Lettera aperta del direttore del Festival in merito alle accuse classiste contro un progetto di convergenza culturale tra operai e lavoratori della conoscenza
Ai solidali, lavoratrici e lavoratori della classe operaia, del mondo della cultura, dello spettacolo, della scuola, dell’arte, dell’industria del libro, dell’università, a tutto il movimento sindacale, ai precari di ogni professione, disoccupati e studenti, subalterni e subalterne, privi di ogni privilegio.
In un progetto di convergenza culturale, il Collettivo di fabbrica degli operai ex Gkn, protagonisti dell’assemblea permanente più lunga del movimento operaio italiano, un gruppo di lavoratori dell’industria del libro (la casa editrice Alegre), la Società operaia di mutuo soccorso Insorgiamo e l’Arci di Firenze, hanno creato un evento internazionale di riflessione sull’immaginario letterario della classe lavoratrice, a cui il comune di Campi Bisenzio ha prestato il patrocinio.
Siamo al secondo anno di questo festival e in questa edizione abbiamo invitato scrittori e scrittrici dal Cile, dalla Svezia, dalla Spagna, dalla Francia, dalla Danimarca e dall’Inghilterra. E ci saranno studiosi dall’università di Marsiglia-Aix-en-Provence, da quella di Malmö in Svezia, dall’Università della Danimarca del Sud, dalla Goldsmiths University di Londra, dalle Università di Roma, Firenze e Bologna. Però, essendo organizzato da operai, sembra che per qualcuno non sia un festival di letteratura perché non ci sono persone eleganti in abito di lino, perché la cultura è quella cosa che fanno i privilegiati semicolti, mica gli operai, e poi per essere un festival vero ci devono essere i nomi degli istituti di credito come sponsor e il sostegno di associazioni di lobbisti quattrinai che con i festival culturali imbiancano i sepolcri e fanno whitewashing. Il nostro evento, tirato su grazie alle donazioni di persone comuni, ai loro occhi è solo un’attività «ludico-ricreativa» illegale, illecita e illegittima.
Un festival come uno sciopero
La nostra legittimità in realtà viene dallo Statuto dei lavoratori ma anche dalla storia più complessiva delle conquiste sindacali del nostro paese, realizzate dal 1962 fino alla fine degli anni Settanta. Dobbiamo immaginare il Festival di letteratura working class come un atto di sciopero, intendendo però questo sciopero in maniera non tradizionale, come una variante strategica dei nuovi modi creativi e alternativi di scioperare. Scioperi che implicano a volte anche il produrre di più per intasare i magazzini, oppure rifiutarsi di espletare alcune mansioni, come lo sciopero dei controllori che non timbrano i biglietti sui bus e fanno viaggiare gratis i pendolari. Certo, i liquidatori direbbero: «ma è illegale non timbrare i biglietti, vi denunceremo!». No, non è illegale, è una tecnica di sciopero. E non puoi denunciare chi sciopera, altrimenti ti condannano per condotta antisindacale in tribunale.
Ci spiace che questo non venga capito da chi ci «liquida» come una questione di legalità. Credo sia urgente un corso di alfabetizzazione sui diritti del lavoro e che l’educazione civica, più che nelle scuole, vada fatta nei corridoi del management italiano. Lo sciopero è un diritto, non un crimine. Un diritto che si esercita nel luogo di lavoro. Lo sciopero non si fa in sala betting e neanche in parrocchia, si fa in fabbrica, dentro e davanti alla fabbrica.
Il nostro festival è un atto culturale di operai che non ricevono un salario da mesi nonostante i tribunali abbiano annullato i licenziamenti per condotta antisindacale, un atto con cui stanno protestando assieme a tanti e tante solidali contro un padrone insolvente. Il Festival di letteratura working class è quindi un Literary Strike, o un Lit Strike, ed è un diritto dei lavoratori: è una protesta culturale della classe operaia, una forma di «sciopero letterario» non ancora mappata dai radar dei padroni, che strillano e chiamano illegale quel che non comprendono ma che percepiscono pericoloso per il proprio «particulare».
