Carne e lavoro, una scommessa ERT

di Siliva Napoli /
16 Marzo 2024 /

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Ed eccoci qui, per una ideale terza parte, destinata forse ed auspicabilmente ad averne molte altre, dedicata al tema del lavoro e del progetto, ahinoi binomio assai discusso e discutibilissimo sotto molteplici aspetti. Con più di una legittima ragione e specie se i termini tendono a intrecciarsi grazie a quella e che collega due mondi compatibilissimi; eppure, di fatto talvolta confliggenti se non suffragati da volontà di visione e contenuto ben temperate. Qui noi torniamo a verificare la presenza di questa volontà di intenti, una sorta di convergenza, in quello che è il territorio cultural istituzionale locale che maggiormente ci compete ovvero Ert, il nostro teatro regionale di livello nazionale.  Torniamo volentieri infatti, dopo le Fleurs di Balletto Civile di cui abbiamo già parlato e dopo la visione di un dittico sperimentale alle Moline che metteva in campo tutta la forza dell’age pride e della maestria di una compositrice coreuta quale Teri Weikel, ad analizzare cosa significhi avere una drammaturgia di un certo tipo performativo a partire dal progetto Carne, che poi esorbita in qualche modo dalla definizione di progetto in quanto tale. Sappiamo infatti che ove le progettualità si circoscrivono e delimitano nel tempo e nello spazio, per quel che riguarda Carne, noi potremmo parlare in verità di una metodologia, o meglio di una vera e propria attitudine, estremamente materiale, artigiana, collettiva.  E che in qualche modo nell’ambito delle programmazioni Ert, costruite come matrioske tematiche molteplici, pur nella sua peculiarità fuori centro, potrebbe considerarsi una cornice ideale.  

Ne parliamo brevemente con Michela Lucenti, danzatrice, coreografa, drammaturga e libera testa pensante delle nostre scene.  

Mi sembra che Carne si stia affermando ed espandendo sempre di più nel palinsesto Ert, per dirla così, ma in qualche modo, chissà perché, lo vedo molto collegato ad altro focus evidenti in questa stagione. Tutto questo, non perché non abbia identità e autonomia forti, ma perché si situa come processo strettamente relazionale e, correggimi se sbaglio, ritengo anche che non si ponga perlomeno non solo, dentro un discorso di rinnovamento stilemi e canoni della performance.  

In effetti considero le mie, partiture di drammaturgia fisica. Questo significa per esempio, stare nei corpi qui ed ora e nella loro capacitazione ad esprimere, storie, aneliti, discorsi, lamenti, speranze, rabbia e desiderio. Praticamente quasi da sempre e sicuramente già dai tempi dell’Impasto, la prima compagnia fondata con Alessandro Berti ed in un primo tempo di stanza a Bologna, abbiamo sempre voluto affrontare il discorso dei corpi espressivi e non conformi magari al canone della danza da palcoscenico, ma a pieno titolo dentro una consapevole ed efficace rappresentazione della realtà e di se stessi.  

Abbiamo poi trascorso un lungo periodo in Friuli, Venezia Giulia, terra segnata dal fervore basagliano, lavorando nei territori con e sulle marginalità e differenze.  

Non si tratta di portarle in giro come trofei queste caratteristiche di affanno e difficolta, ma di poterle incorporare appunto in un compiuto discorso narrativo non ermetico o avanguardistico per principio o partito preso, ma semplicemente autre, rispetto al canone, al criterio. 

Che chissà perché nella danza poi questo canone è particolarmente severo, congiungendo da sempre il discorso dell’espressione corporea a criteri quali leggiadria, grazia, gioventù, bellezza tout court. Io invece credo fermamente che l’ultima frontiera di alterità e dunque forse di alternativa, passi necessariamente dai corpi reali, tangibili, multiformi e persino inclassificabili che esistono e che a partire dalla loro pregnanza si possano costruire relazioni nei luoghi e negli spazi. Relazioni di reciprocità e di simmetria, se non di parità, equità, redistribuzione di poteri. Molto spesso, trovo disarmante vedere quanto le stereotipie siano dure a morire, anche nelle stesse persone che avrebbero tutto l’interesse ad abbatterle…  

