La necessità di rintracciare una sorta di ordinaria eccezione nello scorrere di esistenze schiacciate in maniera ambivalente dal senso di omologazione, di catastrofe, fallimento e insignificanza è oggi un tema nella cultura, nell’intrattenimento, nella rappresentazione. Trovare uno stato di grazia. Un momento glorioso nelle vite non eroiche o anche decisamente antieroiche tale da essere descritto e raccontato, insieme al recuperare quel felice stato identitario che la comunanza, il riconoscimento reciproco danno sembrano essere intenti autoriali largamente praticati in ambiti espressivi e performativi diversi e sembrano un tratto che unisce i puntini della scena contemporanea spesso con modalità e intenti opposti, ma comunque il desiderio di riscattare in qualche maniera l’umanità e la sua storia da un invincibile senso di assurdità e afasia.
Sono a botta calda queste considerazioni che mi porto dentro dopo aver visto in questo periodo diversi lavori interessanti in contesti tra i più disparati e a ridosso delle premiazioni Ubu, sulle quali bisognerebbe scrivere a parte.
Si comincia con l’ultima fatica di collettivo Sotterraneo da Firenze e dunque si comincia con una delle eccellenze della scena contemporanea, stupendoci tutto sommato che questo ensemble di scrittori e talenti della e per la messa in scena, ovvero Daniele Villa, Claudio Cirri, Sara Bonaventura, sia già tra noi da una ventina d’anni tale è la freschezza ogni volta e la cogenza ai tempi presenti della rappresentazione che propongono, pur in una riconoscibilità di cifra e di stile che sempre distingue chi sappia creare un equilibrio tra urgenza dei temi, linguaggio opportuno per trattarli e aderenza alla propria autentica vena creativa.
Ci stiamo comunque riferendo in questo caso a “Il fuoco era la cura”, mai titolo fu più icastico di questo, spettacolo liberamente ispirato all’arcifamoso romanzo scifi Fahrenheit 451 a firma Bradbury, datato 1953 e poi trasposto nel 1966 in una fortunata edizione cinematografica per la regia di Francois Truffaut.
I gradi di temperatura cui allude il titolo del romanzo peraltro concepito inizialmente come racconto all’interno di una raccolta di racconti sarebbero quelli indicativi per la combustione della carta, sebbene ci siano in corso discussioni da sempre sui vari gradienti e forme di misurazione del calore necessario a tal fine a seconda della tipologia di carta.
La storia più o meno è nota. In un mondo non tanto diverso e distante da qui, anzi forse nel nostro apparentemente confortevole oggi, ma certo sconfortante al tempo stesso specialmente nelle sue proiezioni sul futuro, possedere libri è diventato un reato che costa caro e il corpo dei pompieri non assolve più prevalentemente la funzione di spegnere incendi tramite idranti, bensì quella di appiccare le fiamme a cataste di libri in qualche modo snidati attraverso delazioni, sentito dire e indagini di dubbia natura e correttezza o tramite manipolazioni e pressioni psicologiche dirette o indotte da una cultura televisiva di intrattenimento, quella dei clowns bianchi attraverso cui passano contenuti subliminali di conformismo e serena accettazione dello status quo. All’inizio del racconto ci stanno dentro due dei protagonisti della storia, ovvero Montag, il vigile del fuoco tipo e sua moglie, poi le cose prendono una piega ben diversa, a causa di una sorta di ribaltamento paradossale di valori che investe nelle modalità casuali e clandestine tipiche di questo tipo di narrazioni, l universo programmatico degli addetti all’eliminazione della cultura libraria, e che lascia trasparire ai limiti di un olocausto finale, una possibile ancora di salvezza rappresentata da una popolazione marginale autoesclusa e boschiva che ha scelto di farsi comunità nella missione simile a quella degli amanuensi medievali di preservazione di contenuti mandando a memoria un volume per ciascuno. La storia sembra lineare e dimostrativa, tanto si pone come paradigmatica e paradossale, sottintendendo un bene che sappiamo benissimo da che parte sia, ovvero quello della scrittura, della lettura e della trasmissione del sapere, ma a ben vedere molteplici sono le pieghe di un racconto, che certo risente dell’epoca