Nel momento in cui esce questo articolo, e pur con le doverose cautele essendo le indagini ancora aperte, si può dire da subito che la strage di Casteldaccia costituisce una sintesi di tutto ciò che NON ha funzionato, e di tutto ciò che si doveva fare e non si è fatto quando si lavora, o comunque si accede, in uno spazio che la normativa definisce confinato o sospetto di inquinamento.
Ora, (purtroppo) qui in Italia tutte le informazioni raccolte nelle indagini saranno disponibili a sentenze definitive pronunciate, quindi magari in Cassazione, e a distanza di anni. Inoltre, le indagini della magistratura servono ad individuare delle colpe, più che a stabilire delle cause. Riepiloghiamo in ogni caso brevemente i fatti, con tutte le cautele possibili.
L’AMAP (Azienda Municipalizzata Acquedotto di Palermo, di proprietà pubblica) per la manutenzione delle condotte fognarie appalta le operazioni ad una ditta esterna, la Tek, la quale a sua volta subappalta alla Quadrifoglio. In simili esternalizzazioni, ormai la regola, negli appalti privati controlli (e responsabilità) dell’appaltatore si esauriscono sul primo anello della catena, con quelli successivi che diventano sempre più deboli da punto di vista economico ma anche della qualificazione e formazione del personale (vedasi, da ultimo, la strage a Bargi sul lago di Suviana. Negli appalti pubblici la catena delle responsabilità è più lunga, con tutta una serie di specificazioni che non possiamo trattare qui e che in ogni caso non è detto si applichino agli appalti di una municipalizzata, cioè un tipo di azienda che può assumere diverse forme giuridiche. Oltre al personale della Quadrifoglio, tra cui c’è anche il titolare dell’azienda stessa (un settantunenne, ancora al lavoro alla sua età …. e che in quanto titolare non comparirà nelle statistiche INAIL perché non coperto dall’assicurazione obbligatoria pubblica) si aggiunge un lavoratore dipendente di una agenzia di somministrazione già “affittato” all’AMAP stessa.
Pare che la commessa riguardasse la messa in quota dei pozzetti e la disostruzione con ausilio di autospurgo, restando all’esterno. I lavoratori raggiungono il luogo ove operare, in una strada di periferia, aprono un tombino, calano le attrezzature e iniziano ad operare stando all’esterno; un’operazione di routine svolta da personale esperto, e non particolarmente rischiosa. Accade però un qualche imprevisto: la sonda o il tubo restano incastrati …. Ed ecco che il titolare della Quadrifoglio si cala per sbloccarlo; pare che lo sblocco avvenga di colpo, si diffonde il letale idrogeno solforato o acido solfidrico (H2S) in concentrazioni che i Vigili del Fuoco intervenuti rileveranno 10 volte superiori a quelle tollerabili. Prima tre lavoratori, poi gli altri si calano (o secondo alcune ricostruzioni, erano già presenti dove non avrebbero dovuto stare perché il gas tossico non era ancora fuoriuscito) nel tombino non avendo contatti col titolare per portare soccorso. Ma quel che conta è che, in nessun caso, che l’appalto lo prevedesse o meno, avrebbero dovuto calarsi senza alcuna delle protezioni obbligatorie se si opera in ambienti confinati e a rischio di inquinamento; in particolare sprovvisti sia di maschere ad ossigeno, sia del rilevatore di gas tossici. È l’idrogeno solforato che proviene dalla melma presente nelle fogne, prodotto dalla fermentazione dei liquami, fa il suo sporco lavoro; la sua presenza era quindi certa e è davvero difficile credere non fosse conosciuta. Tre operai muoiono subito; altri due seguono la stessa sorte, un terzo resta gravemente intossicato nel tentativo di soccorrerli, e finisce in coma; qualche intossicazione si registra anche tra chi era rimasto all’esterno quando il gas si diffonde. La famigerata catena della solidarietà, lodevole ma inadeguata e letale per gli stessi improvvisati soccorritori, si ripete ancora una volta. Solo chi è rimasto all’esterno (e, parrebbe, con un certo ritardo, oggetto di indagine) riesce a dare l’allarme. Ma i Vigili del Fuoco intervenuti non possono che recuperare i corpi, la rianimazione da parte del 118 è impossibile; per il recupero di due corpi è necessario addirittura l’intervento dei sommozzatori specializzati.
Quale fossero esattamente i lavori appaltati lo accerterà la Magistratura che ha acquisito contratti e capitolati; ma dico subito che questa ricostruzione, che sposta la responsabilità sugli sventurati lavoratori e alleggerisce (ma non elimina, vedremo dopo) quell’’AMAP o della TEK, non cambia il quadro di una totale e gravissima violazione (o ignoranza?) delle regole.
