Art city, Arte Fiera, nella polarità o complementarità di visione che questi due termini comportano, si giocano un ruolo strategico di visione culturale, economica e of course di sostenibilità turistica in Bologna.
Bologna, si sa, è dotta per storia che viene da molto lontano, per posizionamento strategico che rischia di essere sia blasone prestigioso e biglietto da visita comunicativo, sia sua condanna epidemiologico-ambientale, nonostante la diligenza storica dei buoni servizi. Forse oggi, tutto ciò che abbiamo anche virtuosamente creato fin qui, ci suona come minimo del tutto imbelle rispetto alle sfide da affrontare.
Sfide materiali, nella versione più brutale possibile della forbice in essere tra Arte e di conseguenza Storia anche pubblica di un luogo e logiche di mercato, sfide di compatibilità, di assecondamento di un genius loci pedagogico e sperimentale insieme.
Mai le complesse dialettiche tra tradizione, trasmissione, innovazione sono state tanto messa alla prova nei nostri territori come oggi e mai se ne vede in filigrana la tensione tanto quanto il caso delle nostre manifestazioni artistiche invernali, ormai consuetudine attesa e consolidata per bolognesi e non.
La ricchezza espressiva che il territorio promuove e produce dovrà essere incanalata in una prospettiva più ampia non solo in termini di espansione geografica, ma anche in quelli di ricadute attese sull’insieme delle comunità che lo costituiscono.
La Bellezza, tanto più immateriale sia, realmente sta diventando una forma di lusso estremo nella sua percezione e ricezione e dobbiamo chiederci se ciò sia conseguenza di approcci seppur diversificati, tuttavia riconducibili ad un asset manageriale alla Cultura. Una attitudine, peraltro storicamente sperimentata da secoli, seppure con connotazioni propagandistico ideologiche e fideiste preminenti e marcate.
Ormai sappiamo quanto grandi eventi multidisciplinari e multimediali, Arte, Moda e architettura confluiscano sempre di più in quella sorta di bacino di esperienze a 360 gradi che sembrano essere la nuova frontiera della mondanità, dell’intrattenimento elegante ed intelligente. E difatti, in primissimo assaggio di un pasto bulimico, ma effettivamente anche democratico, imperniato su ingredienti che alla bellezza artistica comunemente intesa, ancorché originalmente attingono, ce lo offre questa proposta targata Palazzo Pepoli Campogrande. E gli spunti di riflessione sono tutti interessanti, convergendo su una storia bolognese molto antica fatta di rapporti di bilanciamenti e mediazioni strategiche tra poteri.
Nel contempo, infatti, in qualche singolare misura nel caso di questo Campogrande concept, ovvero l’organizzazione di stampo manageriale erede della tradizione del blasone e della incredibile legacy cultural politica della famiglia senatoria Pepoli, sembrano essere le élite almeno in occasione di questa Art city, a mettersi a lavorare per una fruizione se non di massa, sicuramente su larga scala.
Del resto, i materiali stampa che ci vengono presentati esibiscono in incipit una dichiarazione di intenti che ha tutto il sapore di una autentica scommessa: Prendi il meglio che esiste e rendilo migliore. Se non esiste, crealo.
Difatti Campgrande Concept, onde meglio sostanziare questa visione olistica sfidante, riassume in sé per l’occasione non solo gli inputs e le suggestioni di Artefiera, ma anche quelle sacrali ed ecumeniste afferenti all’anno giubilare e quelle inerenti la relazione tra uomo e ambiente invece provenienti da Fondazione Biohabitat, specialista come vedremo, dell’estetica green. Ugualmente rispetto agli spazi e ai luoghi ci si espande alla munifica quadreria di Palazzo Rossi Poggi Marsili, luogo caratterizzato dalle donazioni provenienti dal patrimonio delle tre Asp bolognesi confluite sotto l’egida di ASP Città di Bologna. Qui l’artista ARKEO espone sculture metalliche antropomorfe che, citando letteralmente, sembrano cercare risposta ai grandi interrogativi della vita, mescolandosi alle emblematiche anatomie del Gandolfi.
