Calenzano: ancora appalti (al risparmio?) dietro la strage

di Maurizio Mazzetti /
22 Dicembre 2024 /

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Riassumiamo in primo luogo i fatti quali conosciuti sino ad oggi: lo scorso 09 dicembre si verifica una grande esplosione nello stabilimento ENI di Calenzano, (Firenze). Lo stabilimento  riceve, stocca e fa spedire benzina, gasolio e petrolio (kerosene); la rischiosità è evidente e accresciuta dalle le grandi quantità utilizzate.  I prodotti sono stoccati in serbatoi cilindrici – a tetto fisso o galleggiante – per essere poi inviati alle pensiline di carico; nell’area sono poi presenti tutti gli impianti ausiliari (pompe, cabine elettriche  ecc.).

L’esplosione avviene nell’area di carico delle autobotti, pensiline 5 e 6, con crolli della palazzina adibita a stazione di rifornimento e di parte di quella della direzione, e inquinamento ambientale; muoiono 5 persone (3 dati inizialmente per dispersi vengono ritrovati il giorno successivo sotto le macerie), 3 autotrasportatori e 2 dipendenti di una della ditte incaricate della manutenzione, la SEGREN, allora al lavoro. Ben 26 i feriti, 3 dei quali ustionati gravemente; le vittime  lasciano 5 vedove e 9 orfani.

Lo stabilimento è classificato come a rischio di incidente rilevante, perché l’attività comporta rischi – in particolare incendio, esplosione, emissione di inquinanti – non solo per chi ci lavora ma anche per l’ambiente circostante. Rischi diretti (oltre i crolli, l’esplosione ha rotto i vetri o provocato danni per un raggio di un km, sollevato oggetti e furgoni, piegato sbarre di ferro, sbalzato in aria le persone) sia indiretti (emissione di vapori e fumi inquinanti, per fortuna diffusisi in maniera limitata e con livelli tornati normali dopo qualche ora, oppure potenziali sversamenti di liquidi con inquinamento dei terreni e falde acquifere). 

Essendo a rischio di incidente rilevante, lo stabilimento è soggetto, oltre che al Testo Unico 81/2008, (in particolare qui al Titolo XI “protezione dalle atmosfere esplosive”), alla cosiddetta Seveso III, cioè il D. Lgs. 105 del 2015, emanato in applicazione di una specifica direttiva europea e finalizzato appunto alla tutela ambientale oltre che alla sicurezza sul lavoro, con prescrizioni e cautele rafforzate rispetto ad altre attività produttive. La norma prende il nome “popolare” dall’incidente accaduto nell’ormai lontano 1976 nella località lombarda di Seveso, quando una esplosione nello stabilimento chimico della società ICMESA diffuse in una vasta area quantità esagerate della pericolosissima diossina, con danni alle persone  permanenti, immediati o a lunga scadenza, ed inquinamento dei terreni con connessa inabitabilità della zona per decenni. Seguirono quindi varie direttive della UE, con relativi recepimenti nell’ordinamento nazionale.

Una prima riflessione riguarda l’aver collocato una attività (per  ben 170.300 m2) così rischiosa  in un’area densamente popolata: negli anni ’50 del secolo scorso l’area era classificata come depressa, per cui gli insediamenti produttivi godevano di varie facilitazioni, e il territorio è progressivamente stato saturato. E così buona parte dei poco più di 18000 abitanti di Calenzano risiedono in abitazioni a poche  centinaia di metri, piscina comunale idem, ferrovia a poche decine di metri, autostrada A1 a 800 metri, superstrada Firenze-Mare a 1,5 km e aeroporto a 5 chilometri (e ci sono progetti per ampliarlo). Già erano pesanti gli effetti ambientali negativi: secondo Medicina Democratica, contaminazione di acque superficiali e delle falde acquifere (il torrente Garille confina con l’impianto ENI, il Marina è a 300 metri), nonché dell’atmosfera per i vapori inevitabilmente emessi dal deposito. Il sindaco di Calenzano Carovani (un outsider eletto da una lista civica di sinistra che ha battuto alle ultime elezioni anche il PD locale) da tempo, ed ora anche il presidente della Regione Toscana Giani, del PD, parlano della necessità di una riflessione sulla collocazione dell’impianto: ma riflettere non basta, e agire quando c’è di mezzo un gigante come ENI, diciamo non spiccatamente sensibile, e a normativa attuale, non è facile.