Il festival come atto di cura frainteso dai ricchi
Il nostro festival sta emozionando migliaia di persone e dando il mal di pancia alla proprietà dell’azienda, che ha avuto parole scomposte anche verso l’attore Elio Germano perché ci ha espresso solidarietà. Il protagonismo culturale di un gruppo subalterno è qualcosa che non stava nei loro schemi e questo forse li ha innervositi. Ci hanno anche accusati di voler fare business.
Mi sono chiesto se fosse meglio farsi scivolare addosso le parole che la proprietà usa contro il festival. Di certo la situazione è fastidiosa e divertente allo stesso tempo. Anche perché tutto è paradossale: dei capitalisti invece di produrre acquisiscono una fabbrica per liquidarla subito dopo, lasciano a far ruggine robot e macchine comprati coi soldi pubblici, giocano per anni a nascondino col diritto a un salario dignitoso di cinquecento famiglie, poi un giorno si svegliano col piede storto e accusano delle persone che cercano, assieme agli operai minacciati di licenziamento, di difendere un territorio da quello che sembra proprio un atto speculativo. E non è finita: delle persone che non versano gli stipendi da mesi ai loro dipendenti e che secondo il tribunale hanno una condotta antisindacale, accusano di illegalità chi sta semplicemente provando ad applicare una norma sindacale che permette di fare cultura in fabbrica, attorno a una fabbrica, davanti a una fabbrica, con i lavoratori di una fabbrica. Tutto questo grazie a una grande conquista dei lavoratori del Novecento, ossia lo Statuto dei lavoratori.
Questa sessione di dadaismo capitalista e di teatro dell’assurdo è stata una sorta di prodromo al Festival di letteratura working class che nostro malgrado ci è stato offerto in questi giorni, e noi battiamo le mani per questo spettacolo esilarante. Ma il coup de théâtre è stato il comunicato scomposto, scritto in un italiano un po’ approssimativo, con cui hanno attaccato l’attore Elio Germano. Che dire? Se si rivolgono con questi toni arroganti e padronali a Elio Germano, possiamo solo immaginare come si rivolgano agli operai delle loro fabbriche o alle persone che puliscono le loro case.
Sono uno scrittore e devo provare a entrare nei panni degli altri, come si fa coi personaggi dei romanzi. E in quei panni, in effetti, non vedo malafede. La loro non è cattiveria. È proprio un deficit cognitivo. Non ci arrivano, non capiscono neanche cosa voglia dire parlare di letteratura e industria in Italia nel 2024. Per questo ci denigrano dipingendo l’impegno culturale degli operai quasi fosse un rave, raccontando i nostri sforzi intellettuali come attività «ludico ricreative». Quanto sono lontani gli anni della rivista Comunità e di Adriano Olivetti, che pensava a un’impresa che facesse incontrare intellettuali e operai per costruire esperienze durevoli di lavoro culturale. Ma lo ripeto: non sono cattivi. Sono solo incapaci di comprendere il senso dell’attivismo culturale. È un deficit cognitivo delle classi privilegiate italiane. Noi possiamo anche citare lo Statuto dei lavoratori, i Cral aziendali, la letteratura industriale, Ottiero Ottieri e Paolo Volponi, il Menabò numero 4 di Elio Vittorini e Italo Calvino su industria e letteratura, i poeti operai, il lavoro culturale che Luciano Bianciardi faceva con i circoli dei minatori maremmani. Ma è tempo perso. Il loro immaginario sembra quello dell’economia delle piantagioni: gli schiavi con lo sguardo basso e il padrone col bastone in mano. Altro che letteratura in fabbrica!
