Rischi e sicurezza nel comparto sanità

di Maurizio Mazzetti /
26 Gennaio 2025 /

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La sicurezza sul lavoro assume aspetti peculiari nella sanità, per una molteplicità di elementi: numerosità (ed eterogeneità professionale) di addetti e addette, tendenziale capillarità della distribuzione territoriale, intensità di determinati rischi e varietà degli stessi (quello onnipresente biologico, in particolare), presenza dell’utenza e su necessaria collaborazione di quest’ultima nel servizio, fragilità dell’utenza stessa,  livello di prestazione richiesto a chi vi opera (emergenze/urgenze, lavoro a turni, servizi da assicurare comunque anche nelle peggiori situazioni, vedasi il COVID), alto coinvolgimento emotivo con conseguente rischio di burn out (definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità stato di stress cronico lavoro-correlato caratterizzato dalla sensazione di completo esaurimento delle proprie energie fisiche e mentali) e infine, le pressioni esterne, con minacce, violenze, molestie da parte dell’utenza, o all’inverso le cause di risarcimento per cure asseritamente inadeguate. La salute in Italia resta un diritto costituzionalmente protetto per tutti, almeno a parole; ma non si è lontani dal vero nel dire che l’ultradecennale sottofinanziamento del SSN  nonché la carenza di organici (frutto anche degli sciagurati numeri chiusi introdotti nell’Università italiana agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso) fa gravare questo diritto unicamente sulle spalle degli operatori. Quindi orari lunghi, carichi di lavoro sempre più pesanti per la carenza di organici,  pause e ferie insufficienti,  chiusura di strutture con tutti i disagi che ciò comporta anche per gli operatori; e nonostante il loro impegno, livelli di assistenza sempre più problematici, e sempre peggior percezione e mancato riconoscimento del ruolo da parte dell’utenza. Tutti queste situazioni, riconducibili ai cosiddetti rischi psicosociali, non sono magari direttamente causa di infortuni e malattie professionali, ma certo provocano un crescente e generalizzato stress lavoro correlato, fino alle vere e proprie sindromi post traumatiche da stress e al già citato burn out. E sorprende che i dati disponibili (cfr. più avanti) non facciano menzione di questi elementi …. in realtà, la situazione della sanità mostra plasticamente la differenza tra una sicurezza sul lavoro diciamo così “difensiva” o hard = obiettivo è evitare infortuni e malattie professionali, e il benessere lavorativo, che al di là degli aspetti psicologici ed esistenziali ha poi anch’esso ricadute negative in termini di danni fisici e psichici sugli operatori, ed indirettamente sul servizio (maggiori costi, prestazioni peggiori) e sull’utenza.

Conseguenza niente affatto casuale della situazione testé descritta, le sempre più frequenti aggressioni a personale sanitario,  frutto della logica di gestione del sistema stesso, in cui al centro stanno bilanci e protocolli e non chi è malato o potrebbe diventarlo. Logica tutta sbilanciata sull’efficienza più che su efficacia ed appropriatezza,  per utenti e lavoratori, ma che di fatto sembra accettare violenze e molestie come biblica calamità. O meglio con i soliti strumenti normativi, quasi che si potessero fare cose con parole anche solenni: Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro n.190 sull’eliminazione della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro”, adottata a Ginevra il 21 giugno 2019 e recepita in Italia con la Legge 15 gennaio 2021, n. 4,oppure   legge 14 agosto 2020, n. 113, “Disposizioni in materia di sicurezza per gli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle loro funzioni (e – potevamo esimerci? – udite udite, con l’immancabile Osservatorio, di cui riportiamo la magniloquente sigla ONSEPS)