maccartista in cui fu concepito e della latente minaccia nucleare in capo alla politica dei blocchi. In realtà, con una messinscena piena, pur nel sostanziale vuoto scenografico, veloce quasi da risultare convulsa un manipolo di cinque bravissimi attori che sanno padroneggiare bene tecniche di movimento quasi coreografiche, sono li a dimostrarci plasticamente tutta l’ambiguità e la contraddittorietà di cui la nostra cultura Wikipedia è oggi inesorabilmente intrisa. A cominciare dal fuoco stesso, elemento sacro e simbolico di per se di cui viene messa in dubbio l’attribuzione catartica. Il teatro stesso di ricerca viene minato nella sua caratterizzazione vocazionale quando i nostri personaggi, meglio sarebbe considerarli quasi reagenti chimici di un esperimento, con verve fregoliana, abbandonano metaforicamente la tuta ignifuga per sedersi in un salotto da talk show, contrappunto all’azione stessa che viene peraltro contemporaneamente anche raccontata mentre si svolge quasi in un controcanto da tragedia. Qui, in un depressivo duemilacinquantaqualcosa, ormai molto vicino a noi spettatori essi vengono interrogati sulla loro biografia di teatranti ormai conclusa perché senza alcun bisogno di incendi ai teatri, essi sono andati via via chiudendo per mancanza di materia prima ovvero spettatori ed un destino da entertainers, lo stesso ruolo che nell’opera in corso di rappresentazione viene tollerato come forma di spettacolo – psicotropo per le masse, è il massimo cui essi possono aspirare. Già da questo impianto narrativo ed esemplificativo, si comprende come il lavoro messo su dai Sotterraneo come spesso accade, sia una diabolica implacabile macchina atta tramite stratificazioni di significati a seminari dubbi, porre interrogativi, minare certezze…a “scherzare col fuoco”, in poche parole e a saggiare la tenuta di un pensiero critico, laico, democratico universalista per come abbiamo fin qui creduto di praticarlo noi dalla parte giusta tra molte virgolette, della Storia. Tutto lo scibile umano, in una sorta di vertigine distopicamente divertente sta apparecchiato per noi fruitori e viene utilizzato dalla compagnia non tanto come la classica tavolozza da cui attingere coloriture ma piuttosto come un agone sportivo in cui scorrazzare tra epoche diverse, fatti, accadimenti ere intere addirittura. La Storia e la sua ambigua valenza ammaestratrice, ma anche di ricorrenza attraverso una dialettica spietata tra progresso e regressione, come sempre si pone al centro della poetica del gruppo fiorentino. Abbiamo rivolto giusto un paio di domande a Daniele Villa, presissimo data l’intensa attività del gruppo in questo periodo.
Quando ha debuttato lo spettacolo e quali riscontri ha avuto fin qui? A Bologna direi che le reazioni sono state …estremamente calorose e positive e vien da chiedersi quale presa può avere questa storia oggi che i concetti di scrittura e lettura si sono molto modificati e in cui forse pochi giovani conoscono sia il romanzo che il film che Truffaut ne ricavo nel 66.
Lo spettacolo ha debuttato ad aprile scorso al Fabbricone e da allora stiamo facendo tantissime date in Italia e all’estero e ci sta dando molte soddisfazioni. Ci è capitato il confronto con i giovanissimi e sono quelli che si pongono più domande e più interrogazioni profonde, a partire da alcune affermazioni che si fanno nel corso dello spettacolo come essere tutti uguali è buono e capisci la sottile linea semantica su cui tutto il lavoro poggia. Ogni cosa può mutarsi nel suo contrario ed avere valenze e risultanze molto diverse nei contesti. Questa consapevolezza è faticosa e può generare angoscia … più che il discorso libro in sé, che oggi alla soglia di una implosione ambientale, anche produrre carta può essere un lusso pernicioso, il tema è quello del sapere e della sua trasmissibilità in un mondo in cui la velocità sembra accavallare tumultuosamente le generazioni prima che abbiano avuto il tempo materiale di dire la loro. e inoltre, questa dolorosa consapevolezza di finitezza e fallacia, che nel romanzo la moglie di Montag evita fino allo stordimento e all’annientamento sarà utile a qualcosa se la Storia somiglia ad una sorta di coazione a ripetere errori?