Come dicevo prima i io provengo già in quanto Impasto, prima di costituire Balletto Civile che è di base a La Spezia, con questa cerniera stretta con Bologna, da una intensa esperienza con il disagio mentale per come poi si esprime in una terra liminare e molto particolare quale quella di area goriziana…  

Da li credo di aver imparato lo sviamento e il riposizionamento negli spazi e nei contesti…Ci sono moltissimi modi di lavorare nell’ambito, anche per categorie settoriali di disagio e sofferenza… tutti noi ne conosciamo ottimi esempi ed esperienze, un po ovunque in Italia e anche di fama internazionale. Moltissime esperienze proprio qui a Bologna, con le quali io stessa collaboro, come per esempio Nanni Garella, che si spinge su un terreno ulteriore e cruciale, ben oltre l’espressività, che è quello dell’emancipazione e di far ottenere riconoscimento, credibilità e status economico ai suoi speciali attori… Bellissimo lavorare con lui e con loro a Porcile e in questo caso è importante anche il commento dal pubblico meno scafato e avvertito che appunto, in qualche modo non percepisce dislivelli di competenza, perché la compagnia è in tutto professionale. Mi sono quindi molto avvicinata ai Teatri della Salute e in questo anno di celebrazioni basagliane, vedrai che sono coinvolta in chiusura nella presentazione del manifesto di queste pratiche teatrali. Io ho comunque una mia visione, ben evidente in Les Fleurs, per cui reputo quasi salutare la contaminazione, non solo la tolleranza o l’inclusione, con gli aspetti delle diversità…. Considero davvero questo un mondo di abilita diverse, sono affascinata dagli studi sulle neurodivergenze e dalle possibilità che aprono in senso performativo. 

Non ci sto a considerare patologia le non conformità. Credo che ci siano modalità di non resa alla realtà di sistema… non dico la malattia mentale non esista, non voglio negare la sofferenza e soprattutto comprendo quanto lo stigma faccia male e quanto per evitarlo tutti noi siamo disposti a cedere qualcosa in originalità e libertà. Tuttavia, credo già nei fatti esista e per fortuna permeabilità tra mondi diversi e che le differenze, i conflitti, le alterità esprimano tensioni al mutamento. Mutamento inevitabile, necessario, evolutivo se riconosciuto e compreso. Una drammaturgia attraversa corpi che esprimono tutta la gamma possibile dalla cosiddetta normalità alla più spiccata divergenza e affiancarli renderli compagni di resistenza più che resilienza, è ciò che amo fare.  

In conseguenza di questo, mi piace moltissimo portare la performatività fuori dai Teatri e lavorare con professionisti e non, allievi, ma anche curiosi, amatori, basta che vogliano mettersi in gioco davvero.  

Bisogna dare aria in senso letterale alla pratica coreografica, stare in strada o in luoghi non convenzionali mi piace moltissimo… Ma questo non significa affatto erogare una sorta di servizio sociale come un altro, allo scopo di favorire il benessere o l’integrazione.  

L’arte deve saper inquietare e porre dubbi, domande sul nostro status quo e mai spingere verso un consenso purchessia all’esistente. L’arte è sempre la mia postura, perché permette sguardi ravvicinati e sguardi d’orizzonte e che attraversano simultaneamente tutte le direzioni.  

Alla luce di quanto dici, ci puoi spiegare un po’ meglio allora la tua presenza nei cartelloni Ert?  

Si, in effetti capisco possa sembrare tutto un po’ contraddittorio. Non è che io ce l’abbia con il luogo teatro in sé o con i palcoscenici… Ma le logiche economico-promozionali fanno sì che intanto se ci fai caso, quando si parla di danza, sono spesso assoli, o massimo due performers in scena. Io che amo lavorare con il gruppo, il collettivo, come dicevamo estremamente composito, anche sul lavoro di prova ho bisogno di un altro respiro. Poi la ratio che governa il sistema dello spettacolo nel nostro paese fa sì che, quando si parli di danza, la logica della carineria, non investa solo i corpi in scena per cui in definitiva, si può mettere qualsiasi colonna sonora o diavoleria sperimentale sul palco ma chi danza dev’essere bello giovane e magro, ma anche che si parli di vetrine, per esempio, della danza e non di laboratori e pedagogie.  Così, quando Valter Malosti che conoscevo già dal suo lavoro a Torino, mi ha contattata, ho precisato subito che io non sarei stata quella che organizzava un festival della nuova danza contemporanea ma che portava un tema, un contenitore, un modulo estensibile, cangiante ma durevole e che l’aspetto formativo dovesse esserne parte integrante. Anche a costo di sacrificare qualche nome straniero o grandi compagnie… anche se poi ci sono delle perle che occhieggiano…  

