale 16 da abbozzo progettuale quale era stato in sede di presentazione ad una delle più recenti edizioni di Premio Scenario, è ora un toccante lavoro a tutto tondo in cui la giovane Binci attrice può dar prova di grande istrionismo interpretativo rivestendo in sequenza accenti, movenze e sembianti di personaggi maschera ripescati da un memoir personale e un immaginario collettivo di provincia profonda.

La provincia profonda e apparentemente bonaria e gentile di cui stiamo parlando e proprio quelle leopardiana tra la collina e il mare, ma soprattutto tra ferrovia, autostrada e appunto tante provinciali e una nota statale fitta di camion e traffici, vigilata dall’alto dalla basilica lauretana, in cui sono incastonati una manciata di cittadine e paesi forse distratti, forse sonnolenti, forse sprovveduti o forse semplicemente travolti come in un effetto domino di cui non possono intravvedono più le origini e le concause, da processi inarrestabili e ignoti. è la globalizzazione, bellezza, o forse qualcosa di ancora più ctonio e spaventoso come l’inconscio a palesarsi in una sorta alternativamente di autoanalisi, terapia di gruppo e seduta spiritica.

La nostra autrice non costruisce infatti un dispositivo monologante me, myself and I, pur partendo in maniera dichiarata, secondo logiche politicamente precise di posizionamento e di genere (rivelatorio lo slittamento linguistico infantile sulle Lego, pretesto visivo narrativo di costruzione, ma anche di ricorrente sempiterno disfacimento) lego cubetti peraltro presenti icasticamente festosamente in scena come feticcio schermo, musical box dei nostri irriducibili imprescindibili anni 60-70.Gli unici in questo paese a fermo immagine, gli unici in cui in questo paese sembra essersi spostato in una direzione non del tutto sempre imposta o subita e dunque mitologici  nella percezione pure di chi non c’era ancora, di chi non li ha mai vissuti. Sceglie piuttosto la dimensione polifonica di una narrazione che va su e giù e di sbieco nel tempo, cercando affannosamente una dimensione, una scala come si fa nelle carte geografiche, un farsi spazio, un andare via lontano che non è più migrazione, ma punto di fuga in tutte le accezioni. Ma è proprio la categoria cognitiva del lontano col suo portato di mistero, sorpresa, scoperta che è impraticabile se ti sei sempre sentito forse un po’ su bordi, su margini da cui sporgersi, già lontano del tuo. Come accade nella scena “cinematografica” della macchina giù nel dirupo sulla iconica strada per il Conero. Si, perché lo spettacolo esattamente come nel gioco del Lego ha messo a posto i suoi pezzi come scene vivide che alternano scelte espressive e codici, mentre si cerca insieme allo spettatore di capire se da bordi, dalle periferie d’Italia si vede meglio quel centro, quel telos indeterminato. Dunque, non soliloquio, non assolo, ma una schiera di raffigurazioni maschili e femminili in postura dialogica e animati dall’urgenza e dalla necessità di raccontare trovando testimoni o forse semplicemente “spalle”, non tanto su cui piangere, ma quasi a cui poter chieder conto di un esistere, di non essere proiezioni o addirittura” questi fantasmi “inghiottiti dalla vertigine del mutamento antropologico irreversibile. Proprio per questo, se le scelte musicali compiacciono la nostra sempre latente nostalgia canaglia, molto coraggiosa è la scelta di tenere su gran parte dei personaggi un registro dialettale di entroterra anconetano per i più filologi, piuttosto stretto e assolutamente identitario. Il racconto – affresco che ne esce è quello di ciò che e stato in mezzo tra la vocazione agricola ancora presente negli aspetti culturali ritualizzati e superstiziosi e la quasi forzata terziarizzazione turistica attuale. Il contrappunto intimista, quasi da Spoon River de noialtri è affidato ad una suadente bonaria voce fuori campo che recita i sublimi versi del grande poeta a km zero, Franco Scataglini quasi come viatico al nostro io narrante errabondo e smarrito tra le presenze e le rimembranze e questa voglia di andare che è poi anche quella di chi guarda e forse non ha abbastanza compiutezza o trasparenza almeno di senso e che viene infatti stigmatizzata da una delle figurine in scena con una potente domanda retorica, che suona: ma dove vuoi andare, a rischiare di star peggio?, che il dialetto rende ruvidamente verdetto liquidatorio e attitudine tranchant. Una voce dicevamo che è commentario, continuità leopardiana perché poi la radice antica è quella, ma anche voce di nonna e di ninne, mentre invece il controcanto in interlocuzione con gli accenti tondelliani on the road dello spettacolo, di cui peraltro non vogliamo troppo spoilerare perché ne costituiscono un nucleo caldo, vulnerabile una rilettura toccante degli stessi, è addirittura affidato ad una improbabile voce di leone ormai più che addomesticato, antropomorfizzato, che non vedremo mai.