Ci accusano poi di fare il Festival per business. Questa cosa, appena l’ho letta, l’ho trovata così surreale che di primo acchito mi ha fatto ridere. Poi ancora una volta è sopraggiunta la tristezza. Avete presente quei tipi attempati e destroidi che irridono nei programmi televisivi del pomeriggio le persone che salvano i profughi nel Mediterraneo? Li accusano di farlo per soldi, giusto? Ecco, il problema è questo: se uno fa un lavoro nel capitalismo finanziario e ragiona solo in termini di competizione per risorse scarse, oppure vive dentro un orizzonte in cui i soldi sono tutto, è chiaro che veda i soldi e il business come l’unico agente delle azioni umane. Se sei un capitalista, la gente secondo te si muove solo per soldi perché è egoista. Ma in realtà sei tu che sei così, non la gente. E non capisci l’impegno sociale, condiviso, per sortirne tutti assieme, che, come diceva don Milani, è la politica. Mentre sortirne da soli è il privilegio. Ecco il limite cognitivo: un privilegiato che crede nell’egoismo capitalista non riesce a comprendere le ragioni di chi lavora in forma solidale per la cultura.
Un festival letterario dentro alla lotta di classe
Faccio una domanda soprattutto ai colleghi e alle colleghe che organizzano festival ed eventi culturali ma si svegliano al mattino senza il timore di entrare in un salone, in un teatro o in una libreria e trovare dei body guard. Che non ricevono una pec da un legale, la sera, mentre provano su un palco un reading, con la diffida a continuare il proprio lavoro. Che non ricevono minacce di denunce rivolte a tutti quelli che verranno a sentirli. Che non devono assistere a minacce di denunce anche al comune se ti concede un patrocinio. Che non devono cambiare in continuazione la situazione logistica perché ogni giorno cambia la forma dell’attacco che ricevi. Perché? Perché nel 2024 si può fare tutto questo a chi fa cultura?
Noi una risposta ce l’abbiamo. Ci trattano così perché il nostro è forse l’unico festival italiano che si fa dentro la lotta di classe. E che non si propone di intrattenere il pubblico. L’abbiamo detto chiaramente nel titolo della seconda edizione, citando Mark Fisher: «Non siamo qui per intrattenervi». Siamo qui per contribuire, assieme alle lotte sociali, a cambiare i rapporti di forza nella società. Molti editori e scrittori scrivono solo per intrattenere il pubblico dei lettori. Un pubblico perlopiù colto di persone benestanti che hanno costruito o ereditato un discreto capitale culturale, come scriveva Pierre Bourdieu. Ma chi vuole solo emozionare i lettori della classe medio-alta, può farlo perché il suo immaginario si colloca in una zona di confort rispetto alla propria condizione sociale, di classe e di privilegio. Noi non possiamo emozionare i lettori proletari in un mondo in cui un imprenditore o un fondo finanziario possono da un giorno all’altro impoverire 500 famiglie, un distretto industriale e una comunità operaia. Noi autori e autrici working class abbiamo bisogno di fare un lavoro culturale diverso, che trasformi i rapporti di forza e un immaginario che naturalizza come legittimi i licenziamenti e come illegittimo il fatto che un operaio parli di libri dentro la propria fabbrica invece di dare l’anima per un padrone.
Per questo il nostro festival non è un atto passivo di consumo culturale: è atto politico di partecipazione attiva e uso pubblico della letteratura, qualcosa che va già oltre l’atto di giustizia poetica. Adesso il nostro festival si spinge più in avanti e cerca di ricostruire spazi di giustizia sociale con la letteratura in un mondo tremendamente ingiusto, in cui chi vede i propri licenziamenti annullati per condotta antisindacale poi non paga gli stipendi e si prende il lusso di darci degli illegali. Un mondo così va cambiato profondamente, in meglio, tutti assieme. Per sortire assieme da un mondo in cui dei liquidatori dei sogni collettivi della classe operaia ci danno degli illegittimi.