Quindi “Carne” investe di sé con cose molto diverse, anche uniche, non replicate, perché è l’approccio, l’attitudine che sono replicabili, tutti i teatri di Ert lungo l’arco dei cartelloni … quasi trenta spettacoli diversi e laboratori con giovanissimi che esiteranno a fine anno più scuola di Alta formazione per la drammaturgia fisica. Un lavoro come vedi complesso, ad ampio spettro e non la sezione danza di una programmazione .io personalmente adoro insegnare ed è da tutti questi stimoli compositi, di osservazione di vita reale, dalle culture più diverse che mi arrivano che poi può partire la creazione e il progressivo rinnovamento dei linguaggi e degli stilemi.  

Mi piace chiudere questa conversazione sottolineando mentalmente le osservazioni di Michela con la visionarietà di Hannes Langolf, protagonista insieme allo straordinario Ed Mitchell, di  How about now, riflessione in teca di vetro sulla fragilità delle relazioni interpersonali odierne, in prima assoluta a Cesena eppoi in unica replica domenica scorsa in Arena e sempre interno alla progettualità di Carne. 

Devo anche dire che le ultime riproposizioni beckettiane viste nei teatri Ert, come ad esempio aspettando Godot con Randisi e Vetrano, per la regia di Theodoros Terzopoulos  come pure, Giorni felici secondo Massimiliano Civica , in qualche modo vengono a sposarsi benissimo, con quell’aura di Umano troppo umano che emanano, ai discorsi fin qui fatti , restituendo come da tempo Ert cerca di fare , un fil rouge interpretativo della cultura del secolo breve  in connessione con gli aspetti più enigmatici dei nostri giorni ed una aspirazione al superamento della” selva oscura  “del momento per intravvedere Nuova Terra e nuovo Cielo, cosi come recita il claim di stagione.  

Il focus Lavoro, che si estende anch’esso fino a maggio, ci fornisce una rotta ulteriore da percorrere in questo senso.  Non si può dire che non abbia comportato momenti col botto, come si dice, a partire dalla riproposizione di quel Capitale, un libro che non abbiamo ancora letto, frutto di una straordinaria sinergia tra Kepler 452 e il Collettivo della mitica fabbrica GKN da Campi Bisenzio.  

Un lavoro, è il caso di dirlo, che è una ripresa dopo  il conseguimento del prestigioso Premio Ubu ai progetti speciali ,ma  anche un po’riallestimento: infatti un teatro verità di questo tipo non può semplicemente riprodursi, ben oltre la consapevolezza che ogni rappresentazione costituisca di per sé un unicum …la saga drammatica di questa vertenza che è diventata simbolo di lotte convergenti e trasversali con un salto di qualità politico culturale che sembra impossibile per i tempi, appunto, conosce ogni giorno nuovi sviluppi e nuove controffensive. Nel tempo, il mitico collettivo, ha visto con molti patemi e lacrime vere da parte di chi è stato costretto dalla durezza della personale contingenza a lasciare, assottigliarsi di molto i suoi ranghi. Parallelamente però, ha affinato i suoi molti strumenti di intervento e imposto un’agenda pubblica fitta di appuntamenti in tutta Italia e di consapevolezza culturale sempre più alta. Questi sono operai fatta classe e come tali organizzano la loro vita in senso di un contropotere e controproposte di stili di vita e modelli culturali. In questa versione ultima, tre diverse soggettività turnano a raccontare la loro storia di volta in volta secondo necessità e bisogni al posto di quello che è andato a scegliersi un altro lavoro. Perché non ci sono poi solo i soldi pur dirimenti di mezzo, ma anche questioni di identità, appartenenza, aderenza all’Universo del Lavoro o meno.  Ogni volta in qualche modo , il Capitale è un rito che si celebra , in cui si raggiunge un grado di compassione nel senso etimologico del termine, difficile da spiegare qui sulla pagina, ma che rende implicati e coinvolti gli spettatori ai performanti, i più anziani onusti di memorie ai più giovani privati di speranze, i borghesi, di nome e di fatto, passatemi il joke, ai precari, ai drop outs che mai si sono sentiti classe come invece insegna una importante storia di orgoglio , anche professionale, metalmeccanico , fin sulla soglia di questa sorta di foresta algoritmica in cui tutto è giustificabile e nulla comprensibile. Brividi, come direbbe qualche cantautore dei giorni nostri in sala, per una volta non da sindrome splatter: o forse sì, perché è di un massacro di saperi, energie, competenze e legittimi bisogni, desideri e sogni che in fondo si parla.  

