Mentre mi accingo metaforicamente a buttar giù sulla carta un po’ di note informative e appunti sparsi di visione, non posso fare a meno di accennare alla enorme difficoltà che si prova a render conto e in fondo a mandare avanti consuetudini, stagionalità, riti e routine rispetto ad un palinsesto culturale casomai sempre più ricco in certi casi sino alla bulimia mentre di tutto sta accadendo.
Mi viene alla mente un incipit ungarettiano: e come potevamo noi cantare? Cronaca, Storia, Ambiente ecosistemico ci stanno franando addosso ed è veramente arduo talvolta trovare motivazioni che non suonino da anime belle per il nostro impegno sulle cose della organizzazione culturale.
Eppure, dalla Cultura e dalla Educazione bisogna partire, per preservare capacitazione critica e pluralità di sguardi, mattoncini basilari per decostruire il discorso pubblico sulle guerre, per esempio.
Perciò ci proviamo, in front line, a discutere su quanto anche indirettamente ci aiuti ad essere fuori, ma non in senso rinunciatario appartato e ancor meglio, oltre, un po’ di cultura teatrale che gira intorno.
Consapevoli di diverse questioni al momento in cui scriviamo: per esempio, il peso implicito di un clima elettoralistico, mentre intanto si moltiplicano segnali inquietantissimi di limitazioni inaccettabili alla libertà di opinione, di espressione, di dissenso.
Nel mentre iniziavamo a scrivere queste note e si definivano stagioni, eventi, palinsesti, festival, organici, i fatti del mondo, la cronaca spicciola, la nostra stessa quotidianità venivano turbati da sequenze di accadimenti drammatici e fatti a rilevanza nazionale tali da farci mettere forse tra parentesi il tema della definizione di un nuovo Assessore alla Cultura, ma non viceversa il tema di trovare le parole per dire le cose o di nutrire quel serbatoio immaginativo che solo può consentirci una fuoriuscita dal pericoloso tunnel della rassegnazione, dell’indifferenza, della complicità. Del mainstream buonsensaiolo, in altre parole.
Abbiamo lasciato con l’Estate più torrida, Archivio Zeta in una prova molto alta e magicamente “specifica”, come l’ultima loro parte di La montagna incantata al cimitero germanico della Futa per ritrovarli in autunno impegnati in mille eventi sempre partecipati ed espressi storicamente rispetto alle location, come le performance di questi giorni all’Archivio di Stato, andate rapidamente sold out, per così dire, anche se fattualmente gratuite o le appena antecedenti repliche dell’affascinante percorso itinerante in notturna all’interno degli elegantissimi e solenni locali del rettorato, celebrativo della battaglia all’Università, che vide nell’ottobre del 44 compiersi il sacrificio di sei studenti resistenti rimasti intrappolati all’interno della sede universitaria presa d’assalto da 50 uomini di reparto speciale della polizia di stato, conseguentemente fucilati sul posto ed esposti cadaveri nel cortile per giorni. Qui la vicenda narrata in prologo dall’attore guida del pubblico visitatore, e stata sublimata attraverso la scelta di elaborazioni e letture tra i nostri più grandi scrittori del Novecento che hanno saputo parlarci di guerra e resistenza in modalità anche intima e antiretorica. E dobbiamo segnalare che non si son potute avere le repliche nel giorno d’anniversario giusto, a causa delle note vicende alluvionali entrate a gamba tesa in uno scenario urbano non già semplicissimo.
Altri percorsi itineranti sono stati in senso letterale e anche metaforico, quelli che in maniera sorprendente hanno accolto l’inizio autunno anche alla cupola Dom del Pilastro, dove tra un black out serale di mezzo Quartiere e l’altro abbiam potuto assistere se non a tutti, ad alcuni eventi per l’allenamento outdoor e indoor di menti sane in sane e robuste costituzioni e dunque un incantevole promenade accompagnata e custodita da tre attrici guida officianti e istitutrici di un gruppo di ragazzini in tutto degni di salvare il mondo, visto che perfettamente in grado di affrontare le prove strategiche di fondo imposte dalle mentori. Prove a ben vedere di piccoli gesti di consapevolezza, ribellione, autodeterminazione considerati fondativi di una personalità adulta. Personalità che ipoteticamente costituitasi e una volta arrivati alla domenica, nel mondo piacevolmente votato all’ideologia buona dell’apprendimento che Compagnia Laminarie sa costruire, si volge ad una aneddotica quanto colta indagine sul magistero e le opere di Luigi Nono.
