Quando Franco Basaglia disse no

di Massimo Cirri /
3 Aprile 2024 /

Condividi su

È il 16 novembre 1961. Franco Basaglia, 37 anni, entra nel manicomio di Gorizia. È il nuovo direttore e fino a quel momento di manicomi non ne ha mai visti uno. Di manicomi allora, in Italia, ce ne sono più o meno cento e dentro ci sono rinchiuse 100mila persone. E sono tutti uguali. Questo qui, a Gorizia, è un po’ particolare solo perché sta al confine: uno dei suoi muri divide l’Italia dalla Jugoslavia, l’Occidente dal blocco comunista, e se un internato scappa scavalcando da quella parte, succede, andarlo a riprendere diventa quasi una questione diplomatica. E sono uguali, sempre, in tutto il mondo, i manicomi: un format.

Il nuovo direttore viene dall’Università di Padova, Clinica delle malattie nervose e mentali. Avrebbe voluto fare carriera lì. È bravo, studia, scrive le pubblicazioni che servono ad andare avanti e ha ottenuto la libera docenza. Ma non è allineato. Legge libri di filosofia: Husserl, Minkowski, Sartre. Testi che in un reparto di neurologia non si sono mai visti. Così il direttore della clinica, professor Giovanni Battista Belloni, comincia a chiamarlo “il filosofo”. Il che non è proprio un complimento.

Basaglia capisce che in università non avrà futuro. Allora c’è il concorso per direttore di manicomio, carriera di serie B. Nei manicomi si fa il lavoro sporco della psichiatria. Ci finiscono i poveri fuori di testa, le donne che non riescono a stare nei ruoli assegnati dal patriarcato feroce, i marginali, quelli schiantati da un disastro dell’esistenza. A Gorizia, terra di confine, tante vittime dell’esodo da Istria e Dalmazia, le vite storte per i fallimenti della macchina sociale. Basaglia racconterà che quel giorno, entrando nel manicomio, gli arriva addosso un odore che ha già sentito. È stato nel 1944, quando da studente, antifascista, gli trovano dei volantini nella borsa e sta sei mesi in galera. È proprio uguale: un odore di merda e di morte.

La vede, la morte, entrando nei padiglioni. È in quello che gli si para davanti, la miseria dei cameroni, le persone legate ai letti, la moltitudine che si aggira avanti e indietro, senza senso né finalità, la violenza che pervade tutto, e, di più, la percepisce in qualcosa che solo da filosofo riesce a vedere bene: nell’assenza. Dice: «Qui ci sono 600 internati ma non c’è più nessuno». Non sono più persone, cittadini, soggetti, vite umane: sono cose. Basaglia sente la vergogna e ha voglia di andarsene. Però resta. E comincia a coltivare un pensiero mai pensato prima: che si debba e si possa distruggere un manicomio, non riformarlo, cambiarlo, modernizzarlo, ma proprio farne a meno. Perché, scrive, «il manicomio è un campo di concentramento, un campo di eliminazione, un carcere in cui l’internato non conosce né il perché né la durata della condanna, affidato come è all’arbitrio di giudizi soggettivi che possono variare da psichiatra a psichiatra, da situazione a situazione, da momento a momento, dove il grado e lo stadio della malattia hanno spesso un gioco relativo».

In quel primo giorno l’Ispettore capo del manicomio, si chiama Michele Pecoraro, gli mette davanti il registro delle contenzioni, il librone dove sono scritti i nomi degli internati che la notte precedente sono stati legati al letto. Il “Signor Direttore” deve solo firmarlo, si è fatto sempre così, un gesto da niente. Gli porge la penna stilografica e Franco Basaglia la prende, toglie il cappuccio e si blocca. Ci pensa un attimo. Chi è presente nella stanza dirà che pare un tempo lunghissimo. Poi la restituisce all’Ispettore e lo dice nitidamente, in veneziano: «E mi no firmo».

Un gesto di rifiuto, per iniziare. E dopo molti atti che non si sono mai visti in un manicomio: persone slegate, reparti sempre un po’ più aperti, con attenzione e responsabilità, umanizzazione. Franco Basaglia e Antonio Slavich, un collega che lo ha raggiunto qualche mese dopo, passano i pomeriggi, ogni giorno, a parlare, a cercare di parlare, individualmente con ognuno dei 600 internati. Mettendo un po’ da parte, tra parentesi, quella diagnosi, schizofrenia, catatonia, che copre tutto per lasciar posto alle parole e ai racconti delle vite individuali. Con le tragedie attraversate, i fallimenti, le sofferenze, i demoni silenziosi o urlanti che le persone si portano dentro. Ognuno la propria storia. Per ricominciare, faticosamente, a ridiventare persone. Prendono dall’esperienza della comunità terapeutica, quella sviluppata in Gran Bretagna per i soldati ammattiti per le violenze della guerra, e trasformando tutto il manicomio in una gigantesca, provvisoria, comunità in cambiamento.