Ciò premesso, uno sguardo ai dati INAIL, come da recente suo studio (Dati INAIL gennaio 2025, https://www.inail.it/portale/it/inail-comunica/news/notizia.2025.01.sicurezza-sul-lavoro-nel-nuovo-numero-di-dati-inail-una-panoramica-sul-mondo-della-sanita.html) per quanto fermo al 2023. Riassumiamolo: nel 2023 i lavoratori (addetti-anno) del settore risultavano 1.760.591, pari a oltre il 9% di tutti quelli dell’Industria e servizi, impiegati in 94.222 aziende, strutture pubbliche o private che siano. Nello stesso anno troviamo oltre 55mila infortuni sul lavoro denunciati, il 12% del totale dell’Industria e servizi; il che già da sé indica un livello di rischio superiore alla media. Ovviamente l’andamento nel quinquennio 2019-2023 è altalenante, a causa dei contagi professionali da Covid-19 nel triennio 2020-2022, con la sovraesposizione del personale sanitario al rischio di contrarre il virus. Nel primo anno della pandemia, infatti, le denunce complessive erano  triplicate, raggiungendo i 167mila casi, (con ben 215 vittime),  per poi dimezzarsi nel 2021. La riacutizzazione del virus ha provocato  un nuovo aumento nel 2022, con oltre 146mila denunce, con successiva “normalizzazione” del 2023, quando i decessi si riducono a 25, dato più basso del quinquennio. Situazione normalizzata, quindi?

Modalità di accadimento e differenze di genere negli infortuni. Come in tutti i settori, gli infortuni avvengono per lo più e in occasione di lavoro;  ma la quota del 21% di quelli occorsi in itinere, nel tragitto di andata e ritorno tra la casa e il luogo di lavoro, supera di tre punti percentuali quella rilevata nel complesso dell’Industria e servizi. Il che però non può costituire una sorpresa, il lavoro a turni h 24 anche nelle giornate festive rende disagevole, o del tutto impossibile, l’uso del mezzi pubblici; e sarebbe interessante un approfondimento se tale uso del mezzo privato, anche ove non strettamente necessitato, costituisca un vantaggio od uno svantaggio in termini di durata, comfort, stress, del percorso, specialmente al rientro da turni lunghi, faticosi, magari notturni o prolungati ben oltre l’orario normale, come può accadere nelle urgenze.

A contraddistinguere sanità e assistenza sociale è anche l’elevata percentuale di infortuni alle donne,  mediamente a tre quarti di tutte le denunce. Ma ciò è coerente con i dati occupazionali, che vedono in ambito sanitario una presenza importante di lavoratrici, sottoposte però, tendenzialmente almeno e con la parziale eccezione di cui si dirà, a differenza di quel che accade ad esempio nell’industria, al medesimo rischio dei colleghi maschi. Colpisce  il dato su chi è nato all’estero, pari al 15% degli infortuni:  rumene/i (1.465 denunce nel 2023), peruviane/i (1.060), albanesi (549) e marocchine/i (441); il che conferma come il lavora nella sanità ed assistenza stia diventando sempre meno appetibile per chi è cittadino italiano. Peraltro, lo studio INAIL non commenta e neppure incrocia questi dati con le mansioni svolte; e sarei pronto a scommettere che emergerebbe come  siano quelle più basse e meno qualificate.