Questo lavoro ha saputo crescere nel tempo fino a diventare ben più di una messa alla prova di talenti personali forse sacrificati nel quotidiano organizzativo laboratoriale di prammatica se fai teatro e vuoi sopravvivere, fino a costituire una sua specifica originalità perché non sono tante le donne artiste che scansando il rischio sia di una presunta neutralità di approccio sia di farsi paladine del classico punto di vista femminile, pur partendo da un dato evidentemente biograficamente collocato, arrivano senza presunzioni di sorta ad un universalismo contemporaneo. Universalismo che si sostanzia e non potrebbe essere altrimenti, di frammenti caleidoscopici e moltiplicatori tra individuo, comunità e liquidita.

Come sempre in questi casi di interesse, non resta che fare due chiacchiere con la mattatrice di questa avventura di cui è anche con un pizzico di calcolata incoscienza autoproduttrice.

La prima cosa che mi viene in mente da chiederti è dato che le nostre origini sono comuni, come hai interpretato l’apparente stordimento provinciale? La seconda è anche sulla relazione del dato familiare autobiografico, con i vari personaggi o maschere chiamiamoli così che ti si affollano intorno quasi come nel fenomeno degli uditori di voci.

Allora, io credo che non ci sia poi tanta ingenuità o se vuoi innocenza ormai possibile neppure nelle Marche pure piacevolmente sonnacchiose, perché devi tener presente ciò che è sottinteso a tutto questo lavoro e che non si vede in scena: ovvero la immanenza di mezzi di informazione e comunicazione via via più pervasivi che non hanno più neppure bisogno di propagandare o cercare consenso ma sono semplicemente anche i vettori del possibile sviluppo economico, della sopravvivenza, della relazione. Ecco quello che mi sono sentita di descrivere io, dei posti travolti da cambiamenti che sono mutazioni e mutazioni che mettono in discussione il tempo storico come linearità, in generale mettono in crash tutta la dimensione spazio temporale tutto il qui ed ora. Questi luoghi che non descrivo ma che faccio intuire, di cui cerco di rappresentare un concentrato di sentimenti io credo in realtà siano stati sopraffatti e il senso di spaesamento sia il sentimento prevalente. Posti piccoli, con molte proprietà frammentate abituati a valutarsi, ad annusarsi in un rapporto personale, con persone familisticamente riconoscibili e che fino a un certo punto hanno trasferito lo schema anche nella industrializzazione, ora si trovano dominati da app, algoritmi, decisioni prese altrove, vedono i loro piccoli borghi abitati da persone diverse di cui non sanno valutare la cultura e ognuno inscena un suo personale si salvi chi può. abbiamo fatto in generale un passaggio epocale senza aver avuto il tempo di creare una cultura e dei valori di riferimento. questo ovviamente non è un problema solo della provincia italiana, quella centrale poi, di cui tutto sommato si parla poco, schiacciata tra le grandi narrazioni del nord Italia e quelle del Sud, ma proprio di approccio conoscitivo occidentale. Mi preme anche dirti che io metto in scena personaggi maschili e femminili, che patiscono tutti in qualche modo una decadenza anagrafica, financo cognitiva per motivi vari, ma soprattutto di status e poi mi preme rappresentare l’inceppamento in quell’altra linearità di trasmissione di comportamenti soprattutto maschili legata alla cultura del bar che vedeva intorno al biliardo e al Varnelli tre generazioni autoriproducentisi nei modelli.