Un dibattere, un disquisire oggi vissuto come eccezionale in se e particolarmente incredibile in una periferia, quando i gloriosi anni 70, anche quelli del pragmatismo bolognese ci consegnano una storia ben diversa in cui esperimenti arditi si ibridavano facilmente con crescentine, merende, attivismi porta a porta, forme di prevenzione della salute oggi impensabili. Quindi chapeau e lunga vita a Dom che sa incarnare un genius loci non già trascorso in forma di acqua fresca come talvolta può malauguratamente sembrarci …
Un’altra piacevole sorpresa che ci ha reso più gradevole un ritorno ferie sempre un pochino accidentato per difficolta di adattamento è naturalmente il cartellone settembre-dicembre di quello che ormai non è più un oratorio storico di inaudita bellezza vocato alla rappresentazione, ma un lab-oratorio vero e proprio di idee e suggestioni che attingono a qualsivoglia i area di pensiero, anche la più irriverente e dissidente.
Di più Lab oratorio, in una logica di fecondi intrecci si fa anche casa ospitante di festival e rassegne altre e non certo di poco conto quali Robot festival, addirittura in direzione musicale spinta verso l’elettronica più nomadica di global clubbing, Musica insieme per Bologna Festival,
Pandora rivista, la brillante intuizione di scienza e politica ad ampio raggio di geolocalizzazione che polarizza l’attenzione dei più giovani sui temi maggiormente ostici e scottanti del momento, Eccentriche festival e la Città delle Donne per dire sulla concentrazione di tematiche di genere. Ma anche Peraspera festival che qui ha visto la programmazione dell’ottimo Nikita, lavoro di Francesca Sarteanesi e di Manu scribere, la rassegna creata dall’associazione grafologica italiana ed ovviamente vocata al piacere dello scrivere e leggere come arricchimento e vero allenamento d’intelligere.
Quindi incontri, spettacoli, cinema, musica, festival, numerose incursioni della mitica Orchestra senza Spine che almeno temporaneamente in sfratto da Mercato Sonato sta trovando tante piccole patrie in tutta l’area urbana, tanti libri da presentare o cui riferirsi e soprattutto la novità di talks monitorati eppoi seguiti da diretta presenza sul palco della redazione di Giovani Reporters, uno sforzo di grande racconto affresco per affrontare tutte le complessità del mondo che entra anche in un gioiellino barocco grazie ad una grande lungimiranza reticolare da parte di fondazione certo, ma anche della Direzione artistica di Mismaonda management. Un grande spazio nelle tematiche mi sembra quello assegnato alle questioni di educazione sentimentale e relazioni tra i generi, che passa anche per l’attenzione alla coloritura locale sulle adolescenze bolognesi appannaggio di NarrandoBo. Il problema di una Cultura non accademica e non sterile che lasci un autentico spazio educational per la impostazione valoriale dei giovani uomini e donne del futuro prossimo mi pare ben presente in questo cartellone che invitiamo a consultare perché ogni settimana è ricchissimo di appuntamenti, per lo più gratuiti e di solito in orario serale ma anche pomeridiano specialmente nei fine settimana. A proposito invece di programmazioni concluse ma che hanno lasciato un segno non si può non riferirsi a Peraspera festival, che quest’anno con appuntamenti mirati molto specifici per cura e lettura dei luoghi, proprio nel periodo al limite delle prime avvisaglie alluvionali ha segnato una edizione particolarmente fortunata sia negli appuntamenti musicali, come l’indimenticabile partitura elettrobotanica all’interno del lussureggiante e appena inaugurato spazio di Serra Madre presso i Giardini Margherita, o, quella veramente dedicata da Vinx Scorza con autentica dedizione ad una delle nicchie più radicalmente divaricate dal mainstream generalista quali lo spazio Serendippo di Vicolo Facchini, sia in quelli performativi di varia natura. Di Sarteanesi e del suo sgangherato giro di giostra abbiamo già accennato, ma dobbiamo ricordare la serata d’esordio nelle sale Carracci della Pinacoteca consegnate alla raffinata maestria di gruppo Nanou da Ravenna, una bellissima realtà ai confini tra teatro danza e performance site specific che per l’occasione si è prodotta in una raffinata esercitazione sui temi del panneggio, allineata a quanto le suggestive e celebri tele mostravano, compiendo non solo una grande operazione di compenetrazione estetica che visibilmente colpiva anche gli ignari turisti stranieri in normale visita alle sale non chiuse all’accesso per la usuale fruizione ma era in grado di mostrare una aumentata realtà di utilizzo possibile degli spazi comunemente intesi come museali e quindi circoscrivibili ad una ben definita bolla storica. Sorprendente anche il percorso in cuffia conclusivo della rassegna, che si è svolto nella cornice della collezione Lercaro di via Riva Reno: un luogo di grande fascino ed inaspettata allure laica che invito tutti a visitare quale spazio depositario di capolavori di arte contemporanea un po’ al di là dei soliti cliché in merito e tale da solo di suonare calzante al claim prescelto, che e stato: ma con chi stai parlando? Una edizione, che ha avuto anche risvolti fuori dalle mura cittadine che già rimpiangiamo e ci fa attendere con aspettative la prossima.
Ma devo dire che questo discorso si attaglia anche per le ultime due realtà appena trascorse su cui intendo riferirvi, purtroppo molto fugacemente, ovvero la diciassettesima edizione di Archivio aperto, la rassegna annuale inizialmente soprattutto di corto e mediometraggi, come formato abituale dall’amatoriale, al professionale arty, curata dalla meritoria associazione Home movies dal titolo the Art of Memory, che è trascorsa con spirito leggero e grande seguito di giovani fidelizzati, vedendo un perno importante ovviamente non solo nelle sale cinematografiche deputate alla proiezione quali quelle già connaturate del Lumiere e quelle più innovative dei pop cinema che si sono messi in collaborazione per via del nesso biografico evidente, ma in quella chiesa di s Mattia sconsacrata che sta vedendo anche in questi giorni di festa della grafica e del fumetto e dopo i fasti di Gender Bender, una sorta di ri-consacrazione ad uso pubblico intenso e partecipato del resto già evidenziato da Danza Urbana e dalla ricca rassegna musicale di contemporanea a cura di Fontanamix ensemble.
In particolare, gli spazi di San Mattia con gli accessi collaterali alla sala Berti sono stati dedicati a talks e anche ad eventi quali il frizzante concerto di chiusura dei Volontre, bizzarra formazione di cinephiles vocati alla musica vintage reinterpretata con il rigore e l’azzardo che sempre occorrono in parallelo per la costruzione di unita complesse quali sono le narrazioni ricavate dal cosiddetto footage. Si ottengono prodotti filmici che contendono la passionalità di narrazione alla più sfrenata fiction che si possa immaginare. In qualche modo l’arte della memoria è un esercizio di stile e contenuto ricreativo e costituente che va molto oltre il documentario e che sfugge a qualsiasi sospetto di passatismo perché eterne sono le molle che spingono l’umano a lasciare traccia di se e del proprio contesto. Oggi archivio aperto è in realtà un concorso internazionale e stavolta le opere in concorso erano in tutto 16, di cui 8 lungometraggi, 2 medi e sei corti, tra cui 7 anteprime italiane. Molto spazio dato negli sguardi ma anche nelle retrospettive e omaggi di contorno sia alle donne, vedi Chantal Ackerman, Goliarda Sapienza, l’artista site specific Matilde Cioni che alle esperienze dei e dai paesi dell’est. Emblematica a questo proposito la presenza in quanto ospite d’onore della scrittrice di origine ucraina Katja Petrowskaja e soprattutto il premio principale della giuria ufficiale assegnato infine al lungometraggio Triton di Ana Lungo, dalla Romania, anteprima italiana, produzione dell’anno in corso, in cui una voce femminile interroga uno sguardo maschile, messo in scena attraverso documenti visivi d’archivio da