Hanno tutti contro: le psichiatrie, la politica, i giornali, la magistratura. Anche i sindacati. Che fanno fatica a capire tutti quei cambiamenti nell’ordine del manicomio e li temono. La Cgil cambierà, ma solo anni dopo, e si riscatterà definitivamente impegnandosi con grande energia nella battaglia per la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, l’ultimo residuo dell’epoca manicomiale, nel primo decennio degli anni 2000. A Gorizia, tra il 1961 e il 1969, Basaglia e i suoi – la moglie Franca Ongaro sarà una parte fondamentale del gruppo – hanno dalla loro l’opinione pubblica. Perché ci sono grandi fotografi che rendono visibile l’inumanità del manicomio, giornalisti che raccontano, Sergio Zavoli che porta la questione in televisione e lo guardano milioni di persone. C’è una giovane giornalista della tv finlandese, si chiama Pirkko Peltonen, che filma l’assemblea generale dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, con gli internati a dibattere se la televisione finlandese possa o non possa riprendere l’assemblea generale dell’ospedale psichiatrico di Gorizia. Vincono i sì. È la testimonianza di quanto abbia risonanza globale quello che sta succedendo in un manicomio di confine. Basaglia e i suoi scrivono un libro, un saggio denso, “L’istituzione negata”, Einaudi, che in pochi mesi vende 50mila copie e vince il prestigioso premio Viareggio. E discute, l’assemblea generale, se accettarlo o meno.

Ma la politica è impaurita. Quello che sta succedendo è insopportabile per la Democrazia Cristiana, che governa la provincia di Gorizia. Nel settembre del 1968, quando Alberto Miklus, un internato che è tornato a casa con un permesso temporaneo, uccide la moglie, tutto precipita. L’indagine giudiziaria non coinvolge Basaglia ma segna la fine della sua esperienza. Lascia Gorizia, trascorre sei mesi a New York, visiting professor, viaggia in Centro e Sud America. Nel 1970 ci riprova nel manicomio di Colorno, provincia di Parma, amministrata dal Partito Comunista, che si è impegnato a sostenerlo. Ma anche lì ci sono molte resistenze. Perché per il Partito Comunista la questione dei matti, come di tutte le marginalità, è secondaria. Verranno liberati, i matti e tutti gli altri, quando il grande cambiamento spinto dalla classe lavoratrice libererà tutti. O, più concretamente, gli psichiatri emiliani non vogliono avere niente a che fare con un’esperienza così radicalmente differente.

Poi tutto ricomincia nel 1971 a Trieste. Un altro manicomio, grandissimo, 22 ettari sulla collina, quaranta palazzine e un politico, Michele Zanetti, democristiano, giovanissimo, che lo chiama. Insieme rimettono in moto la macchina del cambiamento. Nel 1972, il 3 maggio, davanti al dottor Vladimiro Clarich, notaio, 28 persone costituiscono la Cooperativa Lavoratori Uniti. Sedici sono internati. Hanno capito, insieme agli altri, che il loro lavoro tiene in piedi il manicomio. Perché spalano il carbone nelle caldaie, lavano la biancheria, la distribuiscono nei reparti, cuciono le misere divise che tutti devono portare. Ricevono in cambio un buono, un pezzo di metallo, il manicomio batte una sua moneta, da spendere nello spaccio interno. E allora, pensiero radicale, se è lavoro deve essere riconosciuto come tale. Allora si fa una cooperativa. Non è facile: il Tribunale rigetta l’atto costitutivo, i sedici sono internati, non cittadini. Non possono votare, contrarre matrimonio, fare testamento. Figurarsi fondare una cooperativa. Il notaio fa ricorso, la Corte d’appello respinge. Ci riprovano: nuovo atto costitutivo con gli internati che diventano “ricoverati volontari”, per una legge del 1968 che sta cominciando a mutare la fissità dell’Ospedale psichiatrico e per una delibera dell’amministrazione provinciale, a firma Michele Zanetti, che dice basta all’ergoterapia, la falsità del lavoro senza paga spacciato per cura. Nasce la prima cooperativa sociale del mondo, è il 16 dicembre 1972, e tra i soci c’è Franco Basaglia.

Poi ancora avanti, verso un’altra dimensione, anch’essa mai pensata prima: cosa costruire nelle città al posto del manicomio. Una rete di servizi, aperti sempre, giorno e notte, nei quartieri, vicini alle persone. Il primo Centro di Salute Mentale apre nel 1975, il Primo Maggio. Infine la legge 180, maggio 1978, che applica la Costituzione: anche da matti, anche da molto matti, anche se si è fuori come un balcone, si rimane cittadini. E basta manicomio. Ci vorranno anni per chiuderli tutti. Resistenze, inerzie.

Poi, storie di oggi, tornano prepotenti le psichiatrie che giocano tutto sulle diagnosi; ci sono molte persone legate ad un letto nei reparti degli ospedali; c’è il sottoinvestimento nei servizi di salute mentale come in tutta la sanità pubblica. Tocca, sempre, ricominciare e continuare e cambiare. È faticoso e difficile. Ma l’alternativa è la vergogna.

Questo articolo è stato pubblicato su Sinistra Sindacale, n.5, 2024. Immagine di copertina, Harald Bischoff, CC BY-SA 3.0 (Wikimedia Commons)

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati