Capita ciclicamente in questa città che tutta la violenza, la povertà, il malgoverno, tutto l’odio e la diffidenza tra le classi, l’incuria amministrativa e l’ipocrisia istituzionale, tutte queste cose improvvisamente collassino, letteralmente sprofondino in un punto preciso, microscopico, delimitato e si portino via con sé una o più vittime sacrificali.
La sensazione è che questo accada sempre più spesso, che gli intervalli tra un sacrificio e l’altro siano sempre più brevi, e la conta dei sacrificati ogni giorno più lunga. In realtà, con il passare del tempo la memoria pubblica scolora e dall’elenco decadono i nomi più antichi; al loro posto, in testa, si aggiungono quelli dei nuovi sacrificati.
Ventotto anni fa – il pomeriggio del 23 gennaio 1996 – il crollo della volta di una galleria in costruzione aprì una voragine al centro del quadrivio di Secondigliano. Ci finirono dentro undici persone: due ragazze che attraversavano la strada, due uomini dentro un furgone, un altro in auto, una giovane che studiava nella sua stanza e cinque operai che lavoravano in galleria. Pochi istanti dopo, una scintilla innescò il gas che usciva dai tubi tranciati dal crollo. Si alzarono fiamme altissime che i pompieri spensero a notte fonda. Fu una tragedia annunciata, una storia piena di segnali premonitori e avvertimenti inascoltati, facilmente rintracciabili nella memoria delle persone, ma soprattutto nei documenti dei vigili del fuoco, nei carteggi e nelle trattative tra le autorità di controllo e i responsabili dei lavori. Pochi anni dopo, mentre lavoravo per ricostruire la storia, Vittorio Siciliani, il parroco della zona, mi raccontò di una giovane coppia che qualche settimana prima dei fatti aveva manifestato una strana impazienza nel convolare a nozze. Quando il prete gli chiese perché volessero sposarsi così in fretta, i due ragazzi risposero con candore: “Una casa non ce l’abbiamo. Abitiamo dai genitori, vicino al quadrivio. Ogni sera sentiamo quei rumori sottoterra e vediamo le crepe aprirsi nei muri. Se succedesse qualcosa di brutto, almeno il Comune dovrà garantirci una casa”.
“Gli abitanti sapevano che da quei lavori poteva nascere qualcosa di grave – mi disse il prete – e sapevano che venivano fatti alle loro spalle, perché non avevano i mezzi per controllare. Era gente di periferia. Alcuni erano abusivi, altri tentarono di praticare le vie ufficiali ma non ottennero niente. Se fossimo stati al Vomero, ai primi segnali si sarebbero mossi i professionisti della zona. Avrebbero detto: un momento, che state facendo qua sotto?”.
DENTRO LA TEMPESTA
Il quadrivio di Secondigliano dista qualche centinaio di metri in linea d’aria dalla Vela Celeste dove la sera del 22 luglio è crollata una delle passerelle che uniscono il ballatoio centrale agli ingressi degli appartamenti, uccidendo tre persone e ferendone altre. Ora, ogni volta che tutti gli elementi di cui sopra collassano, e la situazione letteralmente precipita, noi superstiti veniamo come investiti da una specie di tempesta di polvere, polvere e detriti, come quelle che si alzano dopo i crolli. Siamo accecati, disorientati, più ci agitiamo e proviamo a sottrarci più rischiamo di andare a sbattere. È una tempesta metaforica naturalmente, che si scatena sui dispositivi che veicolano le informazioni, le immagini, le parole che dopo eventi del genere cominciano a fluire da una grande quantità di canali. Dentro la tempesta tutto ci appare grigio, uniforme, ugualmente degno di attenzione.