tre figure maschili ossessive e ossessionanti che ricreano immagini di donne dalla seconda guerra mondiale fino alla rivoluzione, donne della loro famiglia che in qualche modo non sfuggono al controllo. Una grande metafora parlante di tutti i totalitarismi. E a proposito di totalitarismi, un altro evento speciale che ha chiuso la giornata di premiazione è stata la proiezione già fuori concorso alla recente mostra del cinema di Venezia, del monumentale documentario Riefenstahl di Andres Veiel Ovvero tutto quello che avreste voluto sapere ma non avete mai osato chiedere su una controversa e contraddittoria figura femminile della Germania hitleriana, quale la fascinosa e forse pericolosamente queer senza saperlo, Regista, attrice, documentarista Leni, sopravvissuta ultracentenaria alla propria stessa ambigua fama, tutto sommato in gran forma fino alla fine a dispetto di tutte le possibili ricostruzioni e riletture di un ‘epoca. Non vittima delle circostanze, tuttavia figlia del suo tempo, in adesione quasi dionisiaca allo spirito del medesimo, dunque nazista per contratto se non proprio viceversa a sua insaputa o per vocazione. Incarnazione senza intenzionalità programmate di una voglia di emergere, fare, esserci, sperimentare, comunicare, in ultima istanza sedurre, che solo l’inevitabile, fatale, inesorabile intersezione con il potere nazista poteva probabilmente soddisfare. E che vede a mio avviso un formidabile contraltare solo nell’altra bionda amazzone dei tempi, oppostamente schierata quale la altrettanto mitica Marlene Dietrich. Nel film meraviglioso e impressionante, impressive proprio in senso anglosassone cui assistiamo, noi vediamo certo una donna di grande ingegno e indubbia capacità registica, portatrice di un grande self empowerment forse giocoforza e opportunisticamente abile a giocarsela tra figure in qualche modo sempre sovratono o stonate proprio o fuori fuoco di gerarchi variamente arrapati e ammaliati dalla di lei presenza e autorevolezza. Non stupisce che in qualche modo come altre figure femminili variamente emblematiche in misura paradossale di un secolo breve e violentissimo, quali la baronessa de Lempicka, per esempio, la nostra Leni abbia incuriosito e affascinato una popstar come Madonna, ma stupisce forse un poco come in tanti anni di interviste, inchieste, processi, cause legali, servizi televisivi rigorosamente molto ben retribuiti, alla fine nessuno sembra aver chiesto a questa sorta di araba fenice venuta a mancare solo due anni fa, cosa pensasse del suo stesso non rientrare nei ranghi dello schema femminile autoritario valido per le masse, ovvero quel kinder kuche kinder, cui lei sfugge sapientemente per tutta la vita ben oltre i canoni d’epoca e mantenendo nello stile di vita, nelle frequentazioni e nelle relazioni erotico affettive un totale controllo anticonvenzionale a tutti gli effetti
Una figura come Riefenstahl serve a ben introdurci a questa ventiduesima edizione di Gender Bender festival, che si conferma più che una semplice, si fa per dire, rassegna di spettacoli e tematiche sui generis e de- genere, come una grande fiesta mobile di una comunità queer nomadica che converge da ogni parte d’Italia, mescolandosi agli ospiti internazionali per celebrare l’orgoglio e la felicità del riconoscersi reciprocamente, ritrovarsi e riconfermarsi portatori sani di un linguaggio, di un patrimonio socioantropologico, di una cultura identitaria si, tuttavia non circoscrivente ma includente e dunque adattissima ai tempi e ai mutamenti. Un grande inno, insomma, no borders che invita a scardinare pregiudizi e logiche stigmatizzanti. In sede di conferenza stampa di presentazione i direttori artistici del Pozzo e Meneghelli, citando il sempre più vistoso e insospettabile ampliamento della platea di sponsors e sostenitori, proseguono con un ragionamento che vuole rispondere a quanti lamentano l’assenza in questa edizione di un claim vero e proprio o rimpiangono spillette e gadgets particolarmente irriverenti, in favore dell’attribuirsi un ampilamento delle platee di riferimento che significa non già annacquare la forza dei contenuti, quanto privilegiare questi piuttosto che una canonizzazione di forme e formalità volte ad un orgoglio talvolta un po’ escludente. Insomma la comunità LGBTQIA+ non è una setta, ma un luogo aperto, anche al conflitto, ma che recepisce in pieno le istanze del momento per il loro interfacciarsi e intersecarsi e pertanto si è dotato nelle serate filmiche di un focus palestinese, ha pienamente a cuore la questione ambientale e di specie, soffre il dramma delle centinaia di guerre in giro per il pianeta, si interroga sul controllo tecnologico nella definizione dei corpi e delle posture, cerca la relazione site specific tra luoghi e corpi performanti, privilegia nei live l’esposizione dei corpi nudi e del movimento piuttosto che il ricorso alla parola. Sterminato o quasi potrebbe essere l’elenco di momenti topici in una edizione partecipata e sempre sold out in ogni replica come non mai ed io stessa senza attribuire giudizi di valore particolare sebbene giurie ce ne fossero e il pubblico, per esempio, fosse sempre chiamato ad esprimere una valutazione in numeri da uno a cinque per ogni passaggio cinematografico, voglio ricordare due momenti cinematografici particolari del festival. Si tratta di due proiezioni viste al Modernissimo: ovvero la serata From ground Zero dedicata alla striscia di Gaza che ci ha mostrato attraverso corti girati fortunosamente proprio nell’area metropolitana di Gaza city, una condizione inimmaginabile tale da togliere il fiato. Bastava vedere gli sguardi lucidi e attoniti di noi tutti spettatori ascoltando tutti insieme un grande silenzio impotente collettivo per capire di che pasta sia fatta questa community di sensibilità. Rispetto invece ad un discorso di perizia filmica vera e propria sono stata personalmente piacevolmente sorpresa dalla proiezione di questo Kokomo city, film conclusivo del festival, sempre al Modernissimo, ad opera di D Smith, un film che tenta un affondo de coloniale sulle questioni transgender riflettendo in maniera profonda sulle contraddizioni e complessità della natura nera e schiava del maschio afroamericano esemplificata dalle storie di quattro donne transgender sex workers. affascina del film il linguaggio visivo che mescola un sapiente e mirato uso di un grafico bianco a nero a coloratissimi inserti pop, intersezioni musicali accattivanti, uso sapiente della tecnica dell’affabulazione e dello speech nero urbano, con inserti di confessione e autocoscienza allo specchio. Un film spregiudicato e sexy come nella miglior vena di uno Spike Lee degli esordi e toccante al punto giusto. Non voglio attribuire qui palmares agli spettacoli teatrali, in verità azioni di danza in prevalenza, ma voglio soffermarmi sulla memorabilità in quanto evento della serata della domenica centrale del festival quella a ridosso di una drammatica settimana alluvionale, che ha visto una enorme fetta della comunità politica, teatrale e studentesca cittadina mettersi in fila a mo’ di fiumana fuori da arena del Sole, poi stipata in ogni ordine e grado di posti per assistere ad una sorta di compendio delle risorse umane storiche e culturali di una umanità giunta alla sua” Terminal Beach, cui possiamo affibbiare molteplici significati e risonanze, ma che nel corso dell’avvincente spettacolo impareremo a seguire come slancio vitale e istinto di sopravvivenza che tutti ci riguarda ad opera di una straordinaria compagnia guidata dal coreografo tedesco Moritz Ostruschnjak, di cui poi vedremo anche l’irrefrenabile Tanzanweisungen performato dal solista Daniel Conant in quel di s Mattia. Molto bello che la direzione del festival dopo aver accolto quello che pareva un infinito fluire di pubblico, tanti erano stati gli inviti diramati abbia sentito il bisogno di dedicare una serata così comunitaria proprio ai volontari che si prodigavano nelle drammatiche e complesse situazioni alluvionali.