Come hai lavorato, su questa complessa partitura, intendo drammaturgicamente, su cosa hai fatto affidamento come elementi portanti?

Intanto sottolineo, che “abbiamo lavorato”, perché la mia è una squadra di professionisti affiatati che ha lavorato molto bene sul sonoro e sulle luci, tanto per cominciare. Ci siamo affidati ad un impianto scenico semplice, ma la svolta è arrivata con la scultura feticcio di Lego, che bene simboleggia il nostro inane sforzo di dare un ordine a ciò che ordinato non è e che è facilmente suscettibile di decadenza…infatti si dice non per caso anche dei comportamenti, quando non sono conformi che sono poco edificanti…. E tra fabbriche che bruciano, cattedrali simbolo, hotel decaduti a impropri alloggiamenti per stranieri in condizioni precarie, di fabbricati ne compaiono diversi infatti, ma probabilmente la più rappresentativa è la dimora dell’anziana paranoica dove sta Baffo, l uomo nero che è sincretico di tutte le forze del male, con gli ori sotto le mattonelle… se noterai non abbiamo particolarmente lavorato su trucco e parrucco per quanto mi riguarda e mi serve solo una pelliccia incongrua per rappresentare la precarietà del lusso. Invece anche con tocchi molto minimal abbiamo lavorato molto sulle posture, sul movimento anche se è sempre come compresso, perché tutto sommato è …falso movimento. In realtà questo grosso lavoro sul corpo, su alcuni piccoli punti coreografati è stato fondamentale per dare una svolta a tutto quanto e di questo devo ringraziare Antonella Boccadamo che mi ha affiancato per un tutoraggio sul corpo che si è rivelato molto efficace e in un certo senso ha precisato lo spettacolo anche a me stessa.

Concludo la mia chiacchierata con Debora Binci, pensando il difficile venga adesso stante il pessimo sistema distributivo italiano, per far sì che il lavoro svolto non si ossifichi senza che l’abbia visto un po’ di gente disposta a rimettersi in contatto con emozioni archetipe.

Ma le modalità di rappresentazione di un presente sempre più ostico alla comprensione sono plurime e ci volgiamo ora ad un lavoro che si preannuncia molto interessante sotto ogni punto di vista e che potrà essere visto venerdì 21 marzo presso il labOratorio s Filippo Neri, ovvero questo Libia, per la compagnia Eros Anteros da Ravenna. Una poliedrica compagine che, reduce da una fortunatissima tournee europea di quel Santa Giovanna dei macelli, un Brecht politico come non mai, ricreato insieme al collettivo di visual e musical dei mitici Laibach di cui a suo tempo vi abbiamo parlato ed in procinto di lanciarsi nella nuova sfida del festival internazionale Polis, offre una particolare lettura dell’opera di grafic journalism omonima, realizzata da Gianluca Costantini e liberamente ispirata ai reportages della nota giornalista Francesca Mannocchi. Si tratta appunto di una produzione Polis, vincitrice del bando di residenze regionali Cura e sostenuto da diversi altri centri teatrali. Ha debuttato nel 2022, ha avuto una lunga pregestazione nell’era Covid e risulta particolarmente centrato in mezzo ad un cartellone di programmazioni di Oratorio che verte su una lettura allargata e culturale dell’atlante mondiale e vede come centrale l’apporto di genere a questa rielaborazione. In causa è una Libia quotidiana e combattente, in questo specifico caso, lontana dalle immagini di rais, faccendieri, sgherri, accordi diplomatici sottobanco e al ribasso e vicina invece all’iconografia di un popolo resistente nonostante tutto. Il tema della Libia dei libici e per i libici viene sviscerato sul palco con una combo di elementi che sono voce, musica, disegni animati, quindi un’opera di creazione veramente originale che si sostanzia delle presenze contemporanee in scena della magnetica Agata Tomsic con l’attore di origine marocchina Younes El Bouzari, coadiuvati dalle esecuzioni dal vivo del maestro Bruno Dorella e delle animazioni video di Majid Bita e Michele Febbraio con il contributo ulteriore della voce di Tewa Hanen Shushan. Ideazione dello spazio scenico è appannaggio di nuovo di Tomsic insieme a Davide Sacco che firma anche la regia. Un ‘opera multidisciplinare che si annuncia politicamente molto incisiva ed esteticamente molto compatta ed intrigante come sempre avviene per le creazioni Eros Anteros. Anche in questo caso chiediamo qualche particolare in più ad Agata Tomsic, attrice drammaturga originale interprete di un meticciato culturale particolarissimo quanto trascurato tra cultura di area tedesca ed est europea.