Il diritto alla cultura
Nello statuto dei lavoratori c’è scritto che gli operai hanno diritto alla cultura. Non solo alla formazione professionale ma al violino, al clavicembalo, ai ditirambi, agli endecasillabi, ai prosimetri. Al palco, al teatro, al romanzo-mondo. A quella bellezza che ci viene privata ogni giorno da chi ci obbliga a fare lavori che rubano ogni tempo e ogni energia.
Per la proprietà della fabbrica gli operai sembrano avere diritto solo alla «ricollocazione» volontaria. A «esodare» verso altri lavori. Insomma, anche le loro parole non sono le nostre: parliamo due linguaggi diversi e le nostre narrazioni non possono incontrarsi. Diamo anche significati diversi alle stesse parole. Per loro la fabbrica è «privata», nel senso che è roba loro e loro possono anche non pagare gli stipendi, perché a casa loro fanno come gli pare. Non capiscono che un luogo di lavoro non è casa tua ma ci vivi assieme ad altri, rispettando le regole sindacali, la contrattazione, le sentenze del tribunale del lavoro. Per noi la fabbrica è «privata» nel senso che loro, che volontariamente ci sono entrati solo una manciata di volte, sembrano averla acquisita non per reindustrializzarla ma per rivenderla, «privandone» quindi la comunità cittadina di Campi e dell’area metropolitana fiorentina che in questa fabbrica trovava una risorsa produttiva, una continuità di mestiere – e di storie operaie – che risaliva alla Fiat di Novoli. Contro questa privazione, che agli occhi di chi vive nel territorio metropolitano fiorentino sembra un atto cinico e predatorio, ogni persona dotata di senso civico si sente chiamata a resistere.
Il festival come uso pubblico della letteratura
Il Festival di letteratura working class si configura come il tentativo di un gruppo oppresso, gli operai dell’ex Gkn, di intervenire sull’uso pubblico della letteratura, che è una cosa che storicamente è stata appannaggio delle classi borghesi, più o meno elitarie, piegandolo verso le necessità della loro vertenza. Questo fatto ha una portata che forse adesso è prematuro analizzare, ma si tratta di una forma di interpretazione radicale e sindacale di quello che gli anglofoni chiamano la literary public sphere.
A volte le riflessioni sulla literary public sphere, da noi poco ricevute, sono, per buttarla giù alla buona, riconducibili al ruolo civico del poeta cittadino o al bardo che sale sul palco durante l’insediamento di un nuovo Presidente negli Stati uniti. Noi invece abbiamo tentato di impiegare questo concetto in senso radicale, applicandolo al caso italiano, dove esiste una profonda tradizione concettuale, quella dell’operaismo ma anche dei Quaderni del carcere di Gramsci. Tutto questo ci ha permesso, col protagonismo operaio del Collettivo di fabbrica, di costruire un evento letterario dentro le contraddizioni vive di una mobilitazione operaia e di una lotta sindacale.
In questo senso il Festival di letteratura working class è forse il primo tentativo italiano, e anche europeo, di costruire una forma radicale di literary public sphere, ossia di intervenire con la letteratura nella società costruendo e mobilitando un pubblico, non a partire dal successo di marketing di un genere o di un’opera ma dalla solidarietà popolare attorno a una mobilitazione sindacale. Credo che nessuno prima di noi abbia fatto queste due cose assieme: un festival della classe operaia per la classe operaia (la parte di cura, nel senso anglofono di care); e una forma di lavoro culturale radicale nella literary public sphere che costruisse un’audience, un pubblico, per una letteratura di cui fino a dieci anni fa tutti i critici e i recensori italiani avrebbero negato l’esistenza. Creando al tempo stesso margini di manovra nell’immaginario per una lotta sindacale. Forse facciamo in letteratura quello che gli storici di public history fanno con la storia. Ma la cosa ci ha preso la mano ed è diventata molto più grande, innestandosi in una vertenza esemplare, quella dei mille giorni di lotta di classe del Collettivo di Fabbrica.