Un festival realmente dal volto umano e che nel suo nomadismo eclettico ha trovato e toccato molte altre sedi compagne di strada come, per esempio, la sala di Ateliersi in quel di s Vitale sulla cui stagione dobbiamo spendere due parole
Una stagione vissuta da atelier appunto laboratoriale, dal suggestivo titolo “Le congiunzioni avversative” e che vede lo storico, è il caso di dirlo, spazio multifunzione all’interno nel complesso del s Leonardo, moltiplicarsi in maniera prismatica sui luoghi altri e i contenuti più vocati all’intersezionalità che il momento richiede, grazie a scambi, ospitalità, collaborazioni, artisti in residenza. Le Congiunzioni avversative, seminano dubbio, sono pietre d’inciampo, che dunque inducono al ragionamento non banale, al ripensamento, al rigetto del dogmatismo, ma fantasiosamente potremmo intenderle anche come Congiunture planetarie non particolarmente benevole sotto le nostre costellazioni ma che proprio per questo ci inducono al salto di qualità e al rifiuto di quella dominanza implacabile della banalità del male di cui ormai sappiamo quasi tutto. Dello spettacolo – manifesto della compagnia Ateliersi che ha dato il la a questa stagione che si avvarrà dei corsi e dei laboratori di Anna Amadori e Monica Francia, ovvero quel We didi t, che dopo la prova generale abbiamo visto in diversi contesti e versioni fino all’inaugurazione vera e propria di stagione a fine settembre, abbiamo già detto e scritto molto e direi che è stato segnato un punto di grande luminosità e consapevolezza da parte della compagnia proprio sulle tematiche di resilienza ambientale intese come sfida dell’umanità che guarda caso ci è stato dato in sorte di sperimentare cosi da vicino e in maniera cosi traumatica. Ma il parlare non su, ma a ciò che ancora non si definisce bene nei contorni, ma è già qui, mi sembra che sia la nota dominante di una stagione che ha il pregio di non essere bulimica e di offrire appunto un servizio comune in quanto centro di residenzialità, di prova, di sperimentazione, di scambio. Se ne è avuta ulteriore conferma l’altra sera con questa intelligente e ficcante pièce, come potremmo definirla? In stile agit prop agrodolce con tanto di scritte “didattiche” a darci l’imbeccata, non già per creare distacco, ma al contrario per coinvolgerci mani e piedi legati dentro a una riflessione sulla nostra storia più recente in quanto sinistra sempre un po’ in bilico tra velleitarismi, nostalgie, abdicazioni, abiure, tentazioni pop, riletture esilaranti del gotha pensiero fu comunista.
Le cerbottane ovvero Francesca Romana di Santo e Laura Pizzirani, l’una romana di provenienza, l’altra bolognese doc, istruiscono un efficace teatro delle ragazze in cui molto si ride ma ci si commuove anche, non solo sulla chiusura di un ciclo storico datata al 1989, anno della caduta del Muro di Berlino, ma anche su un certo come eravamo già più che consumista e culturalmente asservito, ma tutto sommato casereccio e casto, rispetto alle aberrazioni che sarebbero avvenute molto velocemente nei costumi e nel comune sentire di li a poco. Un lavoro sulla memoria e perciò filologicamente ricostruito non solo dal personale album familiare delle due eccellenti protagoniste ma anche dalla ricerca condotta sugli archivi dell’Istituto Gramsci della nostra città. Pertanto, senza troppo spoilerare possiamo dirvi che lo spettacolo consta di una comparsata molto molto illustre e che le trascrizioni sonore dei commentari più vari che vennero raccolte fedelmente a botta calda rispetto alle decisioni assunte dalla cosiddetta svolta della Bolognina, sono interpretate con grande naturalezza e… ”realismo socialista”, da attori, intellettuali, amici sodali di comprovata fede nell’operare performativo anche come forma di attivismo pubblico… Che dire? È nata una risposta tutta al femminile ai Kepler452?