Cercherò ora di spiegare più dettagliatamente l’affermazione iniziale.
Il rischio maggiore di quella attività, come i fatti hanno tragicamente dimostrato, era quello chimico dovuto alla presenza, in quantità non solo pericolose ma letali, di una sostanza nociva come l’idrogeno solforato. La rischiosità dell’attività era accresciuta dal fatto che il lavoro si doveva svolgere non solo in uno spazio a rischio di inquinamento, ma in uno spazio cosiddetto confinato, cioè in uno spazio chiuso, poco areato, di difficile/limitato accesso, in cui l’effetto dell’agente nocivo è moltiplicato appunto dal poco spazio; poco spazio che rende difficile anche eventuali operazioni di soccorso (fossero anche necessarie per cause diverse dall’agente nocivo, ad esempio, un malore di qualsiasi natura), che richiedono procedure ed addestramento particolari. Proprio per la particolare rischiosità di detti ambienti, nel 2011 fu emanata una norma specifica per tali ambienti, il DPR 177. E secondo un copione purtroppo consolidato, anche in quell’occasione sulla spinta del clamore mediatico suscitato da alcuni eventi mortali collettivi tragicamente simili a quello di cui si parla ora a 13 anni di distanza: cioè lavori svolte senza adeguata valutazione dei rischi, senza protezioni, senza formazione e consapevolezza dei rischi dell’attività e del soccorso se attuato con l’identica mancanza di cautele. Oggi, non posso che condividere il giudizio pressoché unanime degli addetti ai lavori sul fallimento di questa norma. Perché fallimento? Cercando di semplificare questioni tecniche piuttosto complesse, gli elementi di caduta sono tre:
a) Non si dà una definizione univoca ed esaustiva degli spazi/ambienti confinati e/o a sospetto di inquinamento, ma solo delle esemplificazioni che elencano ambienti anche molto diversi: dalle fogne ai silos, dalle cantine alle vasche di decantazione. In realtà è solo l’analisi preventiva caso per caso che identifica se l’ambiente è confinato e/o a sospetto di inquinamento, e solo in base a questa si può stabilire se una impresa è in grado di operarvi in sicurezza. Invece, la qualificazione per le imprese, vedi punto successivo, è indifferenziata ….
b) Per operare in detti ambienti alle aziende devono possedere determinati requisiti (organizzativi, attrezzature, qualificazione, formazione ed addestramento degli addetti anche con particolare attenzione alle procedure di soccorso ed emergenza) che danno origine ad apposita certificazione di idoneità. Però mancano criteri, modalità, contenuti e durata per la formazione e l’addestramento dei lavoratori. E questo fa sì che nei fatti le vittime, quasi sempre non hanno neppure identificato l’ambiente come a rischio, e non adottano alcuna precauzione.
c) Se tali requisiti si possiedono, e quindi si opera, e poi si sono persi successivamente e ciò emerge durante verifiche successive, non sono previste sanzioni dirette dal DPR in questione: semplicemente si perde la certificazione. Ovviamente, resta aperta poi tutta la questione della validità sostanziale della certificazione stessa, visto quanto detto sopra. L’elenco dei soggetti certificatori è ampio ed eterogeneo: Enti a competenza territoriale come Ispettorato del lavoro, Province, Consigli provinciali dell’Ordine dei consulenti del lavoro, Enti bilaterali regionali o provincial, oppure Università, Fondazioni, tutti che applicano una apposita procedura di certificazione sulla quale mi limito a dire che esistono dubbi ed interpretazioni differenti, e che l’esperienza dimostra che certificazione formale e effettiva capacità di operare nei detti ambienti non sempre coincidono.
Tornando al caso di Casteldaccia, se davvero l’appalto prevedeva lavori solo esterni, tale certificazione non era necessaria e i dispositivi di protezione individuale e di misurazione non erano obbligatori. Lo erano però per qualsiasi accesso ed intervento all’interno, in particolare per la gestione di emergenze come quella verificatasi; obbligo evidentemente del tutto ignorato, prima che violato. Inoltre, il Documento di Valutazione dei Rischi – DVR -, sia il DUVRI – Documento Unico di valutazione dei rischi da interferenze, necessario appunto quando più aziende operano contemporaneamente negli stessi spazi, contemplavano l’eventualità non solo di interventi straordinari negli spazi confinati, ma anche di una fuoriuscita accidentale dei gas tossici anche all’esterno, rendendolo, anche se non confinato, a rischio di inquinamento, con conseguente gestione almeno dell’evacuazione?