Ci puoi parlare della costruzione di questo spettacolo che ci appare così sperimentale nel modo di trattare temi di attualità politica cui abitualmente si riservano conferenze e talks?

Diciamo che per noi è un’opera vocale, una partitura. Ti sembrerà strano, visto che il tutto nasce da un fumetto per banalizzare, di cui non abbiamo tentato di superare la bidimensionalità, ma di cui ci siamo sforzati di rendere la profondità anche emotiva che è propria del fare giornalismo inchiesta e reportages insieme da parte dell’ottima Mannocchi nella schiera di donne attiviste dell’informazione in prima fila in tutte le zone di guerra e di conflitto. Quindi per rendere questa coloritura e temperatura siamo partiti non già___0 dalle immagini come potresti pensare, ma dalla relazione testi voci su cui poi abbiamo pian piano inserito tutti gli altri elementi. Che poi in resa finale avranno grande efficacia perché poi il tutto è linearmente rigoroso. Noi stiamo abbastanza statici sul palco e senza costumi veri e propri. Siamo abbigliati di scuro ma alla nostra maniera. Non c’è ricerca di effetti speciali anche perché i contenuti sono forti e sono sintetizzabili nel la nostra rovinosa e mancata decolonizzazione i cui effetti perversi sono sotto gli occhi di tutti.

Venendo ai vostri prossimi progetti, puoi anticiparmi qualcosa?

Beh, dovresti sapere che abbiamo già fatto una pre presentazione pubblica a Ravenna del prossimo Polis, che grazie a provvidenziali bandi che abbiamo vinto di recente, riusciremo a rendere più esteso, intenso e ricco che mai. Il focus sarà la penisola iberica, ma avremo spettacoli giovani rivolti a tutti certo ma in particolare a loro selezionati con il nostro metodo visionario, assembleare comunitario che si potranno vedere in giornate gratuite dedicate all’Almagia. Per quanto mi riguarda, devo essere scaramantica ma sto lavorando molto su voce, suono, musica per mettere in scena una Medea molto particolare, che è anzitutto la Medea di Heiner Mueller, considerato qualche annetto fa il più importante epigono brechtiano, anche i suoi riferimenti filosofici sono ancora più complessi ed oggi piuttosto dimenticato forse in un’ansia performativa persino eccessiva che affligge tanti attori oggi. Costruire e decostruire per poi rifondare e far rivivere un testo nella propria gamma armonica ed espressiva non è una operazione certo semplice, ma soprattutto, non è minimal, non è personalistica, non è ombelicale. Si tratta di trasferire le narrazioni dall’autobiografismo su un piano simbolico più alto e certamente nel mondo delle soggettività frantumate risulta particolarmente compito ingrato. Per me tutto questo pensiero non esclude l’azione che è il cuore del teatro ed è anche il mio miglior modo di esprimere contenuti politici non facilmente usurabili e rimanere ancorati alla propria Storia di civiltà per quanto logorata e controversa essa possa apparire.