Il giorno dopo il crollo nella Vela, i direttori dei quotidiani cittadini scrivevano il loro editoriale. “La tragedia di lunedì notte mostra la resilienza di un passato difficile da rimuovere”, sosteneva il direttore del Mattino. Secondo lui, Scampia oggi è un “quartiere nuovo che pretende di non essere ridotto a un’icona immutabile […] in una città che ha già voltato pagina”. Secondo quello del Corriere invece il crollo “ha mostrato quanto sia vulnerabile la nuova oleografia delle strade invase dai turisti, della capitale che rinasce”. Il direttore di Repubblica Napoli si chiedeva candidamente: “Ma perché in trent’anni il piano Scampia non è mai stato completato? Perché procede così lentamente e la manutenzione degli edifici è inesistente?”. Non trovando risposta, “non possono esistere aree della città completamente abbandonate”, concludeva. Negli stessi giorni hanno preso la parola anche Mirella La Magna, Giovanni Zoppoli, Maurizio Braucci, militanti che da tempo sono attivi in quell’area, insieme a molti altri, nella lotta per l’emancipazione e la dignità delle persone. Hanno detto parole sensate, anche dure; eppure, mi chiedevo, qualcuno avrà notato la differenza?
La tempesta produce questo effetto. Tutto ciò che viene detto o mostrato ci appare sullo stesso piano, sembra avere la stessa credibilità: le parole dei direttori dei giornali, guardiani dello status quo, e quelle di Mirella La Magna, da cinquant’anni in prima linea per “risvegliare dal sonno” quei territori. In realtà, la gran parte di quelli che prendono la parola in questi frangenti sono gli stessi che, una volta passato il momento, faranno di tutto per lasciare le cose come sono; essi considerano questi eventi come “emergenze” in cui è d’obbligo fare o dire qualcosa di più di quanto non si dica o si faccia abitualmente; ma non si attendono conseguenze dai loro atti o parole; non aspettano altro che di tornare a remare nella direzione di sempre.
La cosa più sensata, durante le tempeste mediatiche, sarebbe quella di restare in silenzio. Eppure, mentre noi osserviamo contriti, gli avvenimenti precipitano, le parole si accavallano, le decisioni vengono prese, ritirate, modificate. Le sorti della città si decidono anche, se non soprattutto, durante queste “emergenze”. Per chi rappresenta una presenza viva e costante nei luoghi interessati, astenersi, non prendere posizione, non provare a influenzare gli eventi, sarebbe come negare il proprio quotidiano lavoro di sollecitazione e di cura.
Il 30 luglio una dozzina di gruppi attivi a Scampia sul piano sociale e culturale hanno finalmente preso la parola. Dico finalmente perché a me sembra che in questi casi i gruppi di intervento sociale, e non solo a Scampia, restino sempre un passo indietro rispetto alle necessità del momento. Non sono certo impreparati nell’analisi, e infatti vengono puntualmente interpellati dai media come testimoni informati e affidabili; né gli manca il coraggio e la generosità, e l’hanno dimostrato anche stavolta mettendo a disposizione tutto quello di cui c’era bisogno nei giorni dopo il crollo. Quel che manca, spesso, è la volontà o l’energia per affiancare al piano della chiarificazione e della solidarietà quello della mobilitazione, della rivendicazione, dell’interlocuzione diretta con gli attori istituzionali.
“L’emergenza si continua ad affrontare solo grazie allo sforzo di popolazione, comitati e associazioni di base – hanno scritto nel loro comunicato –. Tanta inefficienza deve alzare il livello di allerta non solo a Scampia, tanto più in una città ad alto rischio sismico. […] Abbiamo fatto e continueremo a fare la nostra parte, ma riteniamo che a questo punto bisogna tornare a fare POLITICA. […] La questione abitativa delle Vele va inserita nella più ampia degenerazione del mercato immobiliare […]. L’atavica assenza di un piano di edilizia popolare si fonde con l’esorbitante aumento dei fitti e dei costi delle case, anche a causa di un boom turistico senza precedenti. […] Non è più possibile che alla mancanza di coraggio delle istituzioni debba supplire il ‘coraggio’ di chi non ha altra scelta che tornare a vivere in case ad alta probabilità di crollo”.
Il testo dei gruppi – dal Gridas al Mammut,dall’ArciScampia a Chi rom e… chi no, ad altri ancora – è basato su un’intuizione condivisibile. Allarga il campo, infatti, dalla fatiscenza delle Vele alla “risibilità” dei piani di evacuazione antisismica; dalla condizione dei campi rom alla crisi abitativa esacerbata dalla bolla turistica; dalla chiusura della Villa e dell’Auditorium a Scampia all’abbandono del verde urbano e delle piazze, al saccheggio di tutti gli spazi pubblici della città.