Il lavoro ha debuttato in estate al festival Polis di Ravenna e ha le carte in regola per crescere ancora… intanto la stagione di Atelier-sì, proseguirà con intelligenti calibrature di cui vi renderemo fedelmente conto sino a maggio, quasi dentro principi sartoriali che sarebbero piaciuti a Chanel, riguardo a quel meno che sa farsi molto di più. Infine per questo primo fare panoramica, panoramica nella quale buchi e lacune va da sé, sono inevitabilmente all’ordine del giorno, un affaccio sulla stagione di Teatri di Vita : teatri di Vita, iconico lounge theater nel cuore di un parco, sceglie da qualche tempo di formulare la sua stagionalità in tranches, un modulo per qualche tempo caro anche alle programmazioni di Agorà e che consente di verificarsi costantemente con il respiro e il passo dei tempi e il mood degli spettatori, anche in questo caso fidelizzati come non mai. Il lungo lavoro che da anni la direzione artistica di questo bello spazio conduce per rendere attivo e consapevole il fruitore teatrale, parte in causa nella determinazione delle scelte, nonché allettantissime e variegate proposte in formula di pacchetti e abbonamenti hanno reso possibile tutto questo. Sono eloquenti le statistiche già snocciolate in sede di conferenza stampa e parlano chiaro rispetto alla altissima percentuale di spettacoli venduti in prevendita quasi a scatola chiusa secondo la formula denominata blind. quest’anno teatri di Vita in una logica di spirito di servizio, di segmento in segmento, praticamente non ha chiuso mai i battenti neppure in agosto e sta assumendo un ruolo importante anche da un punto di vista sociale nel suo palese impegno sui giovani, a partire dallo staff, nella sua collaborazione con le Cucine popolari e, in sottotraccia nella adesione umanitaria alla causa del popolo palestinese. Cromosomi, si intitola questa prima parte che ci conduce alle soglie di fine anno. Non si può non notare come molteplici siano le presenze femminili forti a livello autoriale, attoriale, registico, come pure le incursioni limitrofe alle forme della stand up, vedasi il bislacco ed esilarante Pijama party del mago imbonitore Tony Baladam, o la reiterazione della formula XYZ, format all’impronta sui temi elettorali che vede i giovani attori residenti, interagire e interrogare a modo loro i candidati ad una qualche contesa elettorale. Il format ideato e diretto con successo da Andrea adriatico, stavolta ha visto protagonisti naturalmente Ugolini e De Pascale, attuali contendenti alla presidenza regionale mentre scrivo. Ma altre sono state le riprese da Adriatico, come l’altrettanto fortunato ed esportatissimo Eve, invettiva anticlericale ed antipatriarcale di grande impatto e la ripresa delle amarezze da Koltes, un lavoro corale e lisergico da un testo giovanile di questo autore in fase di ciclica riscoperta. Di questi giorni le prime uscite nazionali del Roberto Zucco di Giorgina Pi e mentre in questi giorni, giustamente, avvicinandosi le iniziative per le giornate di contrasto alla violenza di genere i Teatri ospitano la Donna fatta a pezzi, per il teatro delle Donne, da un racconto di Assja Djebar, cresce l’attesa per questa riscrittura secondo stilemi e traslazioni linguistiche patavenete della Notte poco prima della Foresta, condotta da quei geniacci di Babilonia Teatri.
Il lavoro si intitola infatti Foresto, ovvero straniero, si avvale dell’efficacia del dialetto veronese e di una sua simultanea traduzione in scena con il linguaggio LIS, quasi a sottolineare rispetto a certe questioni come sia veritiero il detto secondo il quale non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire…e trasmettere un senso di incomunicabilità profonda e connaturata alla provincia più scura. C’è da immaginarsi un affondo implacabile come d’uso per questa compagine dalla cifra dissacratoria. Il cast è ricco di collaborazioni scientifiche e il tutto sarà reso più graffiante da un combinato di musica dal vivo e sound and light design che non lascerà certo scampo o margini di rifugio morali in cui acquattarsi allo spettatore, come è d’uso da anni per Babilonia, altra felice rivelazione diversi anni orsono del Premio Scenario. E questo dettaglio ci consente davvero di chiudere il cerchio su una prima seppur parziale panoramica di quanto ci sta accompagnando dai primi di settembre almeno fino alla chiusura di un anno traumatico per molti aspetti, non ultimo il pur largamente preventivato risultato delle elezioni americane. Ma questa, come direbbe qualcuno, è un’altra storia e chissà forse la vedremo magari marxianamente in farsa, anche a teatro.