Mi congedo da Tomsic, riflettendo ancora sul tema valido anche per questa sua Medea, di produzione vo cercando, per fiondarmi nella Corticella estrema che tanto piace anche agli scrittori di noir bolognesi e vedere quello che ormai non è più uno studio e tuttavia non viene ancora presentato come spettacolo finito vero e proprio, ma come laboratorio spettacolo, da parte della giovanissima Elena Natucci, poliedrica figura di attrice formatrice ballerina, forgiata alla scuola teatrale di Ert, che con Collettivo Amalia e questa compagnia di sodali coetanei la Drama Saoco, ricerca nuove modalità espressive più aderenti ai tempi e soprattutto si getta audacemente nel campo difficile delle nuove criticità sociali. Il lavoro che comunque si dota già di una locandina estremamente accattivante in stile grafico ci introduce in un distopico particolarissimo universo concentrazionario dal titolo Incuba tra ammiccamenti alla classicità e ad un ambito sociosanitario che è quello contemporaneamente delle dipendenze patologiche dai social ma anche dei ritiro sociale che come si sa vanno di pari passo. Ma ci sono stoccate senza sconti anche al mondo degli adulti impacciati e stereotipi nella loro stessa struttura emotiva e relazionale ridicolizzata in più passaggi e certo completamente assenti pur nel loro ossessivo presenzialismo rispetto al mondo affettivo del figlio che non sanno leggere e decifrare.

D’altro canto, il mondo di liade e Lemno e Noele, tali sono le strampalate nomenclature con assonanza classica e riferimenti alle vicende tragiche di Filottete è anche abitato da altre presenze personaggio come l’algoritmo, TitkTtok, l’ossessione della diretta, che fa il paio nell’esibizionismo esasperato con il rifiuto del contatto fisico. Ci sono misteriosi parassiti di cui sbarazzarsi, c’è una totale inconsapevolezza della propria e sessualità che viene evidentemente confusa con la queerness e la fluidità. Tanto da imparare e da capire per il mondo adulto. Si sente che la drammaturgia è costruita su partiture che vengono da una sorta di sottocultura digitale che snobisticamente ci rifiutiamo di riconoscere. Ma che incuba eccome ed inocula in maniera virale… il fatto che il covid abbia accelerato il tempo dell’avvento delle piattaforme e ci abbia abituati a reclusioni ed emergenze scelte e subite, traspare molto chiaramente dal tutto. La regia è festosamente collettiva, il lavoro nasce in forma assembleare, i due protagonisti ora adulti, ora giovanissimi sono bravissimi e si producono in accattivanti performances di ballo, in qualche scena osé e divertentissima. Ci sta che l’infernale meccanismo preveda un tilt ad un certo punto che coinvolge la presenza incarnata di Lu ma anche l’app Luexa, sorta di interruttore di una contemporanea versione della lampada di Aladino. Una lampada che non accende desideri in realtà o non è attivata da essi, ma solo da esibizionismi di varia natura. Il finale come può essere a questo punto? Sorpresa: il prolifico ed estroso drammaturgo Alessio Bernardoni ci fa sapere che potrebbe essere una creazione collettiva in forma di gioco da parte dei partecipanti ad un laboratorio degli spettatori successivamente divisi in 5 gruppi quanti sono gli animatori della compagnia Drama Saoco. Ogni gruppo a seconda del tecnico e dell’artista coinvolto della compagnia dovrebbe curare la risoluzione di un aspetto della parte finale del lavoro. Chiaro che l’intento di questa apertura a tutto campo sia quello di rivolgersi principalmente ad un pubblico giovane, magari scolastico. Si ride amaro ma si riflette anche tanto e per la prima volta si vedono i meccanismi del ritiro sociale dall’interno e senza moralismi spiegando benissimo che l’idea di esclusione non appartiene certo a chi si chiude in camera con i suoi device. C’è piuttosto l idea di rifiutare aspetti spiacevoli e conflittuali del reale e creare un proprio ambiente dove invitare almeno sulla carta, solo chi vogliamo noi e ci fa stare bene. Meditate gente, meditate, sul brutto mondo bellicoso e inquinato che stiamo lasciando al futuro e forse ne capiremo un po’ di più, magari non ascoltando gli autorevoli esperti ma vedendo, fruendo partecipando alla cultura autoprodotta dal basso, grande risorsa di sopravvivenza per le nostre periferie.

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