 Le professioni a più diretto contatto con l’utenza sono, ovviamente,  le più esposte: tre incidenti su dieci interessano infermieri e ostetriche, uno su quattro professionisti qualificati nei servizi sanitari e sociali come operatori sociosanitari, assistenti alla poltrona e puericultrici, seguiti a distanza da addetti all’assistenza personale, ausiliari, personale addetto alla riabilitazione e autisti, compresi i conduttori di ambulanza. Il 48,3% degli infortunati ha più di 49 anni; ma ancora una volta il dato è coerente con una età media crescente di tutto il personale addetto, età media che in particolare per i medici come è noto  potrà mettere a rischio, tra qualche anno, la tenuta dell’intera sistema.  La fascia 50-64 anni è la più colpita anche in termini di decessi, con quattro su cinque di quelli avvenuti nel 2023. Prendendo in considerazione i casi definiti positivi in occasione di lavoro emerge che le parti del corpo più colpite sono la mano e la colonna vertebrale, entrambe con poco più del 15% dei casi codificati, seguite da ginocchio e caviglia. Ai primi posti delle diagnosi contusioni, lussazioni, distorsioni e distrazioni, che insieme rappresentano oltre il 70% degli eventi. E’ possibile ricavare da questi dati qualche suggerimento in termini prevenzionali (lo studio tace sul punto)? Si tratta di infortuni che accadono in situazioni di sforzo fisico, sforzo cioè, per la natura dell’attività svolta, legato alla manipolazione e spostamento degli assistiti, con movimenti incongrui e/o non voluti, o malamente eseguiti. Vi contribuiscono certo fatica fisica e mentale (minor attenzione), la minor prestanza fisica legata all’età come abbiamo visto piuttosto elevata, e relativa “usura”; ma verosimilmente anche una insufficiente presenza di sistemi di movimentazione automatizzati: una maggior diffusione di questi certo diminuirebbe quella percentuale del 15% di eventi localizzati al rachide cervicale.

Malattie professionali.  A Nel periodo pandemico 2019 – 2023 le restrizioni alle attività economiche e conseguente minor esposizione ai rischi hanno drasticamente ridotto il fenomeno: ne 2019 3.030 casi nella Sanità e assistenza sociale, nel 2020 2.343 patologie denunciate (meno 23% ), con progressivo aumento negli anni successivi: 3.043 casi nel 2022  e 3.529 casi del 2023, in crescita del 16% rispetto ai 3.043 del 2022. In ottica di genere, la prevalenza delle donne è netta anche per le tecnopatie, con otto denunce su 10 nel 2023 riferite alle lavoratrici, che a livello territoriale raggiungono un picco del 90% nel Nord-Est e un minimo del 67% al Sud; patologie più comuni, peraltro in entrambi i generi, quelle a carico del sistema osteomuscolare e del tessuto connettivo. i

Ma facciamo ora un minimo, doveroso approfondimento su violenze e molestie.  Sanità e assistenza sociale sono i settori più interessati dalle aggressioni sul lavoro, fenomeno talmente marcato da far approvare la citata legge n. 113 del 14 agosto 2020, con annesso già citato Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie – ONSEPS.  Non è luogo questo per un esame di tale intervento legislativo;  peraltro i dati, nella loro se vogliamo brutalità, non depongono certo a favore dell’efficacia di tali interventi, anzi. E vediamoli.

Per lo studio INAIL nel 2023 ci sono stati circa 2.500 infortuni da aggressione, riconosciuti al  30 aprile 2024, con quasi un più 3% rispetto al 2022 (a sua volta in crescita del 15,9% rispetto al 2021), pur restando ancora al di sotto dei 2.875 registrati nel 2019. Tra tutti gli infortuni del 2023, nella Sanità e assistenza sociale quelli per aggressione sono ben uno su 10, il triplo di quanto registrato nell’intera gestione Industria e servizi. Attenzione, qui la differenza di genere sembra giocare un ruolo importante: le donne sono più esposte a questo tipo di rischio, per fattori diciamo fisici, ma molto di più culturali e sociali. Secondo altri dati INAIL elaborati dalla CGIL Piemonte, relativi al triennio 2020 – 2022, e presentati i apposito convegno tenutosi a marzo 2024  https://www.ciip-consulta.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1610:26-3-2024-cgil-il-rischio-aggressione-violenze-e-molestie-per-le-lavoratrici-e-i-lavoratori, i dati sono anche peggiori: “registrati circa 6000 casi (+ 41% rispetto a tutti quelli registrati nello stesso periodo tra i lavoratori dell’Industria e dei servizi”. E nel 2022 i casi di sono stati 2.243” (+ 14% rispetto all’anno precedente, circa il 70% ha riguardato le donne).  Si tratta di “episodi di violenza esercitata da persone esterne all’azienda (reazioni da parte dei pazienti o dei loro familiari)” e “in minor misura, di liti e incomprensioni tra colleghi”.