Inoltre, perché il personale della Quadrifoglio si è impegnato in una attività, quale un intervento di manutenzione all’interno di un ambiente sicuramente confinato, di cui evidentemente non conosceva l’altissimo rischio, se non prevista dall’appalto? Forse che questa ditta era schiava dei tempi del subappalto e delle penali, come successo, ad esempio nella strage di Brandizzo? Perché non era stata informata dei rischi di interventi negli spazi confinati? E il direttore dei lavori ed il responsabile della sicurezza, a quanto pare presenti perché anch’essi e leggermente intossicati, perché sono stati inerti e non hanno impedito questi tragici errori? Quanto erano qualificati e competenti? E assenti appaiono essere le procedure per garantire una soluzione in sicurezza di eventi imprevisti, quali appunto un guasto, localizzato nello spazio confinato; e se pure presenti (ma appare improbabile) non hanno funzionato.
Ma sussiste un altro elemento poco attenzionato: uno dei deceduti era dipendente non già della Quadrifoglio, ma un lavoratore somministrato: dipendente cioè di una Agenzia di Somministrazione (tali Agenzie operano previa autorizzazione ministeriale e con rigorosi requisiti organizzativi e soprattutto patrimoniali) che lo aveva, come si dice in gergo, “affittato” all’AMAP (non sappiamo se insieme ad altri), che pagava l’Agenzia di Somministrazione per il lavoro di quella persona. Come è noto, il lavoro somministrato, detto spesso ancora impropriamente interinale come era qualificato (e diversamente regolato) alla sua nascita negli anni 90’ del secolo soccorso (con “missioni, come vengono chiamate, presso le aziende utilizzatrici anche di pochi giorni), è una delle tante misure di cosiddetta flessibilizzazione del mercato del lavoro poste in essere negli ultimi decenni; rispetto al mero appalto/subappalto, ha quantomeno il merito di prevedere per i lavoratori somministrati trattamenti, anche nel privato, non inferiori a quelli dei dipendenti dell’impresa utilizzatrice (ovviamente, a parità di mansioni ecc.) e limiti percentuali sul numero dei dipendenti di quest’ultima.
Chi lavora in somministrazione può quindi operare in molte attività diverse e con rischi diversi in un lasso di tempo limitato; da ciò consegue che, in materia di prevenzione e sicurezza, la formazione di carattere generale spetti all’Agenzia di somministrazione, e quella specifica sull’attività svolta presso l’azienda utilizzatrice a quest’ultima (e già qui sono emergono ampie problematiche sull’adempimento dell’obbligo); e su quest’ultima ricade l’obbligo di sicurezza. Qui è l’AMAP ad essere quindi direttamene responsabile, indipendentemente dalle mansioni contenute nel contratto di somministrazione. E anche se l’attività negli spazi confinati non era prevista, e quindi non era necessaria alcuna certificazione, e connessa qualificazione/formazione ecc. ai sensi del DPR 177/2011, anche il lavoratore somministrato, analogamente a quelli della Quadrifoglio, verosimilmente non era stato formato su tutti i rischi potenziali comunque legati all’attività e sulla gestione delle emergenze in uno spazio confinato. E, infine, viene poi da chiedersi quale fosse la “catena di comando” per questo lavoratore: quali erano i suoi compiti durante l’operazione? A chi rispondeva, chi gli diceva che fare, l’AMAP, la Tek, la Quadrifoglio? Ha agito di testa sua o ha obbedito a qualche disposizione? In ogni caso, agli indagati si sono aggiunti soggetti dell’AMAP e della TEK, a dimostrazione del fatto che la catena delle responsabilità non può fermarsi all’ultimo e più fragile anello
Quel che è fatto è fatto e purtroppo non può cambiare. Da questo tragico evento ricaviamo l’indispensabilità di adeguata valutazione del rischio, qualificazione reale delle imprese, formazione ed addestramento, organizzazione del lavoro e relative cautele, anche per le emergenze sopravvenute; e magari estensione della responsabilità dell’appaltante. Sotto questi profili, autorevoli posizioni tra gli addetti ai lavori sostengono che il DPR 177/2011 vada semplicemente abrogato perché irriformabile, e nel TU 81/2008 vada aggiunto uno specifico Titolo, di maggiore rigorosità e effettività. Ma è lecito dubitarne, anche perché in questa occasione le voci di rito di politica ed istituzioni, forse distratte da altre evenienze o in una certa misura assuefatte, sono state flebili ….