Tuttavia, poiché il tema di questa Art City sbarazzina e conciliatoria insieme, sono le Porte, poi vedremo bene come e perché, anche in questo palazzo nobiliare di vetusto lignaggio e perfetto adeguamento allo spirito dei tempi, la questione è in qualche modo centrale pur nella complessità delle trame compositive, degli eclettismi e delle locations tra urbane e non, per essere forse, guardando all’indietro, con un occhio invece al futuro, perfettamente nelle more del momento, sospese tra piccolissime esperienze locali, quartieri, municipalità, aree metropolitane, aree dismesse, aree interne, aree green.
Tutto questo contenuto viene all’interno della nobile dimora condensato in diversi passaggi che iniziano con un’opera materica di Franco Tosi a mostrare plasticamente il disgregarsi dell’anima e prosegue poi con la porta del Maestro Luigi Enzo Mattei che ci viene disvelata come sorpresa. Questa non è che una delle cinque porte peraltro realizzate dall’artista in diversi materiali, a cominciare dalla prima in Roma che è stata aperta a sancire l’inizio dell’Anno Santo.
Da questa porta di grande impatto emotivo si prosegue nella sala degli specchi con la Crocifissione di Lorenzo Puglisi. In un impianto pur complessivamente meditativo e sacrale, tuttavia, i riferimenti culturali e iconografici non vogliono essere puramente occidentali e lo sta a dimostrare la rilettura in chiave di opulenza dorata e orientalista che fa l’artista iraniano Dayan Nazari della spiritualità.
Per meglio condividere i tesori conservati negli scrigni della Quadreria, la tecnologia della Realtà aumentata, in questa sorta di Wunderkammer, si farà amica del bello e del vero per mostrarli come tangibili alla fruizione massiva, mentre un sistema di casse acustiche delle più avanzate, renderà l’accompagnamento musicale appositamente composto da una associazione di giovani musicisti votati al classico contemporaneo, una esperienza totalizzante e davvero irripetibile. La molto decantata attitudine green e sostenibile, curiosamente e forse emblematicamente rimane l’aspetto meno condiviso di questa sorta di vertigine neoumanista, perché il Welcome art party, dedicato alla realtà dell’arte botanica che a Palazzo, si mostra in quanto allestimento ready made in loco, si svolge solo su inviti e poco fuori Bologna presso l’incantata situazione della 02 Farm. Anche qui realtà aumentata, biodiversità, opere pensate per la location rivisitazioni di grandi maestri del passato si fondono alla ricerca evidentemente di un’armonia perduta.
Del resto, non vi fu accordo a suo tempo con il Comune di Bologna, per questa realtà privata, di impiantare, è il caso di dirlo, questa sorta di giardino rinascimentale meraviglioso nell’habitat cittadino.
Mentre appunto si aprono le danze di una kermesse che in qualche maniera ci spinge verso i fasti di un carnevale che fu, intanto viene presentato in sala Borsa con tutti crismi, ovvero le principali autorità cittadine e i competenti in tema, il nuovo piano per una musicalità cittadina integrata.
Come sappiamo gli ultimi mesi con le controverse vicende legate al Museo alla riapertura di Palazzo Pepoli, Museo di Città, non più sotto l’egida di Genus Bononiae, avevano messo in affanno, questa sezione assai cospicua e importante se consideriamo anche l’insieme dei musei universitari e dei palazzi cittadini, del patrimonio culturale bolognese. Patrimonio che sente il bisogno di diluirsi geograficamente ed innovare le sue sfere contenutistiche, cosi come accade come il Museo di Ustica, o il museo del Patrimonio Industriale, tanto da essere in discussione da mesi l’istituzione di un museo dei Bambini al Pilastro, di un museo della casa popolare in Bolognina e naturalmente del famoso polo della memoria novecentesca che dovrebbe incastonarsi in un’area compresa tra zona stazione e tutta l’area Porto ferroviariamente dismessa, mentre Mambo potrebbe rafforzare la sua vocazione pedagogica, multidisciplinare e di crescita residenziale formativa per giovani artisti, in linea del resto con la vocazione complessiva della città e il successo delle esperienze in tal senso inaugurate in era Covid quando c’era da far di necessità virtù. Il neo assessore alla Cultura Del Pozzo, viene dunque subito messo alla prova di passaggi delicati, stante la perdurante scarsità di risorse economiche, per via di mancati trasferimenti di risorse nella catena centro, regioni, le more alluvionali, un certo disinvestimento sulle politiche culturali e di welfare che sistematicamente il governo di centro destra mette in atto. Nel corso dell’incontro, molto si appaieranno i temi della Salute, del benessere a quelli della espressione artistica, che naturalmente sono un concetto più che condiviso da chi scrive, ma che andrebbe articolato bene perché altrimenti vengono appiattiti altri aspetti del fare culturale che sono anche disvelamento e gestione del conflitto e affinamento delle consapevolezze critiche di tutti. Ma Del Pozzo, queste cose le sa benissimo e non manca mai di citare il