Il 29 novembre è una giornata di lotta non solo di Cgil e Uil ma di tutto o quasi il sindacalismo di base. E si amplia a movimenti, associazioni e strutture sociali in una nuova possibile unità delle lotte
Che lo sciopero generale indetto da Cgil e Uil, e da quasi tutto il sindacato di base, il 29 novembre, dia fastidio al governo lo si capisce dallo scontro in atto sul comparto trasporti. Il ministro Matteo Salvini ha deciso la precettazione riducendo da otto a quattro ore la durata dello sciopero – in questo spalleggiato dalla Commissione di garanzia, di nomina governativa – nel settore aereo e nel trasporto locale. Il sindacato ha impugnato la precettazione con un ricorso al Tar facendosi trovare, a differenza della reazione un po’ ingenua dello scorso anno, preparato. La vicenda ha il pregio di collocare nella giusta posizione la natura di classe del governo che quando si tratta di diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, della loro possibilità di organizzarsi nonché delle loro condizioni di vita, si trova sempre con le spalle girate e attento a governare l’austerità o gli interessi delle imprese.
Ma la vicenda aiuta a fare luce anche sulla portata stessa dello sciopero, sui limiti che lo precedono e sulle potenzialità che poi lo animano in particolare per la sua, inedita quest’anno, possibilità di «convergenza».
I sindacati organizzati, quelli confederali e quelli di base, ci hanno abituato da tempo a pensare lo sciopero generale come una data di rito collocata in un certo punto dell’autunno più per ragioni organizzative che come sbocco di un vero processo di mobilitazione. Lo sciopero generale, in fondo, è la parola d’ordine più potente che si è data il movimento operaio e quando veniva proclamato, nel cuore del Novecento, era per mettere in campo davvero una potenzialità di massa inespressa in grado, se non di sovvertire i governi, almeno di incrinarne l’equilibrio. Uno sciopero generale dovrebbe essere il punto di caduta di una pressione che è fatta di mobilitazione, di processi di convergenza sociale, di allargamento della protesta per poi arrivare a un punto alto dello scontro in grado possibilmente di ottenere un risultato. Viene in mente lo sciopero generale del 12 novembre 1994 che preparò la caduta del primo governo Berlusconi e, anche se non era uno sciopero generale, la grande manifestazione Cgil del 23 marzo 2002 al Circo Massimo contro la modifica dell’articolo 18 sempre a opera di Berlusconi. Respinta vittoriosamente (e poi approvata dal Partito democratico di Renzi nel 2014). Così non è più da tempo, per via delle difficoltà a mobilitare una working class (il termine inglese aiuta a estendere al massimo il concetto) ripiegata e in difficoltà, certo, ma anche la pratica sindacale non è stata molto d’aiuto.
Giuliano Garavini, in un recente articolo sul Fatto quotidiano, ha salutato questo sciopero, che conferisce una forte centralità al salario, come la possibilità di liberarsi, da parte almeno di Cgil e Uil, del «peccato originale» del 1992 e degli accordi di concertazione che al declino salariale italiano hanno dato inizio. Si tratta di un consiglio interessante, ma da questa invocazione si può trarre anche un altro «peccato originale»: la convocazione dello sciopero generale più per motivi «politici» e di organizzazione che per contribuire all’estensione di una mobilitazione diffusa, generale appunto e generalizzata.
Lo sciopero del 29 novembre potrebbe avere questa funzione. Convocato originariamente dalle sole Cgil e Uil, ha subito intercettato un diverso bisogno di reazione sociale. Il governo della destra, che si ammanta del termine «sociale» ma che non fa altro che l’interesse di banche (vedi extraprofitti) e dell’austerità (vedi il rapido all’allineamento all’Euro-governo), prosegue come un rullo a ridimensionare diritti, a tagliare fondi sociali, a rimodellare scuola, università, welfare, a criminalizzare il dissenso e questo sta creando un’insofferenza diffusa. Lo sciopero della Scuola del 31 ottobre è stato un timido, ma positivo, segnale così come quello dei Metalmeccanici del 17 novembre. Anche la reazione diffusa e generalizzata che si registra sul Ddl Sicurezza che il Parlamento si appresta ad approvare, è la spia che si coglie la determinazione governativa ad attaccare le lotte sindacali e a ridurre ancora i diritti sul posto di lavoro.