Lo spettacolo è apparentemente suddiviso, o meglio dovremmo dire, è contrappuntato da capitoli che interpretano l’evoluzione umana secondo i cicli del fuoco. Del fuoco si dice spesso che sia palingenetico così come in fondo trasversalmente da più parti per opposti motivi, le catastrofi belliche vengono considerate se non proprio tali sia in senso affaristico economico che ricostitutivo morale, quantomeno inevitabili e in fondo necessarie per rifondare uno status quo decentemente stabile fino alla prossima crisi. La storia che voi raccontate, o meglio che Bradbury propone non solo enfatizza la caratteristica distruttiva del Fuoco, ma di più, a mio avviso lo rende elemento osceno addirittura quando i vigili di solito addetti a domarlo viceversa lo appiccano, con una furia che alla fine travolge non solo i libri oggetto di vandalizzazione ma le abitazioni e le persone e naturalmente una guerra totale si profila all’orizzonte. A questo proposito devo dire che sono rimasta anche colpita dalla vostra capacità di creare momenti splatter di autentica insopportabile tensione…tutto questo come si conviene senza nulla mostrare o ricorrere a immagini, cosa che poteva essere gioco facile in questo caso.
Hai colto diversi aspetti di quanto ci interessava convogliare: a noi non interessava buttare il bambino con l’acqua sporca perché le simbologie purificatorie, ma soprattutto legate alla possibilità di vita stessa del Fuoco sono tante e fanno parte del nostro bagaglio antropologico. Il Fuoco è elemento latente in natura e nel momento in cui l’uomo se ne è impossessato ed è diventato per dirla alla Benjamin, altro nostro grande riferimento, tecnicamente riproducibile, permette le migliori o le più disastrose condizioni. Non siamo tra quelli che considerano pur di voler azzerare e ricominciare daccapo in miglior modo la violenza e la distruzione opportune, anche perché oggi si rischiano reazioni a catena impensabili su una scala veramente globale più che mondiale e ciò significa una possibilità molto concreta di noi in estinzione come specie. A inizio spettacolo citiamo infatti i dinosauri inghiottiti da una palla di fuoco per esemplificare il concetto. Semplicemente si fa per dire, dobbiamo tenere in conto che anche il cupio dissolvi fa parte della natura umana. ci sono momenti di autentica crudeltà nello spettacolo e se arrivano è perché riusciamo a dimostrare che la parola evocatrice, checche se ne dica, la parola della narrazione condivisa, nonché il corpo sulla scena contano ancora qualcosa eccome se contano e possono essere vettori di contenuti, di emozioni, di sentimenti, ma anche di valutazioni critiche. Da lì si vede il nostro orientamento. Noi oggi temiamo molto una macchina di consenso che è costruita davvero sulla omologazione all’ignoranza, nel senso proprio di non voler sapere e di preferire alla ricerca delle spiegazioni, una costante banalizzazione degli effetti prodotti da cause apparentemente insondabili. Naturalmente tutto questo ragionamento ci porta lontano perché potremmo anche chiederci perché gli uomini di cultura non riescono a opporsi efficacemente alle derive autoritarie, specie se camuffate da regno delle possibilità e della felicità a buon mercato. Infatti, noi non mitizziamo mai, la cultura alta e questo lo facciamo da sempre mescolando alto e basso, filosofia e sottoculture pop, ricorrendo ai nostri numi tutelari che sono autori che amiamo in modo particolare e vogliamo sempre con noi. Sappiamo anche che come si diceva oggi i supporti su cui leggere e scrivere sono tantissimi, ma loggetto libro esattamente come il fuoco ha un potere feticistico, evocativo, simbolico altissimo : non attribuiamo ai pur utili device tecnologici i quarti di nobiltà che attribuiamo al libro e inoltre credo sia vero che il tipo di lettura su supporto cartaceo fornisca un apporto immaginativo qualitativamente diverso dalla lettura a video.
Infine: ci sono anche molti quadri, scene dello spettacolo introdotti da canzoni… canzoni rock e pop meravigliose e ben incastonate nella memoria culturale dei decenni più recenti del secolo breve e mi hanno fatto pensare anche a quanto di tecniche brechtiane ci sia nel vostro lavoro.
Certamente nel nostro impietoso scandaglio sul secolo breve Brecht rappresenta appunto uno dei maestri ed una ispirazione per parlare di realtà senza fare verismo, quindi utilizziamo diversi stilemi suoi ma non necessariamente con le stesse funzioni e gli stessi risultati suoi…prendiamo le canzoni. In questo caso a noi non fungono ne da colonna sonora, o tappeto emotivo di fondo, però neppure da fattore di distacco tra concetti. Se ci fai caso sono scelte molto accuratamente anche rispetto ai testi per creare viceversa l’adesione emozionale ad una sorta di inconscio collettivo che accompagna le tematiche attraversate dal lavoro. Oggi il tema è proprio quello del distacco emotivo dalla realtà, delle passioni tristi e della dissociazione tra cause ed effetti che tutti subiamo; quindi, l’aspetto musicale è per noi molto importante perché non sappiamo se il rock ci ha salvato la vita, ma comunque è un dato di fatto molto forte e più di un brandello di zeitgeist si trova nei testi delle canzoni così come a suo tempo furono importanti i librettisti d’opera per trasmettere visioni del mondo.