Gli eventi sacrificali non sono certo casuali. Essi sono l’esito inevitabile, il risultato quasi matematico di un modo di concepire e amministrare, “valorizzare” e “raccontare” le nostre città, che isola e separa, annichilisce e stritola tutti coloro che si tengono o che finiscono ai suoi margini. È un sistema che incontra sempre meno resistenze, e per questo tende sempre più a compattarsi, a eliminare ogni fessura, ogni breccia; e anche per questo produce sempre più sacrifici, di cui quelli mortali sono solo le espressioni più eclatanti. Bisogna quindi contestarlo in toto, non fermarsi agli episodi puntuali. Nel crollo della Vela Celeste si specchia molto altro, e i firmatari di questo comunicato l’hanno capito.
La questione che si pone, a loro come a noi tutti, è però molto più ampia, ed è questa: come dare un nuovo impulso, una nuova energia ai nostri sforzi quotidiani, come coordinarli, allargarli, renderli infinitamente più efficaci di adesso? A ogni evento sacrificale il sistema allestisce il suo teatrino pronto all’uso, dove tutti gli attori, senza distinzioni tra autorità e popolo, tra giusti e impostori, sono chiamati a recitare la propria parte; non importa cosa facciano o dicano, l’importante è che al termine della recita ognuno si ritiri in buon ordine dietro le quinte; fino alla prossima chiamata. La questione allora è: non tornarci più, dietro le quinte; trovare i modi, le ragioni, le forze per continuare a stare sul proscenio; non scendere più di là, e anzi da lì battersi per imporre nuove priorità e punti di vista, costruire piattaforme e parole d’ordine, allargare alleanze e sensibilità. Non possono più bastare il coraggio e la solidarietà, né dire le parole giuste al momento giusto. Il sistema, dopo ogni emergenza, dopo ogni sacrificio, attraverso un minimo, irrilevante aggiustamento di rotta, trae nuova linfa e legittimità, affina nuovi strumenti e astuzie per lasciare tutto così com’è. È vero, siamo ancora lontani da questi obiettivi, ed è probabile che per raggiungerli qualcosa vada rimesso in discussione – per esempio, la possibilità di sottrarre uno spicchio di tempo al lavoro quotidiano per dedicarlo a “fare politica” –, ma se essi non vengono messi all’ordine del giorno, se non si decide di cominciare, se si aspetta che la marea ancora una volta si ritiri, ogni sforzo sarà frustrato, resterà difensivo, velleitario, consolatorio.
Di qualcosa del genere si resero conto i preti della periferia nord, tanti anni fa, dopo avere assistito inermi al sacrificio della loro gente. Provarono a reagire, a unirsi, ad andare oltre i propri compiti quotidiani. Lo fecero nei modi limitati e parziali che gli appartengono. E naturalmente fallirono. Qui non importa che fossero preti, importa l’impulso che li mosse. Per questo vale la pena ricordare la loro storia.
NON ARRENDERSI AL MALE
Vittorio Siciliani è morto nel 2020. Era un prete dai modi burberi e sbrigativi, ma ben piantato nella sua comunità. La chiesa era quella della Resurrezione, in piazza della Libertà, nel rione Monterosa. Lì accanto partiva – e parte – ogni anno il carnevale del Gridas (Felice Pignataro aveva decorato la facciata della Resurrezione con un mosaico, poi rimosso). Il Monterosa sono le palazzine basse dell’Ina casa, distanziate da spazi verdi e pinetine; i negozi e i circoli al riparo dei portici, le strade trafficate: ogni cosa in quel posto suggerisce una vita più raccolta e tranquilla di quella che si svolge lungo i vialoni deserti e all’ombra dei grattacieli di Scampia, che si stagliano sullo sfondo.
Siciliani conosceva bene la storia. Quando cominciarono i lavori andò a benedire il cantiere della galleria, pregando per gli addetti a un’opera che fin dall’inizio appariva delicata e complessa. Quel pomeriggio di gennaio accorse anche lui tra la folla trepidante, impaurita dall’eventualità di nuove esplosioni. Più tardi, nel maggio del ’98, dalla sua parrocchia si diffuse un piccolo opuscolo, polemica guida ai “monumenti” di Scampia, contrapposta al Maggio dei monumenti, l’iniziativa simbolo del Rinascimento napoletano del sindaco Bassolino. Le tappe di “Scampia porte aperte” – sempre accessibili al pubblico – erano i resti della voragine, in un quadrivio ancora parzialmente chiuso al traffico; l’osceno troncone divaricato della Vela F, a cinque mesi dal fallito abbattimento; la fontana della Villa, asciutta da anni per assenza di manutenzione; infine il campo rom della metropolitana, il più grande e inumano tra quelli del circondario.