conflitto, infatti, nelle sue uscite pubbliche, proponendo intanto un programma su cinque anni, per attuare un vero sistema museale metropolitano in cui il capitale umano sia al centro e si incentivi un investimento su figure curatoriali organizzative e artistiche giovani al fine di essere quindi non solo custodi e valorizzatori di patrimoni, ma creatori di creazione e di civismo culturale. Seguire dunque tutti i passaggi di una lunga filiera con cura e amore, sembra lo spirito da attivare subito. Anche Allegni, neo assessora regionale alla Cultura insiste sui passaggi tra reti e sistemi poi meglio specificati da Eva Degli Innocenti, la dirigente di settore che snocciola diversi punti qualificanti. Come, ad esempio, unire anche in senso amministrativo aree museali diverse, dotarsi della famosa coprogrammazione quinquennale per avere un rilancio dei musei che punti alla trasversalità progettuale e alla prefigurazione di scenari futuri, pur partendo dal passato o dal presente, coinvolgendo soggetti esterni. Dotarsi di un portale unico per art bonus, avere un piano finanziario, rendere centrali le collezioni, fare networking con esperienze estere, al fine di favorire formazione continua e trasformazione digitale, accentuare l’aspetto di engagement con la Salute tramite modelli di social prescribing, accessibilità maggiore per categorie fragili, biglietto unico, progetti pilota, sono queste alcune delle carte messe sul tavolo, che hanno trovato corollario nelle note di approccio comunitario ed emozionale esposte dall’esperto in materia Pierluigi Sacco. Quel che è certo, è che sarà strategico, unire le forze, se si vuole evitare un certo declino dell’offerta e conseguentemente della domanda e anche, a quanto sembra, integrare sempre di più le risorse e gli interessi privati in questa famosa sostenibilità. Naturalmente in questo senso la lama è sempre a doppio taglio in un paese che non sa governare la fiscalità in modo equo ed efficace su aree di servizi e che forse potrebbe evitare tante operazioni smaccatamente commerciali.
Proprio per questi motivi sommati, tra ciò che ho visto e ciò che ho ascoltato in prima battuta, mi è parso interessante entrare nel vivo del claim di Art city di quest’anno, che immaginava un fluire, uno sciamare a piedi di appassionati, turisti, curiosi e operatori, dal distretto fieristico verso la città, magari dalla Mascarella per tuffarsi nei mille openings ed eventi e performances da nomadismo itinerante senza posa, che verteva sulle porte della Città. In realtà come abbiamo poi constatato questa miriade puntiforme di accadimenti in diversa scala di formati, che vedeva poi il suo clou, nel weekend 6-8 febbraio, in cui anche il più remoto oratorio si accendeva di situazioni sorprendenti o si poteva fare come personalmente ho scelto, di recarsi negli studi e dimore di alcuni tra i più significativi artisti di calibro internazionale based in Bologna, ne cito solo tre, Vitone, Favelli, Nanni, è stata funestata da freddo e cattivo tempo in quantità industriali, rovinando un po’ la festa specialmente nella mitica Art white night e concentrando il solito annuale record di visitatori da fuori, appunto al Quartiere fieristico. Di ciò che ancora resta, considero imperdibili la mostra Fuori Luogo degli artisti irregolari nel quadriportico ex Roncati, la divertentissima, ben allestita e molto accuratamente impostata esposizione sulle nostre recenti avanguardie al Mambo, con la chicca dello spazio Morbid dedicato alla grande Valeria Magli, spazio che invita a fare una combo con la mostra Malagola di Ravenna, temo conclusa quando leggerete queste note ed infine la personale di Carol Rama a Villa Delle Rose, una delle grandissime italiane spesso da noi sottovalutate come Pane, Accardi, Fioroni. Tra gli spazi privati, molto difficile dare indicazioni, ma certamente Opificio ciclope in Mascarella, gli spazi di Fiu, in realtà molto pubblici per mandato, dedicati alla rilettura del paesaggio e della città, in Petroni e poi con le installazioni acquatiche temporanee in Montagnola e naturalmente la galleria Squadro, che non delude mai per atmosfera, qualità del pubblico e buone vibrazioni. Su Squadro tocca aprire un inciso e tornarci sopra perché in aprile ricorrono i trenta anni dall’apertura e credo vadano celebrati a dovere, perché ritengo sia grazie alla presenza di questo autentico opificio artigiano che è una stamperia e una factory insieme che si siano poi agglutinate altre realtà intorno a rendere interessante la via Nazario Sauro. Time line è la godibile antologica di grandi formati dell’artista Danijel Zezelj, multiforme ingegno e spero troviate modo di intercettarla. Molto bella, ma purtroppo già chiusa quando presumibilmente leggerete, questa collettiva bolognese di artisti molto pop e paradossali, le Nutelle mistiche, ospitata negli spazi al Pratello 90 di Teatri di Vita, ma del resto non si può specie di questi tempi di mobilità complicata, essere ubiqui tra arte e performatività in tutti i quadranti della città.
