Tornare dal valico di Rafah e riprendere una vita più o meno normale non è per nulla facile. È un po’ la sensazione del pesce fuor d’acqua, la sensazione perenne e continua di vuoto e di colpa per essere tornato qui, in questo Occidente difficile e colpevole e soprattutto non essere laggiù ad ascoltare e vedere ciò che accade e che nessuno è in grado di raccontare nella sua drammaticità. E c’è molta rabbia che occorre gestire e trasformare in maggiore forza e ostinazione per non perdere quel senso di utilità che la Carovana per Rafah ci ha permesso di vivere.
La situazione è drammatica – e questo ormai lo sappiamo – ma non è secondario metterlo in evidenza. Tra i tanti messaggi uno infatti mi ha colpito: «Il valore di questa missione non è solo sensibilizzare l’opinione pubblica, quanto supplire ad una evidente assenza di informazione data dalla carenza (voluta) di mezzi di informazione sul campo». E pensandoci e ripensandoci, guardando le reazioni e ai tantissimi post, servizi, foto e video che abbiamo prodotto in questi giorni di missione credo sia proprio questo il punto ed è uno dei motivi per cui ringrazio anche ‘il manifesto’ per questo ennesimo spazio.
La Carovana ha aperto uno squarcio, ribaltando una narrazione mediatica insufficiente quando non travisata di ciò che sta accadendo dentro Gaza e fuori al Valico. Ed è questo un lavoro che sta continuando, facendo sì che quel pugno nello stomaco vissuto in prima persona da noi possa arrivare in molti luoghi del nostro Paese per raccontare il livello di disumanità, sadismo e indifferenza caduto su questo pianeta.
Una guerra che non è una guerra perché non ci sono eserciti che si contrappongono: c’è un massacro in atto, quello di un popolo, nel silenzio più totale, che muore perché è nato palestinese. La storia non sarà tenera con noi, soprattutto se continueremo a trovare sempre e solo differenze, se il nostro obiettivo sarà sempre e solo quello di correggere le virgole di appelli che parlano solo ai nostri piccoli egoismi e se, soprattutto, non saremmo in grado di concentrarci sull’unica cosa che tutte le organizzazioni palestinesi, egiziane, le Ong e le agenzie internazionali ci hanno chiesto: batterci per il cessate il fuoco, aprire i valichi agli aiuti e alle Ong, permettere un vero e proprio intervento umanitario, curare chi ha bisogno di essere curato e liberare la Striscia dall’occupazione militare.
Se ciò non avverrà, l’Organizzazione Mondiale della Sanità incontrata a Il Cairo ce lo ha detto con estrema chiarezza, dagli attuali 31 mila morti il bilancio potrebbe ben presto salire a 85 mila perché dentro Gaza non si muore più sotto le bombe. Si muore per malnutrizione, mancanza di cure adeguate, mancanza di medicine, mancanza di strutture sanitarie e infrastrutture capaci di garantire dignità e sopravvivenza. In questo momento al valico di Rafah sono presenti oltre un milione e mezzo di persone, quando prima del 7 ottobre la popolazione residente si avvicinava a 280 mila abitanti.
In questo momento si vive in spiaggia, tra le macerie e in quelle pochissime case sopravvissute ai bombardamenti in condizioni drammatiche: 60 persone in 80 metri quadri pur di avere un tetto sulla testa, 1 bagno ogni 500/600 persone quando gli standard delle Nazioni Unite in situazioni di crisi umanitarie parla di 1 ogni 20 persone. Nessuno entra o esce senza l’avallo dell’esercito israeliano e soprattutto se non hai 5000/7000 dollari che ti permettano di oliare anche la disumanità più feroce.
Ma, come abbiamo scritto alla Presidente Meloni, nero su bianco in una lettera aperta a firma delle Ong, delle Associazioni e di tutti i parlamentari che hanno fatto parte della delegazione, chiediamo inoltre che il nostro Paese riconosca lo Stato di Palestina. «Due popoli e due Stati» continuerà a rimanere uno slogan terribilmente vuoto e inutile e la pace ancora troppo lontana.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 20 marzo 2024