Attraverso questo festival quindi non vogliamo titillare il senso di superiorità morale dei lettori colti e nemmeno cooptare i poveri alla mensa dei ricchi, come capita quando i privilegiati della cultura invitano qualche scrittore «di umili origini» a eventi culturali finanziati dalla loro carità pelosa, per sentirsi, loro, persone migliori. Noi scrittori e scrittrici working class potevamo metterci a mangiare le briciole che cadono dal tavolo dei padroni alla mensa dell’editoria, ma abbiamo dignità e preferiamo dettare noi le condizioni in cui i nostri libri devono circolare: vogliamo crearci un pubblico nel mondo del libro capace di trasformare il mondo fuori dai libri, capace di aprire spazi di riflessione nel mondo reale, dalle comunità cittadine periferiche alle grandi città gentrificate. E questo non è illegale, come dicono loro, ma bellissimo.
Con la letteratura working class allora proviamo a fare cose che la letteratura mainstream, percepita come neutrale ma di fatto prodotta da élite privilegiate, idealiste e borghesi, non riesce a fare: riflettere sui rapporti tra letteratura e conflitti sociali, alimentare con la scrittura un immaginario che sia emanazione dei gruppi di lavoratori e lavoratrici subalterni; intrecciare la tradizione dell’operaismo italiano con l’opera di Mark Fisher, di Antonio Gramsci e con la pedagogia degli oppressi. E ancora: prendere dalle mani della borghesia la letteratura e farla convergere con lo sciopero, la più potente risorsa a servizio della classe operaia, per inventarsi un lit strike, uno sciopero letterario: che non sono gli scrittori che fanno sciopero, ma gli operai che usano la letteratura (di classe operaia) per rivendicare i propri salari e i propri posti di lavoro.
È una cosa importante, tra le più radicali mai fatte in Italia in ambito culturale, e faccio appello ai colleghi che si impegnano nel campo della cultura, della scuola, della ricerca, dell’editoria e dell’università a farci i conti e a manifestare la loro solidarietà, difendendo il festival, perché venendo al Festival di letteratura working class non sarete pubblico ma protagonisti di un atto collettivo di resistenza. Di certo non sarà un festival di consumo culturale come gli altri.
Anche perché attorno a questo festival, si sta giocando in queste ore una battaglia tra lavoro e capitale che sarà fondamentale per la ridefinizione dell’impegno politico di chiunque faccia cultura negli anni a venire. Non l’abbiamo voluto noi ma l’hanno voluto loro. Ai classisti dei piani alti dà più fastidio un evento in cui gli operai leggono libri delle manifestazioni o dei picchetti. Noi, per essere sicuri di stare al fianco degli operai del Collettivo di Fabbrica, faremo un festival che sarà anche una manifestazione, uno sciopero, un presidio sindacale, un picchetto. E sabato alle 19.30, al termine dell’ultimo panel della giornata, il festival diventerà un corteo e si trasferirà dal presidio operaio al centro di Campi Bisenzio, trasferendo in piazza il reading operaio in programma.
Domande di un lettore operaio
Quante vicende, tante domande. Chi ha più legittimità a usare le parole giustizia e legalità in questa vicenda? «Chi costruì Tebe dalle sette porte?», si chiedeva Brecht nelle sue Domande di un lettore operaio. Noi operai e figli di operai, che abbiamo fatto il mondo, sappiamo di essere dalla parte giusta. Vi aspettiamo a Campi Bisenzio dal 5 al 7 aprile per togliere a questo paese, dentro e fuori le fabbriche e le librerie, dentro e fuori le officine e le università, il classismo dei privilegiati. Per ripensare un nuovo lavoro culturale che alimenti l’immaginario e il protagonismo del sale della terra. Per il pane e le rose.
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin il 3 aprile 2024