Una seconda sulla gestione dell’emergenza e relativi piani: un allarme si è effettivamente attivato poco prima dell’esplosione, ma troppo tardi (un operatore, notata un’anomalia nell’area pensiline di carico, è riuscito a dare l’allarme pochi istanti prima dell’esplosione, allontanandosi quel tanto sufficiente a salvarsi). Esplosione quindi da vapori (la benzina e gli altri liquidi invece bruciano) provocata da qualche tipo di innesco, su cui si indaga. Il piano di emergenza prevedeva danni da esplosione  per un raggio massimo di 200 metri, anziché il chilometro effettivamente verificatosi … Le squadre di emergenza sono comunque intervenute tempestivamente, e il rischio di una catena di incendi con conseguenze catastrofiche è stato scongiurato (erano presenti ben 20 autocisterne). L’evidente sottovalutazione delle conseguenze di una esplosione ha fatto sì, come raccontano le persone che si trovavano all’esterno emerge che la gente è “scappata via” da dove si trovava, casa o luogo di lavoro che fosse, senza seguire alcun piano: quindi senza raccogliersi in apposite aree sicure di raccolta, dove potersi contare, e senza la consapevolezza di esporsi magari a sostanze tossiche (eventualità che avrebbe consigliato semmai di restarsene al chiuso fino a rischio cessato).  In ogni caso la Procura di Prato che sta vagliando i piani di sicurezza ed emergenza, sia quello interno al deposito, sia i piani esterni, disponibili presso gli enti preposti sul territorio, fra cui la prefettura di Firenze, per gli aspetti di protezione civile connessi.

Una terza riguarda eventuali segnalazioni precedenti all’evento su qualcosa che non andava,  evidentemente inefficaci: è emerso, tre giorni dopo l’incidente, che uno degli autotrasportatori poi deceduto, Vincenzo Martinelli, ricevuta una contestazione disciplinare dalla ditta di trasporti per cui lavorava, per mancato carico, aveva giorni prima risposto segnalando problemi di sicurezza, cioè  sversamenti di benzina, proprio  sulla pensilina 6 dove è avvenuta l’esplosione. In particolare, il cosiddetto Scully, (cioè il sistema anti-traboccamento, dispositivo automatico che in caso di malfunzionamenti nel  carico del carburante nelle autocisterne, interrompe il flusso per evitare sversamenti e successiva formazione di vapori a rischio di esplosione) non avrebbe funzionato bene. Ma che ne è stato della segnalazione? In un sito a rischio di incidente rilevante non dovrebbe esistere un sistema strutturato di gestione delle anomalie, tanto più se rilevanti, e da chiunque segnalate?

Una quarta riguarda le manutenzioni. Quella mattina erano in programma due distinti interventi, uno alla pensilina numero 7 su una condotta di alimentazione per il carico di carburante ai camion, l’altro su due raccoglitori di vapori – uno più piccolo, uno più grande – da tempo malfunzionanti (riporta l’ANSA che lo dice la stessa ENI!) situati nella corsia 6, quella dell’esplosione (ENI sostiene che quest’ultimo, pur previsto quella mattina, non era in realtà ancora iniziato al momento dello scoppio).  Vapori di benzina e di altri carburanti si formano nelle fasi di pompaggio  nelle autobotti, e una fuoriuscita è plausibile se l’impianto di recupero lavora male, come a quanto pare già noto (!!).  Inoltre, lì vicino, alla base della corsia numero 6, si stava sollevando un carrello tramite macchinario, proprio mentre si formava una piccola nube di vapori di carburanti; nube citata da alcuni testimoni, e che corrisponderebbe a quella che compare nel primo video disponibile pubblicamente. É questa operazione l’innesco, o questo ha avuto altre cause? La Procura pratese dopo un sopralluogo al sito  lunedì 16/12, ha nominato dei periti che avranno 60 giorni per le conclusioni; un’inchiesta parallela, da gennaio 2025, sarà svolta da una Commissione parlamentare. Quindi: innesco verosimilmente  provocato dai lavori di manutenzione non eseguiti in sicurezza e forse non proprio tempestivi per evitare (senza riuscirci, evidentemente) fuoriuscite di vapori, oppure addirittura un telefono cellulare lasciato erroneamente acceso nonostante il divieto di farlo nell’area a rischio. Comportamenti quindi errati, ancora una volta, delle ditte appaltatrici e dell’appaltante  ….

