Nell’appartamento di Ester abitano dieci persone: tre nuclei familiari in tre stanze. Uno è costituito da una giovane madre di origine cubana e da suo figlio di dieci mesi. Un altro da un’anziana donna che mantiene le sue figlie con una pensione sociale. E il terzo da Ester e i suoi due ragazzi, uno studente e un’apprendista parrucchiera. Fino a tre anni fa vivevano in una casa nel centro di Napoli ma senza contratto d’affitto: quando il proprietario ha deciso di trasformare la casa in un bed&breakfast, Ester e i figli hanno solo potuto fare le valigie.
Più o meno contemporaneamente allo sfratto, Ester ha perso anche il lavoro, perché l’azienda di ingrosso alimentare con cui collaborava le ha improvvisamente ridotto carichi di lavoro e stipendio, e l’ha licenziata quando la donna ha minacciato di rivolgersi a un sindacato. Senza né casa né lavoro, Ester non ha più potuto sostenere il costo di un affitto per una casa al centro della città, il posto dove è nata e cresciuta e dove – come i suoi figli – ha radici ma non prospettive. Così non le è restato che occupare.
Oggi Ester e la sua famiglia vivono al Cross, una palazzina nel quartiere Arenella – zona residenziale non lontana dal centro – occupata da circa quaranta persone tra famiglie in stato di disagio economico, ragazze madri, lavoratori precari e attivisti della lotta per la casa. Al momento dell’occupazione la struttura era abbandonata, dopo un tentativo di speculazione passato prima per una discussa edificazione in deroga al piano regolatore e poi per un finanziamento di otto milioni di euro concesso dalle banche a un’azienda dal capitale sociale di soli diecimila euro. “In questi anni molte persone sono andate via dal centro città a causa del boom del turismo. Qualcuno si è trasferito in quartieri periferici più a buon mercato, qualcuno si è fatto aiutare dalla famiglia, qualcuno ha occupato. Le graduatorie del comune di Napoli per le case popolari sono bloccate da anni e il supporto per chi vive questi problemi è inesistente”, spiega Ester.
Ma non sono solo le persone in difficoltà economiche e lavorative, o quelle in emergenza abitativa, a lasciare il centro storico di Napoli, dove nel corso degli ultimi dieci anni sono arrivati flussi turistici mai registrati prima e che ne hanno modificato la fisionomia e le abitudini di vita.
Una “gentrificazione dal basso”
Luigi Romano è un avvocato di Benevento che dal 2006 ha abitato ininterrottamente nel quartiere di San Lorenzo – all’interno del perimetro urbano patrimonio dell’Unesco. “Negli ultimi cinque o sei anni”, racconta, “la conformazione urbana del centro è molto cambiata. Le attività storiche, a cominciare dai cinema o dalle librerie nei pressi dell’università, sono state sostituite da bar, punti vendita di cibo d’asporto, piccoli locali notturni; e sono cambiati anche lo stile di vita, le dinamiche quotidiane: oggi vivere nei Decumani, nei Quartieri Spagnoli o in prossimità di aree come piazza Bellini o piazza del Gesù è molto impegnativo, non solo da un punto di vista economico. In certi periodi dell’anno anche spostarsi diventa un’impresa. Il numero di persone che attraversano le strade giorno e notte è enorme, e la città non si è attrezzata per gestirlo: penso alle carenze nel trasporto locale, all’assenza di una proposta culturale pubblica alternativa rispetto a una movida fondata sul consumo compulsivo di cibo e alcol, con tutte le conseguenze che questo comporta in termini sociali e di vivibilità del territorio. Il risultato è che siamo scappati in molti”.
Tra il 2000 e il 2020 le presenze registrate dalle strutture ricettive sono passate da 1,1 milioni a quattro milioni. A un certo punto, chi ha una seconda casa di proprietà nel centro di Napoli ha scoperto quanto fosse conveniente e redditizio riconvertirla in attività ricettiva, a discapito dei contratto di affitto di lunga durata. La trasformazione di centinaia di immobili in case vacanza ha tolto dal mercato un numero crescente di alloggi residenziali facendo crescere il costo degli affitti di quelli rimasti liberi (i dati della rete Sud Europa di fronte alla turistificazione (Set) parlano di un 10 per cento solo tra il 2018 e il 2019). Come se non bastasse, il comune di Napoli porta avanti dal 2013 un imponente piano di dismissione del patrimonio storico abitativo: di fronte a una carenza di abitazioni e ad affitti sempre più alti, chi non può permettersi di pagarli può solo spostarsi in periferia o nei comuni limitrofi.
“Il centro storico e i Quartieri Spagnoli”, spiega Marcello Anselmo, storico e redattore di Napoli Monitor , “sono stati interessati in questi anni da un fenomeno di ‘gentrificazione dal basso’, per cui da un lato gli abitanti hanno potuto ottenere un guadagno dall’apertura di trattorie, ristoranti, bar e bed&breakfast, in quanto proprietari-gestori o in quanto lavoratori dipendenti, molto spesso in nero; dall’altro, però, il comune di Napoli è stato totalmente incapace di controllare questo volano di sviluppo, per cui si è assistito a un processo di espulsione non solo delle fasce di popolazione storicamente più deboli, ma anche di studenti, lavoratori fuorisede, giovani professionisti o altri soggetti che per scelta o per necessità vivevano in condivisione. Con la pandemia, poi, i flussi turistici si sono improvvisamente arrestati. Ora i piccoli investitori stanno abbassando gli affitti, ma allo stesso tempo chi lavora guadagna di meno e non può sostenere la spesa. Il dato degli ultimi mesi è l’affacciarsi della grandissima proprietà immobiliare, il che comporta un alto rischio speculativo e fenomeni di trasformazione urbana potenzialmente ancora più selvaggi ed escludenti”.