Proseguiamo il nostro viaggio con un altro artista che di fuoco e di sacralità teatrale se ne intende, quale Febo Del Zozzo, di compagnia Laminarie, del quale prima di Natale si sono visti due episodi di studio da 25 minuti ciascuno, che forse diventeranno tre, ma che comunque non sappiamo ancora con quali rimaneggiamenti, contribuiranno a costituire uno spettacolo compiuto in debutto previsto per la primavera. Si tratta, nonostante il gelo siberiano sottinteso alla vicenda intricata ed emblematica anch’essa pregna di tanto zeitgeist novecentesco,, dello scrittore russo, ma anche sovietico, bisogna dirlo, Varlam Shalamov, da cui Il nostro prometeico Febo trae ispirazione, di un lavoro incandescente di e sulla ordinaria eccezione dell’essere umano resiliente alla costrizione e che pur deprivato vuoi per ragioni di contesto vuoi per patologia cognitiva delle sue migliori capacita espressive, tuttavia titanicamente non rinuncia a quello che potremmo definire il suo canto libero. Letteralmente e metaforicamente il lavoro di Febo, coadiuvato nella stesura drammaturgica dalla cura di Bruna Gambarelli, tocca molte corde, ormai leitmotiv del nostro artista come materiale di scena e altamente simbolico dei lacci, lacciuoli e limiti della nostra condizione umana troppo umana. Suoni e rumori sono partitura di spettacolo, ma è il silenzio un tema dominante, un silenzio come ratio estrema di repressione politica, come scelta inconsapevole di escape da una realtà opprimente, come afasia beckettiana dopo gli orrori dell’olocausto e degli internamenti di diverso colore politico …anche qui, un implicito macroscopico interrogarsi sulle funzioni, le potenzialità e l’efficacia della pratica artistica in confronto diretto con la brutalità del mondo. In scena titanicamente del Zozzo costruisce e fa crollare, novello Sansone tutte le pareti perimetranti della baracca detentiva, dell’istituzione psichiatrica che artigianalmente ha preparato, trascina taniche da benzina luminescenti novello trolley da una miniera all’altra, si erge su una perigliosa scala a pioli e in una inquietante semioscurità si getta a capofitto di sotto, mantenendo tensione e pathos costanti. In questo del tutto fedele alla travagliatissima biografia dello scrittore poeta e giornalista russo autore dei celeberrimi racconti della Kolyma, ovvero il gulag staliniano che a più riprese viene internato poi liberato, riabilitato per poi essere reinternato in una vorticosa girandola di apprendistato di tutta una gradualità di lavori dai più umili ai tecnici alle occupazioni intellettuali fino all’estremo tardivo riconoscimento ormai inaccessibile dato l’internamento finale estremo per condizioni di salute psichica e fisica. Doverose sono anche in questo caso un paio di domande al nostro interprete autore.
Hai sempre lavorato a teatro con attitudine performativa e ti sei ispirato moltissimo alle arti figurative, ma in questo caso la tua fonte di ispirazione è uno scrittore sotto molti punti di vista… puoi dirci qualcosa di questa scelta e quale potrebbe esserne l’epilogo?
Cominciamo dalla fine, che è poi pure il principio. La mia idea iniziale era di rappresentare tre biografie di uomini non so neppure se celebri o noti, ma in questo caso, comunque, la dimensione della fama e del talento non sono dirimenti, alle prese con situazioni di costrizione e forte limitazione personale, ovvero rinchiusi ed anche una casa può essere un luogo di esilio. Non so se procederò su questa strada perché in tanti mi hanno rimandato un feedback di compiutezza rispetto a questo lavoro qua… Questo scrittore mi ha sempre affascinato, quasi tutte le sue opere sono state pubblicate prima all’estero che in patria e senza il suo consenso. Nonostante tutto lui era un uomo della sua patria, che voleva un posto in quel mondo e aveva creduto ad una serie di ideali. In più, dal mio punto di vista, dato che lavoro anche sul tema dell’autocostruzione dell’apparato-habitat scenico, e intrigante la attitudine di Shalamov a diventare per forza o adattamento molte professionalità e mestieri diversi che contemplano anche tanta manualità.