La Cgil ha una piattaforma articolata per sostenere lo sciopero in cui la questione salariale è certamente la più importante. «Il governo ci infliggerà sette anni di austerità», comincia il testo che lancia lo sciopero per poi approfondire il tema della perdita di potere d’acquisto di lavoratori e pensionati causata da un’inflazione da profitti oltre alla crescita della precarietà e dei tagli a sanità, istruzione, trasporto pubblico, enti locali.
Da questo punto di vista una ragione sufficiente per scioperare è data dallo studio fatto dalla Fondazione Di Vittorio che ha analizzato i dati di Mediobanca su 1.900 aziende di industria e terziario e dell’Osservatorio delle imprese della facoltà di ingegneria civile e industriale della Sapienza di Roma. L’autore dello studio, Nicola Cicala spiega che «lo scorso anno, rapportati al fatturato, i costi che le aziende hanno sostenuto per acquisti di beni e servizi dopo il covid sono tornati nella media mentre il costo del lavoro è diminuito (con conseguente aumento degli utili netti) e sono cresciuti gli oneri finanziari, cioè in sostanza gli interessi sui prestiti pagati alle banche». Le cifre sono chiare: nel periodo 2015-2019 il costo del lavoro pesava per l’11,7%, nel 2023 è sceso al 10,1 e nello stesso anno i dividendi distribuiti agli azionisti sono ammontati a ben 52 miliardi, gli utili realizzati dai grandi gruppi italiani (banche, industria e assicurazioni) hanno superato i 132 miliardi.
Nonostante le eredità del passato, insomma, quest’anno lo sciopero arriva al momento giusto e non a caso ha raccolto un consenso oltre i confini della Cgil e della Uil. E probabilmente la bandiera della «rivolta sociale» lanciata da Maurizio Landini è quella che meglio identifica il passaggio di fase per quanto andrà riempita di occasioni e sperimentazioni sociali. Per questo è giusto valorizzare la convergenza voluta dal sindacalismo di base che non ha mai raggiunto le dimensioni del sindacalismo «istituzionale», ma che conserva in molti ambiti una capacità di mobilitazione e presenza che spesso la Cgil non ha.
Quasi tutte le sigle del sindacalismo conflittuale Cub, Sgb, Adl Cobas, Confederazione Cobas, Clap, Sial Cobas hanno costruito una piattaforma unitaria molto radicale che va dall’opposizione alla Legge di Bilancio al Ddl Sicurezza, alla solidarietà con il popolo palestinese, dal rifiuto di nuove spese per le armi alla richiesta di un «aumento sostanziale» dei salari, e poi casa, precarietà, ambiente, il rifiuto del patriarcato e delle discriminazioni di genere. Le sigle di base hanno anche redatto un appello comune, «la frammentazione non è un destino»: «Si dice che il mondo sia ormai mosso da un ‘multipolarismo centrifugo’» scrivono. «È un’immagine del caos sistemico nel quale siamo immersi, segnato da crisi economiche senza fine, guerre senza fine, torsioni autoritarie senza fine, razzismo senza fine, violenza di genere senza fine, ecc. Nel tentativo di non cedere allo sconforto, ci si abbandona con facilità a stratagemmi consolatori: ‘peggio di così non può andare, toccheremo il fondo, un fondo deve pur esserci’». E invece, scrivono i sindacati di base, «occorre tentare, tentare di rompere silenzi cortesi e rituali consolatori. Tentare, perché siamo consapevoli che non basterà un tentativo».
Quello del 29 novembre è indetto come «sciopero generale unitario, sindacale e sociale, precario e migrante, femminista e ostile alla guerra. Uno sciopero di tutte e tutti, come quelli che si fanno in Francia da qualche anno». Senza quegli scioperi, è il messaggio, non ci sarebbe stata infatti la capacità unitaria della sinistra, su posizioni sufficientemente radicali, da sconfiggere Marine Le Pen alle elezioni legislative.
Una sintesi mirabile, come spesso accade, di questa impostazione la offre il Collettivo di fabbrica della ex Gkn: «Tutte le politiche degli ultimi trent’anni hanno reso necessario questo sciopero generale. E contemporaneamente l’hanno reso insufficiente. Perché questo sciopero arriva nell’ultima settimana del 22° mese di calo consecutivo della produzione industriale. Arriva con una repressione già in marcia (in questo paese, solo tra Milano e Piacenza ci sono 3.000 indagati per ‘reati’ legati all’attività sindacale). Con un tessuto sociale già compromesso (6 milioni di poveri assoluti e 3 milioni di precari). Con un contesto di disastri climatici e guerra crescente. Lo sciopero generale arriva. Benedetto e sacrosanto. Ma rischia di non bastare. E allora semplicemente tutte e tutti dentro allo sciopero. Perché da generale sia generalizzato, perché strabordi come un fiume in piena capace di riempire ogni traiettoria possibile». L’obiettivo è che «ogni lotta particolare si rafforzi in questo generale» così almeno si pensa possa essere per la Gkn: sfruttare lo sciopero generale per rafforzarsi e dare allo sciopero generale una continuità. In quella fabbrica si tratta di proseguire con la «Campagna di inverno» per continuare a resistere fino al successo del nuovo piano industriale, che però sconta ancora la sordità dell’azienda, quasi 12 mesi di stipendi non pagati e un logoramento umano inimmaginabile.
Le Clap, le Camere del lavoro autonomo e precario, si dicono consapevoli «che, per essere incisivo, lo sciopero generale deve essere anche generalizzato e sociale, della produzione e della riproduzione (lavoro di cura, affettivo, dentro e fuori le mura domestiche), per la giustizia sociale e per quella climatica, per la pace e contro la guerra. Uno sciopero vero, che lasci il segno; non basta più testimoniare, occorre fermare il paese. Il 29 novembre prossimo è l’occasione attesa». Le richieste dei Cobas riguardano innanzitutto «massicci investimenti nei settori pubblici di Sanità, Scuola, Università, Trasporti, Servizi di assistenza e il taglio drastico delle spese militari» ma il programma è molto più ampio. I Cobas danno appuntamento alle manifestazioni locali che si organizzeranno con le «strutture e movimenti ambientalisti, femministi/transfemministi, studenteschi e dei Centri sociali» che parteciperanno alla giornata di lotta. L’Adl Cobas poi costruisce un ponte tra lo sciopero del 29 novembre e la data del 14 dicembre: «Quello del 29 novembre è uno sciopero generale, di tutt*, ma è anche uno sciopero per poter continuare a lottare per la nostra dignità contro chi vorrebbe impedirlo. Contro l’approvazione del Ddl sicurezza, ovvero il Ddl paura del Governo Meloni, e per costruire insieme una grande manifestazione il 14 dicembre a Roma. Scioperiamo perché la rivolta sociale, non sia una suggestione ma un largo spazio di convergenza».
Si torna così alla «convergenza», la parola d’ordine che ha accompagnato gli oltre tre anni di lotta della ex Gkn, che in alcuni momenti è sembrata potersi realizzare e che invece è ancora una potenzialità inespressa. E così torniamo al «peccato originale» di cui abbiamo parlato all’inizio, della funzione di uno sciopero e della sua possibilità di lasciare tracce di sé. Occorre attraversare il 29 novembre pensando già al 30 (e non solo alla sacrosanta manifestazione per la Palestina fortunatamente unitaria e che si svolgerà quel giorno a Roma) e ai giorni e settimane successive ricominciando a depositare sul terreno quei germi unitari che le varie piattaforme hanno delineato. E quella capacità di convergere sulle varie emergenze che la crisi sociale espone.
«Possibile mettere da parte gli interessi di parte e sfidare il governo Meloni tutte e tutti insieme?», si chiede ancora l’appello unitario dei sindacati di base. «Possibile ritrovare la fiducia, scegliere la tessitura paziente, la mescolanza, il desiderio di lottare e di assemblare le lotte?». «Noi pensiamo di sì, che sia possibile», è la risposta. «Da soli, come tutti d’altronde, non faremo la differenza. Ma siamo certi che in tante e tanti si stanno facendo domande simili alle nostre». Lo spirito giusto per attraversare questo sciopero generale.
*Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme).
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin il 29 novembre 2024