Naturalmente un ritorno così importante è stato incastonato all’interno di un ulteriore focus comprendente incontro in cineteca, laboratorio di self fiction, soprattutto la proposizione, lo scambio, quasi il gemellaggio con il regista portoghese Marco Martins che ha presentato l’interessantissimo Pendulum, ovvero un altro spettacolo di biografia collettiva. Generazioni di lavoratrici provenienti da ex colonie portoghesi condividono con il pubblico fin sulle soglie del parossismo, pendolarismo emotivo e materiale tra luoghi del cuore, della relazione, luoghi della fatica e soprattutto dello spostamento e dello spaesamento: potente e coinvolgente anche per altre ben diverse biografie presenti in sala, a giudicare dalle molteplici repliche affollatissime.  

Ma hanno segnato molti punti nel mio personale palmares del cuore anche altri due lavori estremamente diversi tra loro, quali, Scandinsk, del giovane Jacopo Squizzato da un testo del mai abbastanza compianto e rimpianto Vitaliano Trevisan, punta di diamante di una generazione di talenti del nord est messi a dura prova dalle circostanze, tra i quali possiamo annoverare Massimo Carlotto e il regista Mazzacurati.  

Tornando a noi, considerate che questo è il primo di una trilogia di testi di Trevisan dedicati alle mutazioni antropologiche nel mondo del lavoro di operosa area vicentina, composto tra la fine dei 90 e l’inizio dei duemila, in qualche modo profetico, ambientando un ritratto di piccoli balordi di provincia dentro un magazzino. Non siamo forse nel mondo della post-produzione e nell’impero della logistica?  

Tre neghittosi magazzinieri in caschetto e grembiale d’ordinanza condividono noia, frustrazione, pensieri d’evasione, piccole miserie di virilità umiliata ed escapismo fallimentare tramite una coazione a ripetere   di gesti a variazione minima come in una partitura di Alvin Curran anche qui sapientemente gestiti dal disegno sui movimenti condotto dalla nostra Michela Lucenti. Si ride amaro, si vede come in una lanterna magica tutto il nostro più distopico ieri diventare un eterno presente senza scampo.  

Infine di questa scarna e incompletissima panoramica, eccoci ad una creazione piuttosto anomala nel panorama attuale per il potente lirismo che mette in campo, la forza arcaica di un femminino che si mette in gioco e in mostra con tutta la carnalità che gli compete, quale questo Di Grazia, ovvero la voix du patron della eccezionale performer Lidia De Stefano, accompagnata nella regia e drammaturgia dal coreuta francese Alexandre Roccolie da una squadra di tecnici donne :una sorta di Stratos -Femmina , una apparizione panica in calzari e siringa da un altro pianeta. Voce recitante, salmodiante, ululante, donna che corre certamente avanti ai lupi, ma anche Mina, la diva, iconica tigre graffiante dagli anni 60, poi pastorella tormentata, vilipesa, forse persino da quel materno che pure dovrebbe difenderla e invece la getta anche qui per tradizione a ripetere e impotenza nel mondo dei maschi e dei padroni. Eppure, non si fa umiliare e si ribalta in una sorta di nemesi della figura ancillare e virginale di Cicciolina, esibendo con il medesimo candore, ma animo ferino e non compiacente al canone dominante, un corpo cornucopia privo di malizia perché impossibile da assoggettare fino in fondo e da fare oggetto di proiezione. Una grande lezione antropologica sul come rovesciare il segno del comando di una intera civiltà.  

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