Quanto alla parola, vorrei chiarire un aspetto: per me, che vengo dalla scuola della Societas Raffaello Sanzio, non è affatto vero che viene sminuita. Anzi, essa viene scandita ed enfatizzata perché considerata sacralizzata. Il suo è un valore dirompente, in tutto opposto al bla bla quotidiano conformante. Nello spettacolo vengono enunciati appena da me gli estremi biografici eppoi la voce femminile fuori campo racconta l’esperienza della donna che si prese cura di lui negli ultimi tempi quando prima del ricovero finale dovette comunque reimparare tutti i gesti della quotidianità e non era più in grado di leggere e scrivere dopo tutti gli anni di privazioni estreme e di cattività. In generale come compagnia laminarie siamo molto affascinati da tutte le culture e il meticciato dell’est, che noi consideriamo pienamente Europa, meticciato etnico, religioso, che però se viene allegramente presentato come melting pot altrove si può fare e qui nel cuore del continente pare invece rappresentare un ostacolo alla realizzazione di una pienezza unitaria, come se fossimo sempre un po’ sotto tutela e un fuoco incrociato. Abbiamo lavorato molto in Bulgaria e in ex Jugoslavia e conosciamo bene la profondità delle ferite che si sono prodotte.
In qualche modo, i tuoi lavori hanno sempre una qualche dimensione di sfida e di eroismo; eppure, non esiste una esaltazione del personaggio o del protagonismo…
Ma in effetti io intendo parlare alla condizione umana e anche alla mia condizione di uomo di teatro. Come tu giustamente hai osservato io non faccio narrazione, ma mostro plasticamente, offro una raffigurazione, una sorta di esposizione eppoi compio azioni. Io letteralmente visualizzo, rappresento, non commento, non chioso. E facendo così, mi metto sempre in discussione e soprattutto senza operazioni veriste o iperrealiste tento di avvicinarmi all’essenza del nostro esistere.
Mi piace ogni volta fare qualche cosa di esagerato che sia messa a rischio, come vincere la paura del buio e delle vertigini. Non sono in questo diverso da voi che mi guardate agire … mi piace soprattutto stare sul liminare e camminare al confine tra forza, delicatezza, devozione e distruzione perché questo è l’aspetto eroico delle vite di tutti in quanto tali. Siamo a termine, a scadenza e glorioso è già sopravvivere con grazia e coerenza e dignità a tutto questo. La dignità non può togliercela del tutto nessuna forza esterna a noi. Questo può essere vero un po’ per ciascuno di noi a prescindere dal suo status.
Terminano qui per il momento le mie interviste ma non la mia cavalcata prenatalizia attraverso situazioni molto diversificate fra loro. Dopo l’annuncio di una vittoria, o quantomeno di un punto importante a favore con l’approvazione della legge regionale (stiamo parlando di Toscana) sui consorzi produttivi, da parte di Collettivo di fabbrica ex Gkn, continuano le sorprese su tutta la linea da parte loro. Non solo con il lancio di linee di merchandising e abbigliamento sempre più diversificate e accattivanti, non solo con iniziative di grande impatto pensate per il Natale e il Capodanno, non solo con eventi di discussione e diffusione di contenuti a tutto campo, ma con il lancio di vere e proprie linee di intervento culturale. Tornerà alla grandissima il festival primaverile di letteratura working class e sicuramente ne sentiremo delle belle, ma posso dire per quel poco che sono riuscita ad assaggiare venerdì 20 dicembre scorso, promette molto bene anche il festival di teatro operaio, giunto alla sua seconda edizione e in questo caso forse leggermente penalizzato nella attenzione mediatica e del corpus militante da quel filino di ansietà che ha accompagnato giusto la discussione in consiglio regionale toscano relativa alla legge di cui sopra. Chiaramente il festival è stato aperto in prima battuta da quei bolognesi Kepler452 che con un coinvolgente Il Capitale, un libro che non abbiamo ancora letto, hanno contribuito in maniera positiva alla creazione di uno storytelling della lotta che dalla notte forse, dei tempi, passando comunque per le lotte degli statunitensi IWW, è sempre stato costitutivo della lotta stessa.
Ovverosia: vince non solo chi dimostra più resilienza nel tempo, ma anche chi sa costruire un immaginario adeguato alle aspirazioni e ai contenuti più autentici di quelle che non sono più semplici rivendicazioni(si fa per dire), ma lotte introiettate, digerite e fatte proprie da una larga fetta di popolazione solidale.