Ma allora: quanto erano qualificate queste ditte (non pare granché), in base a cosa erano state scelte, solo per i costi più bassi? Quanto formati i loro dipendenti ad operare lì? Il DUVRI era adeguato, conosciuto, le relative indicazioni rispettate? E le procedure di sicurezza, erano adeguate, conosciute, rispettate? Quale il contenuto del contratto di appalto? Perché la manutenzione era eseguita comunque durante le rischiose operazioni di carico, e con qualche malfunzionamento già noto, per risparmiare sui tempi? A quanto risalivano i guasti, e davvero c’erano solo, come sostiene ENI, su una linea dismessa da anni (ma allora, se non erano urgenti, perché svolgerli durante il carico delle autobotti?)  Le manutenzione, nei pressi dell’area di carico del carburante, consistevano in rimozione di valvole e tronchetti e messa in sicurezza la linea dismessa. Lì “sarebbe avvenuta una fuoriuscita di carburante nella parte anteriore della pensilina di carico … in qualche modo dovuta alla chiara inosservanza delle rigide procedure previste … Le conseguenze di tale scellerata condotta non potevano non essere note o valutate dal personale in loco“, chiosano gli inquirenti. E per personale in loco si intende quello ENI, o di suoi ulteriori appaltatori:  l’appaltante resta sempre responsabile, è sempre a suo carico, ed ancor più in siti produttivi come questo, verificare l’idoneità degli appaltatori, con precisi doveri di controllo e poteri/facoltà di intervento.

Pare inoltre che gli autotrasportatori dovrebbero occuparsi solo delle operazioni riguardanti i camion, non del riempimento dell’autocisterna spettante a personale ENI o di altra ditta appaltatrice: che ci facevano allora, lì, svolgevano forse operazioni non di loro competenza (ci sarebbero segnalazioni in tal senso per altri stabilimenti ENI, non però meglio precisati) ed in tal caso ENI avrebbe risparmiato sui costi del personale, oppure semplicemente  ignoravano il rischio e quindi non si erano spostati in un’area sicura? Si badi che, quando c’è un rischio di esplosione, oltre ad altre specifiche misure, le persone non impegnate dovrebbero stare a distanza di sicurezza, distanza tanto maggiore quanto più l’esplosione può essere potente; qui rinvio, per i curiosi e i tecnici, alla pubblicazione INAIL “Il rischio di esplosione, misure di protezione ed implementazione delle direttive Atex 94/9/CE e 99/92/CE” reperibile sul sito INAIL. Ma questa distanza di sicurezza evidentemente non era rispettata, e qualche lavoratore si è salvato per caso solo perché protetto dal camion.

Purtroppo,  Calenzano è la sesta strage di lavoratori nel solo 2024: 1) 16 febbraio a Firenze con 5 vittime nel cantiere per la costruzione di un nuovo supermercato Esselunga; 2) 9 aprile nella centrale elettrica ENEL di Suviana (Bologna), con 7 vittime; 3) 6 maggio, a Casteldaccia (Palermo) muoiono 5 lavoratori impegnati in un impianto fognario AMAP 4) 23 ottobre esplosione nello stabilimento Toyota a Bologna, due vittime;  5) 18 novembre,  3 morti nell’esplosione in una fabbrica clandestina di fuochi d’artificio a Ercolano (Napoli).