Il medesimo studio delle CGIL si spinge a disegnare una specie di identikit della persona aggredita: donna “di età compresa tra 51 e 60 anni di nazionalità italiana che vive in Lombardia o Emilia Romagna, lavora come operatrice socio-sanitario o infermiera in struttura ospedaliera o in Rsa, prevalentemente in ambito psichiatrico o dell’emergenza/urgenza, ha subito violenza fisica, colpita con pugni o calci o con afferramento, ha riportato contusioni con assenza per malattia mediamente di 22 giorni e, nella quasi totalità dei casi, menomazioni micropermanenti valutate fino al 5%”.

Un ulteriore identikit dell’aggredito “è quello dell’educatore professionale che opera in strutture diverse come gli istituti scolastici, le comunità socioeducative e le case circondariali, che rappresenta la terza figura maggiormente oggetto di episodi di violenza”.

E, attenzione, i numeri si riferiscono a soli casi riconosciuti/denunciati come infortuni, quindi il fenomeno è sicuramente sottostimato, sia circa gli eventi con minori o nessuna conseguenza, sia circa chi li subisce; ad esempio, medici di base e liberi professionisti non hanno obbligo di assicurazione INAIL e quindi restano fuori dalle statistiche. Non può neppure trascurarsi il fatto che spesso chi è vittima dell’episodio di violenza  soprassiede alla denuncia, e che le molestie che non degenerano in violenze fisiche o verbali sono fenomeno sfuggente ad ogni rilevazione (anche se l’Osservatorio di cui sopra distribuisce apposito questionario)

A questo punto, che fare? E’ evidente che l’aumento di violenze e molestie va di pari passo con il progressivo deperimento del Sistema Sanitario Nazionale, sempre meno capace (sia pure a macchia di leopardo) di rispondere alle esigenze dell’utenza, in particolare di quella che non può permettersi il ricorso ad una sanità privata pagata di tasca propria; e da questo punto di vista la diminuzione della speranza di vita in Italia, che lo studio INAIL citato all’inizio ricorda, è già di per sé eloquente. E’ evidentemente che violenze e minacce nascono da risposte del sistema giudicate inadeguate, prendendo a bersaglio gli incolpevoli ultimi anelli della catena, e in maniera ingiustificata. Sottolineo peraltro che il rapporto INAIL non distingue se le vittime di aggressioni e molestie lavorassero in una struttura pubblica o privata; ma è difficile pensare che accadano in cliniche di lusso o centri di eccellenza in cui l’eccellenza riguarda anche logistica e permanenza, e si paga profumatamente (chi può). A rischio di semplificazione eccessiva, un miglior funzionamento del sistema sanitario in tutte le sue componenti ridurrebbe drasticamente lo stress di chi opera e i rapporti interni e con l’utenza (banalità? Forse, però sono banalità ridurre la burocrazia e i tempi di attesa per l’erogazione delle prestazioni sanitarie, aumentare e rendere più puntuale l’informazione e a incrementare la partecipazione, con l’eliminazione di barriere culturali e linguistiche, assicurare migliori condizioni di lavoro, quantitativamente e qualitativamente, ed un ritrovato prestigio sociale a chi opera nel SSN? Purtroppo, per tutto ciò occorrono risorse e volontà politica, che diciamo latitano, o peggio vanno in direzione opposta. Nell’attesa  e nella speranza, di un cambio di passo, chi abbia tempo e voglia può osservare la Relazione anno 2023  dell’apposito Osservatorio ONSEPS presentata al Parlamento nel marzo 2024, e giudicare la situazione. La relazione – ben 147 pagine – è reperibile al link  https://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_3420_allegato.pdf

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