Tornando a noi, al tema “cornice “delle porte, di cui poi ho scoperto che nonostante tutto ne sapevo pochissimo, pur storicamente avendo talvolta sfiorato il topos nella ricerca in relazione specialmente al discorso abbattimento della cinta muraria della nostra citta, ho deciso che avrei fatto il tour completo e in modalità visita guidata assieme a Lorenzo Balbi, direttore del polo appunto contemporaneo, a Eva Degli Innocenti, già citata dirigente, e ad alcuni sponsors di Art City più altri colleghi di penna. E credo proprio di aver fatto la cosa giusta, apprezzando tra le scarpinate nel freddo pungente e il sali e scendi dal pullman, anche questa scelta tematica. Identitaria. Mi sono resa conto di quanto le porte siano una realtà tangibile; eppure, così astratta nella nostra quotidianità di autoctoni o quasi, che non riesce ad alzare lo sguardo o a deviare il passo dal già___0 noto. Art City, ci spiega Balbi, si estende su due settimane proprio per lasciare il tempo e lo spazio anche interiore di fare questo percorso a piedi o in bicicletta. Un percorso di approccio e prospettiva che realmente cambia il nostro sguardo urbano e ci fa riflettere sulle aggregazioni e disgregazioni dei tempi e delle comunità.
La cosa strabiliante è stata scoprire come ogni porta abbia in fondo una storia a se stante pur intendendo con queste che vediamo, la terza cinta muraria della città completata nella seconda meta del 1300, ma si comincio in realtà nell’anno mille a costruirne. Molte di queste porte sono autentici ventri di balena, non solo percorribili, ma dotati di stanze, piani scale, abitate a lungo da associazioni, ora magari disabitate, o in via di trasformazione, attraversate come tutte dalle tensioni dell’accavallarsi delle epoche, sedi di comandi fascisti eppoi partigiani, per esempio ma non solo. Si discute persino sul numero originario: dodici o tredici’ si sa persino che le superstiti che sono in realtà 10, sono comunque legate ad alcuni segni zodiacali. Gli artisti coinvolti in questa operazione sono peraltro undici. In realtà il giro da me percorso, non coincide con quello ideale che si propone da porta Mascarella, ma, partendo al Mambo, abbiamo subito incontrato la prima installazione che in realtà avrebbe dovuto essere a Porta Maggiore, ma essendo un grande gonfiabile sospeso in pvc di colore rosso ad opera del maestro Zucchelli, Intervento ambientale, ci si è dovuti accontentare di installarla nella parte soprastante del portico Don Minzoni, naturalmente patrimonio Unesco, poiché la Soprintendenza ai beni architettonici non ha concesso il nulla osta per la porta in questione. Lorenzo Balbi è un cicerone spiritoso ed entusiasta, del resto è anche curatore insieme a Caterina Molteni, di questo percorso tra storia, memoria e scenario futuribile come si diceva sopra. Difficile dire cosa mi ha convinta di più perché anche qui e soprattutto in questo caso, il concept globale è ciò che conta. Di sicuro su Porta Lame, la porta partigiana per eccellenza, dedicata al segno dei Pesci, di storie a partire da quella del bronzo utilizzato per le note statue celebrative ce ne sono a bizzeffe, ma certamente curioso è apprendere che da anni essa nelle sue viscere, è il caso di dire, ospita una associazione speleologica bolognese che non avrei mai avuta occasione di conoscere e che ha ispirato alla giovane Valentina Furla, cresciuta appunto nelle residenze di Mambo un’opera video dal titolo Aaaaa, che esplora le profondità e la radice ctonia e animale di tutti noi.
Sempre a proposito di presenze femminili significative in questo novero di artisti italiani e stranieri, un posto polemico importante lo occupa l’installazione video e di materiali concettuali e poetici in dedica per un possibile martirologio laico di genere, Gabrielle Goliath, attivista queer piazzata inizialmente a sua insaputa nelle imbiancate e finora di nuovo intonse stanze del cassero di porta Santo Stefano che fu a suo tempo con il casus belli dello sgombero da quegli spazi della realtà appunto arcobaleno del collettivo riconosciuto sotto la sigla Atlantide, il discusso e discutibile pretesto per una clamorosa uscita di scena politica dell’allora assessore alla Cultura Ronchi. Una di quelle ferite della recente storia civica bolognese almeno dal 77 in poi, mai veramente ricucite e neppure rimosse, come del resto quella legata all’ex mercato in Fioravanti, pronte ad affiorare come punte di iceberg nei momenti di maggiore complessità per la città. E cosi anche in questo frangente, puntuali sono arrivate le rimostranze da una serie di collettivi dalle identità di genere forse fluide ma dalle idee chiarissime che non ci stanno a stare marginalizzate, specialmente dopo che anche i collettivi transfemministi sono stati scacciati più volte dagli spazi vivaistici in zona Certosa nonostante l’acquisita solidarietà degli abitanti circostanti e dopo questa candidatura Nobel conferita all’attivista Porpora Marcasciano che suona come blasone da un lato per la città, ma d’altro canto rimarca molte contraddizioni in essere. I collettivi succitati hanno riscosso la pronta solidarietà dell’artista sudafricana, ora edotta sugli antecedenti, ma si rinnovano molti interrogativi sulla funzione e fruizione pubblica dell’arte e sull’utilizzo di questi spazi. A parte quelle porte che sono ruderi, o sorta di bandierine segnaposto o antiche vestigia, quale sarebbe l’utilizzo delle porte abitabili? Quali problemi di sicurezza o messa a norma possono celare? Proprio per questo il progetto di Art City diviene molto interessante e sarebbe auspicabile che sul destino delle Porte si aprisse un dibattito cittadino e un percorso pubblico partecipato nei quartieri.
Ritorno dopo tanto tempo per esempio a porta Saragozza che scopro per la sua natura bifronte essere dedicata al mio segno zodiacale e mi ritrovo a visitare sebbene di striscio le stanze che furono la prima sede associativa del Cassero con forte valenza simbolica antifascista ed oggi sono un museo a stampo di culto religioso e mi ritrovo confusa e spiazzata tra il mio sentire di allora e di oggi, certo facilitato dal fatto che oggi il cassero abbia una sua sede importante, ma tutto sommato come cronaca recente insegna non abbastanza valorizzata e protetta dalla sua città. Questo tour mi sta convincendo di quanto le complesse democrazie contemporanee abbiano bisogno di tagliandi a breve scadenza e iniezioni di rivitalizzazione continua. Sulle terrazze del Cassero di Saragozza sta peraltro l’installazione sonora OTTO, realizzata appunto in ottone da Francesco Cavaliere e che deve risultare come giocoso e riattivante congegno agit prop. Sono diverse le sensibilità sonore dentro questo percorso, forse perché l’udito è uno dei sensi che ha una centralità tutta particolare nelle nostre vite. Al suono si ispira, complice la celebrazione marconiana, il lavoro della britannica Susan Philipsz titolato Deep water pulse, collocato tra la porta san Donato e il museo di mineralogia ad essa adiacente. Le onde sonore attraverso l’acqua così simili al battito cardiaco, le ricerche dalla imbarcazione elettra sono al centro di questo rarefatto mix di foto e impulsi sonori che fonde così bene in maniera umanista arte e scienza. Se tutto sommato questo angolo speculativo ci pappare quasi pacificante nella sua visione universalista di raccordo e trasmissione relazionale, la dura realtà conflittuale si esprime con accenti aspri ed esclamativi, nell’iconico ammasso di pietre posizionato nell’incavo di Porta Castiglione titolato significativamente Tremendous gap between you and me ad opera dell’artista curda Fatma Bucack, cumulo da cui si leva a cadenze stabilite la registrazione di un coro elegiaco di voci femminili in modalità litania. Sulla facciata di porta San Felice, la porta legata alla leggenda della secchia rapita e alla realtà dei conflitti e delle invasioni francesi e austriache della città, sventola invece una luttuosa bandiera nera che rimarca: A man was lynched by police yesterday, ad opera di Dread Scott, artista impegnato in una riflessione sul difficile, accidentato, incompiuto processo di decolonizzazione. Ma non tutti ci stanno sulla partita dell’impegno allo stesso modo e lo testimonia già dal titolo Extropic optimism : portal IV, la giocosa installazione del simpaticissimo artista greco, presente sul pullman come del resto quasi tutti gli autori delle altre porte disposti, peraltro, tutti con umiltà e generosità a spiegarsi con garbo, cosa cui non capita spesso nella vita di assistere. Porta Mascarella è così una gioiosa costellazione di simboli pacifisti al neon destinati a fare di sera il loro effetto che customizza in qualche modo l’ingresso artistico in città come si diceva. A S Vitale si ironizza sul tipico city user munito di protesi cellulare, per esempio, ma per chiudere questa carrellata del tutto incompleta e non certo esaustiva sceglierei proprio la porta per noi conclusiva ovvero quella discussa porta Galliera in qualche modo dolente testimone di tanti fatti recenti di spaccio e di sangue, incrocio di vulnerabilità e malaffare, i cui spazi si vorrebbe oggi mettere a bando e che in questo contesto, per chiudere il cerchio di una storia che davvero attraverso la chiave di lettura delle porte si presenta come un gigantesco puzzle ed una cortocircuitazione di memorie materiali e di prese di posizioni politiche, urbanistiche, sociali, ci presenta una sorprendente ellittica ripresa della vicenda Zamboni.
Zamboni, un nome che sa sempre di ribellione giovanile a Bologna, se pensiamo a Zamboni e DeRolandis i due studenti filonapoleonici rinchiusi nel Torrone e poi impiccati, ma che trova nell’oscurissima ambigua storia dell’adolescente Anteo Zamboni, passato per attentatore del duce e linciato dalla folla seduta stante, una parabola assai amara e sempre attualissima passando per la rosa bianca, Anna Franck, fino a Lorusso, Giuliani and many more sulla fragilità della gioventù e l’odio sopraffattorio e manipolatorio che sa sempre suscitare in ogni epoca e contesto. così l’artista Andrea Romano crea con schizzi, disegni, acquerelli, incisioni, tutto un immaginario mondo interiore dedicato al giovane martire, ispirandosi ai suoi autentici quaderni di appunti e disegni. Un ragazzo certo sfortunato Anteo, che oggi chiameremmo forse neurodivergente, vittima prima delle manipolazioni di una famiglia tanto radicale e fuori dagli schemi quanto purtroppo disfunzionale eppoi della cieca violenza squadrista aizzata da discusso e ambiguo podestà della città. Romano mi racconta che ha voluto conoscere Brunella Dalla Casa la storica che ha il merito di aver dedicato tanta energia e tempo allo studio di un capitolo che non si vuole affrontare quasi mai ovvero quello della Bologna non già luminosa e resistente ma fascista da una postura certo orientata altrimenti. Io posso solo dire che Della Casa mi racconto a suo tempo di avere la consuetudine di lasciare una rosa ogni due novembre sulla negletta tomba di Anteo Zamboni, che non si saprà forse mai veramente se effettivamente alzo di suo pugno e volontà la pistola che feri superficialmente Mussolini. Mi piace concludere così con l’abbraccio tra pratica artistica e duro lavoro storico questo mio parziale resoconto invitandovi a recuperare tutto ciò che rimarrà ancora un po’ in giro a scaldarci i cuori di questa edizione di Art city.