Ma l’azione dei preti era cominciata da prima. Si era formato un “coordinamento ecclesiale della zona nord”. A meno di un anno dal crollo del quadrivio, un’altra voragine, questa volta a Miano, aveva inghiottito un padre e un figlio, Francesco e Carmine Angrisano, davanti alla loro bottega di fabbri. I corpi vennero recuperati dai pompieri tredici giorni dopo. Fu allora che i parroci della zona si decisero a un passo pubblico. Il 5 gennaio ’97, all’ingresso di tutte le chiese dell’area nord, fu distribuita una lettera-volantino intitolata “Non bisogna arrendersi al male. Mai!”. Era l’esortazione che veniva ripetuta nel testo, dopo uno scoraggiante elenco dei malanni di periferia. Alla fine della lettera si dava un appuntamento: “A un anno dalla voragine di Secondigliano, sconvolti da quella di Miano, stanchi di promesse mai mantenute, sentiamo il bisogno di ritrovarci, parrocchie, gruppi, scuole in un’assemblea ecclesiale per riorganizzare la speranza”. Queste parole vennero lette durante le messe. I parroci le commentarono ai fedeli nel corso dell’omelia. “Dobbiamo vergognarci – disse uno di loro – per il nostro silenzio, che ci ha tolto il coraggio di denunciare l’oblio in cui versa questa zona. Ora diremo ciò che dovevamo dire da sempre. La nostra lettera non è indirizzata solo al sindaco o al Palazzo”.
I giornali presero sul serio l’appello e mandarono i loro inviati in periferia ad ascoltare cosa volessero questi personaggi, così popolari tra la loro gente quanto sconosciuti al resto della città. I giornalisti interpellarono anche i napoletani illustri dell’epoca. Molti non ebbero difficoltà nel dare ragione ai preti, e già che c’erano rincararono la dose. Niente li impegnava a fare di più. Il cardinale invece cercò di smorzare i toni, mentre il sindaco dichiarò che li avrebbe ricevuti. Gli eventi più importanti di quei giorni furono comunque le affollate assemblee di quartiere che tennero dietro all’appello, e per qualche tempo fecero sperare – a chi le aveva volute e a chi partecipò – in un progresso verso l’unità e la dignità dei propri vicini, così spesso costretti a subire e a tacere.
“Secondo la curia stavamo alzando un polverone – mi disse padre Vittorio –. In quel periodo c’era l’idillio tra la curia e l’amministrazione comunale. Il cardinale però non ci ostacolò mai apertamente. Ci furono assemblee con gruppi, scuole e associazioni. Si discusse molto, ma in termini pratici alla chiesa manca questa struttura… noi parroci possiamo fare una proclamazione di giustizia solo in termini di omelia. Furono i momenti più belli, ma non avevamo valutato che le autorità si sarebbero difese. Il sindaco volle ricevere solo i parroci. In questo modo ci isolò dai laici. Considerò i parroci come i soli protagonisti di quella denuncia. Purtroppo c’erano anche parroci che non avevano partecipato strettamente all’iniziativa e accettarono di andare. Noi non pensavamo che i giornali si appropriassero della cosa. Ci fecero tanti di quegli articoli, come se fossimo dei preti che incitavano alla ribellione… ma era un richiamo alle autorità per metterci alla pari con il resto della città. L’unica funzione riconosciuta era quella del centro, dalla periferia non si aspettavano niente, se non problemi. I giornali pubblicarono elenchi di cose che non andavano, ma non fu fatto quasi niente. Si andò avanti con i loro tempi, che sono quelli delle elezioni e di scadenze simili. Più che le grandi promesse, chiedevamo che funzionasse l’ordinario. Avremmo forse potuto insistere, ma non eravamo né compatti, né preparati nel rapporto con i laici. Il nostro rimase un grido”.
Questo articolo è stato pubblicato su Napoli Monitor il 5 agosto 2024