La politica sta a guardare
Da un punto di vista politico, nei dieci anni di amministrazione de Magistris il boom del turismo è stato un deciso elemento di propaganda, mentre le problematiche a esso legate sono state messe in un angolo, a cominciare dalla trasformazione di intere aree cittadine, ripensate a beneficio di un turismo mordi e fuggi capace di vendere come storiche trattorie nate da pochi mesi, o come “esperienze autentiche” i soggiorni negli insalubri bassi dei quartieri popolari. Oggi, con un contesto socioeconomico e produttivo provato dagli effetti della pandemia, con gli altissimi tassi di disoccupazione e altrettanto alte percentuali di lavoro irregolare, sembra che gli errori del passato non siano serviti da lezione.
I quattro più importanti candidati alle elezioni comunali del 3 e 4 ottobre (il favorito, ovvero l’ex ministro e rettore Gaetano Manfredi; il pubblico ministero Catello Maresca; l’ex sindaco e governatore Antonio Bassolino; l’assessora plenipotenziaria Alessandra Clemente) continuano a puntare sul turismo come principale settore di crescita per l’economia, evitando accuratamente i temi dell’emergenza abitativa e della turistificazione, in controtendenza rispetto ad altre realtà europee come Londra, Amsterdam o Parigi, dove il tema ha creato un dibattito e portato a provvedimenti capaci quantomeno di porre degli argini al dilagare del fenomeno.
Nessun candidato ha messo in campo idee sulle vere questioni aperte in città: casa, lavoro, spazi pubblici, periferie, trasporti
“La turistificazione del centro cittadino così come l’abbiamo conosciuta in questi anni, è una questione di enorme portata, anche perché ha tra i suoi effetti l’accentuazione delle disuguaglianze, non si traduce in opportunità lavorative stabili e garantite, aggrava l’emergenza abitativa”, spiega Angelo Leone, abitante del centro storico, ricercatore e attivista della Mensa Occupata, un centro sociale nato nel 2012 in un ex refettorio abbandonato di proprietà dell’università.
“In generale, durante questa campagna elettorale, tutte le istanze provenienti dal basso sembrano mortificate, dopo anni in cui il tema della partecipazione dei cittadini si è rivelato una enorme promessa mancata”, continua Leone. “Nessun candidato ha messo in campo idee sulle vere questioni aperte in città: dalla casa al lavoro, passando per la pianificazione e la gestione dello spazio urbano, il welfare cittadino, i trasporti, lo sviluppo delle periferie e delle ex aree industriali. L’ossessione comune sembra quella della sicurezza, che in mancanza di politiche per la popolazione marginale diventa qualcosa di più simile al controllo sociale”.
La protesta dei librai indipendenti
Tra piazza del Gesù, via Nilo e Santa Chiara, le strade più importanti del centro storico, vi sono quattro librerie indipendenti che da qualche anno si sono messe in rete creando il cartello Lire – Librerie indipendenti in relazione. Il 22 settembre i librai hanno organizzato un’assemblea in piazza che ha finito per attirare quasi duecento persone: l’iniziativa è nata dopo aver scoperto che il comune aveva aumentato la tassa di occupazione di suolo pubblico per un piccolo spazio in piazza del Gesù, da 32 a 140 euro, una cifra proibitiva per organizzare presentazioni di libri in strada, come Lire fa da un anno e mezzo: “Stare nelle piazze”, racconta la libraia Cecilia Arcidiacono , “confrontarci con lettori e lettrici, significa cercare possibilità di incontro oltre la libreria, ma anche estendere alla strada quel che già avviene nei nostri spazi, dove i libri sono un pretesto per aprire finestre sulla realtà”.
L’appello lanciato dalle piccole librerie è diventato una chiamata per tutte le persone che in questi anni hanno assistito con insofferenza alla trasformazione delle strade del centro, tanto che una delle proposte più convincenti è stata la creazione di un “osservatorio collettivo” per monitorare e raccontare quello che avviene giorno dopo giorno. “Mentre si chiedono quasi 150 euro per presentare un libro in piazza per due ore”, spiegano i librai, “lo spazio pubblico continua a riempirsi di tavolini e ombrelloni, dal momento che a bar e ristoranti viene concessa fin dall’inizio della pandemia una deroga che li esenta dal pagare l’occupazione di suolo pubblico. Il diritto di stare in piazza, insomma, spetta solo a chi consuma”.
Anche se il caso sollevato dalle librerie ha fatto rumore, nessuno tra i candidati ha ritenuto di partecipare all’assemblea, né di esporsi pubblicamente sulla questione, lo stesso atteggiamento tenuto in tutta la campagna elettorale ogni volta che si è trattato di riflettere sui temi più delicati o su un’idea complessiva di città. Prospettive probabilmente inconciliabili con una tornata elettorale che ha visto i partiti in enorme difficoltà, con sette candidati sindaco, una ventina di liste “civiche” e più di 1.500 candidati al consiglio comunale battagliare per una manciata di voti. Eppure è un momento decisivo per la città, in uscita da una lunga fase di austerità e con lo spauracchio del dissesto dietro l’angolo, dopo dieci anni volati via tra qualche luce e molte ombre.
Questo articolo è stato pubblicato su Internazionale il 27 settembre 2021