Ad eccezione dell’evento alla Toyota di Bologna, le vittime appartengono sempre a imprese appaltatrici e subappaltatrici; e le stazioni appaltanti sono o pubbliche (FS, ENEL, AMAP, ENI) o grandi imprese come Esselunga e Toyota. Non, quindi, piccole imprese in difficoltà nell’applicare la normativa e di precaria profittabilità, ma organizzazioni strutturate che ben potrebbero, anzi dovrebbero, controllare meglio la filiera. E se non la fanno adeguatamente, non sarà che lo fanno, oltre che per risparmiare sui costi, perché la loro responsabilità solidale negli appalti è stata abolita definitivamente da questo governo attraverso il cosiddetto Decreto del fare, col pretesto della semplificazione? Anche qui, speriamo nel referendum promosso dalla CGIL che si terrà l’anno prossimo. Oltre alla gestione delle emergenze sicurezza e ambientale sui siti ad alto rischio, da quanto accaduto si conferma la regolazione di appalti e subappalti va migliorata, abolendone l’uso improprio al mero fine di ridurre i costi, e imponendo obblighi e requisiti più efficaci ad appaltatori e subappaltatori, come pure gli appaltanti. Ma nulla sino ad oggi si è visto, la linea d’azione di oggi governa resta quella efficacemente a suo tempo illustrata dalla Presidente del Consiglio dei ministri “non disturbare chi fa”, e dell’inutilità sostanziale della patente a crediti in edilizia già si è detto. Anzi, intanto il Parlamento vara norme correttive al Codice degli Appalti, su input del ministro dei Trasporti Salvini, che li liberalizzano ulteriormente, indebolendo controlli ed obblighi dei committenti (è facile aggirare le norme sulla patente a punti in edilizia, se le reali attività materiali sono poi tutte appaltate/subappaltate).

E mentre solo due giorni dopo questa strage, l’11 dicembre, si registravano ben 6 altri morti sul lavoro in altrettanti distinti eventi, osservo che a dar conto delle morti quotidiane sono due chiamiamoli osservatori privati, volontaristicamente e gratuitamente aggiornati (https://www.facebook.com/carlo.soricelli; https://www.facebook.com/Mortidilavoro); e il SINP – Sistema Informativo Nazionale Prevenzione – sul quale rinvio all’articolo del 22 settembre 2024, si occupa d’altro.

Nell’assordante silenzio della Ministra del Lavoro e della Premier, quest’ultima notoriamente su altri argomenti particolarmente loquace (ma, ahinoi, anche dall’opposizione che va oltre a frasi di circostanza), e mentre il 18 dicembre si verificano 3 infortuni mortali tutti per quella che è la seconda causa di morte, cioè schiacciamento sotto/tra, l’11 dicembre usciva una sorprendente dichiarazione del vice ministro della Giustizia, (peraltro non proprio un componente di primo piano del Governo), Francesco Paolo Sisto. Il viceministro, cambiando repentinamente posizione,  annunciava “nei prossimi giorni” la proposta di istituire il nuovo reato di omicidio sul lavoro, istituzione che è richiesta storica del sindacalismo di base e che oggi fa breccia anche tra i sindacati confederali, ma dall’attuale maggioranza sempre fieramente combattuta; e  Sisto aggiungeva  con specifiche aggravanti in caso di violazione della normativa di sicurezza, e all’inverso (doppia sorpresa) con specifiche esimenti dalla responsabilità penale in caso di comportamenti “virtuosi” non obbligatori, quali adozione di Modelli di Organizzazione Gestione e certificazioni di qualità.

In attesa di conoscere la proposta, se e quando arriverà (mi permetto qualche dubbio…) non sfugge che l’impostazione culturale di questo governo, non cambia, lo strumento resta esclusivamente repressivo e penale; e sull’efficacia preventiva di un siffatto nuovo reato, per quanto eticamente giustificato, conservo ampie riserve. Ma repressione, e connessa almeno teorica deterrenza, non sono sufficienti: bisogna prevenire, non punire!! Ma qui c’è ancora molto da fare, e prima, da progettare/pianificare.

M

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