Questo sembra essere proprio il caso, in quel fatidico venerdì, in cui infatti non riesco ad incontrare il collettivo impegnato in presidio sotto la sede regionale, quando comunque assisto nel teatrino super accogliente della casa del popolo di Firenze Rifredi ad una combo di spettacoli di tutto rispetto. Mi sto riferendo infatti al dialogo teatrale Almeno, tra Francesca Coin sociologa solidale in veste di narratrice sceneggiatrice di una storia di mobbing aziendale che mette in gioco elementi di veteropatriarcato purtroppo sempre attuali e Francesco Alberici, fresco vincitore del premio Ubu per il nuovo testo teatrale italiano, che infatti ne legge un estratto ispirato alle analoghe vicende di mobbing ed esclusione che coinvolgono suo fratello. A seguire un monologo sorprendente per adesione descrittiva ed emotiva ai contesti di quel nord est materialista e povero culturalmente che nutre spesso tragicamente cronaca e immaginari, quale Arbeit di Anna Tringali, per la regia e drammaturgia di Giorgio Sangati, ovvero una cronistoria quasi in tempo reale di una vicenda che viene da lontano di sfruttamento e incidenti sul lavoro. La vita comune, le aspirazioni forse consumiste e sbagliate fuori dalla collettività e dai processi di lotta sono messe sotto una lente attenta e non banale in entrambi i casi e la serata mi lascia con una certa qual soddisfazione, anche perché sono poi buone nuove quelle che vengono dal presidio.
Una remissione dei peccati, nonostante l’afflato spiritualista e cattolico del suo autore, quantomeno in fine di esistenza, una redenzione non avviene viceversa in questo Altri libertini, spaccato e focus in canottiera e mutande, ma non solo, da tre racconti de l celebre libro d’esordio tondelliano, su una provincia pure evoluta ma tuttavia precaria economicamente in maniera sorprendente ( ma come non eravamo nel mondo più progressista possibile?)e soprattutto interiormente… Scorrono intrecciandosi tra loro come un unico racconto un po’ tenuto insieme, un po’ nello stesso tempo condiviso e subito dalla autrice regista Licia Lanera in scena essa stessa a mettere tutta la sua esuberanza e femminilità e meridionalità al servizio di una disfatta programmatica insensata come una corsa a tavoletta a fari spenti nella notte, le vicissitudini di vari soggetti perdenti d’elezione.
Licia Lanera riesce nell’impresa che il folto e affettuoso pubblico di Arena mostra di comprendere perfettamente di non essere né indulgente ne impietosa nei confronti non tanto dei suoi attori e personaggi, quanto dichiaratamente compagni di strada, ma di esercitare verso di essi e dunque anche se stessa, la antica desueta virtù della pietas che è qualcosa di molto diverso dalla comprensione o dall’empatia ma ha molto a che fare con una sorta di rendere onore e riconoscere una identità a chi emarginato, tossico, drop out per scelta addirittura estraneo o avversario nella classicità, sembrerebbe non spettare. Le parole che rotolano nei vari resoconti di vita minuta da una casa all’altra(ma da quando è iniziata questa crisi degli alloggi?), da una strada all’altra, da un bar all’altro, suonano più attuali e taglienti di una ricerca sui determinanti sociali di salute e tracciano una ombra sinistra sull’inizio datato anni 80 del massacro di tutte le più giovani generazioni. Questo disagio, oggi dopo il Covid, nel mezzo di minacce di guerra e di estinzione planetaria, questo oggettivo doversi tirar fuori dei più fragili e imbelli da qualsiasi esigibilità di diritti, evidentemente viene da lontano e bene fa Lanera a sottolinearne tutti gli aspetti materiali ed anche i corollari cultural antropologici più accattivanti come, per esempio, le canzoni di Vasco Rossi e degli Skiantos. Viene anche da questo ventre molle e fecondo di pianura padana laboriosa e benestante una ferita di motivazioni, di ideali, una frattura di prospettive difficili da sanare. Cosicché il microcosmo di alcuni sfigati, suona oggi come un campanello d’allerta già lanciato rispetto ad un mondo complicato in cui si allungano le file nei corridoi dei vari CSM. Spesso il male di vivere ho incontrato, diceva qualcuno, ed è un male collettivo che dobbiamo saper guardare in faccia a testa alta e con dignità, di nuovo e ancora.